Ján Korec, il vescovo in tuta

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Nel febbraio 2014 andai dal card. Ján Korec, che aveva da poco compiuto novant’anni. Era nato a Bošany, una ventina di chilometri da Nitra, il 22 gennaio 1924, nella Slovacchia orientale.

Nitra è la più antica città della Slovacchia, una perla, situata sulle rive del fiume omonimo alle pendici dei Monti di Tribeč. Risale al IX secolo e divenne il centro dell’evangelizzazione dei popoli slavi. Fu eretta a diocesi nell’880, prima di Praga (973).

Il novantenne Korec vi era stato vescovo dal 6 febbraio 1990 fino al 9 giugno 2005. Lo incontrai in un appartamento ai piedi della fortezza del XI secolo.

Avevo sentito per la prima volta parlare di Korec agli inizi degli anni ’80, quando mi incontrai con il direttore per gli affari religiosi, Karel Hruza, un hussita duro e freddo, al quale avevo chiesto informazioni sulla Chiesa clandestina. Mi aveva risposto di essere al corrente dell’esistenza di cinque vescovi clandestini, di cui aveva discusso animatamente con la Sante Sede, impegnata nell’Ostpolitik.

Netto e sferzante era stato il suo giudizio: una Chiesa contro la legge. Mi aveva informato che a Brno, in Moravia, c’era il vescovo clandestino Felix Maria Davídek, che lavorava in ospedale; che a Bratislava, in Slovacchia, c’era il vescovo clandestino, Ján Korec, che riparava ascensori. E aveva aggiunto che ce n’erano degli altri.

Il card. Korec mi impressionò per la sua memoria di ferro.

«La mia famiglia era povera. Mio padre fece l’operaio per ben cinquantadue anni nella fabbrica delle calzature, la famosa Bat’a. Si respirava un certo clima anticlericale dovuto a situazioni sociali non sempre tenute in considerazione dalla gerarchia cattolica. Sulla mia prima formazione spirituale influirono ottimi sacerdoti, che si dedicavano anima e corpo ai giovani. I miei genitori erano praticanti, ma non tanto devoti.

Ho fatto il chierichetto e intendevo proseguire gli studi, mi sentivo chiamato al sacerdozio. Ma la mia famiglia era povera e non poteva sostenermi negli studi. Un amico, entrato tra i gesuiti, parlò di me ai superiori, che mi invitarono a visitare la loro comunità a Ružomberok, oggi celebre per la sua università. Vi trascorsi due settimane e mi feci un’idea della vita dei gesuiti. Mi faceva da guida il famoso biblista Stefan Porúbcan. Mi diede da fare un compito scritto, che ritenne ben fatto. Era la mia prima opera letteraria. Mi presentò al rettore e gli feci una buona impressione. Mi propose di terminare gli studi liceali a Ružomberok e di entrare in noviziato. Ero felicissimo. Così diventai gesuita».

Jan fece gli studi di teologia a Trnava e quindi a Brno, antica capitale della Moravia, e li terminò nel 1947. Nel febbraio 1948, i comunisti presero il potere e iniziarono una furibonda e diabolica azione per liquidare la Chiesa. Korec terminò gli studi di teologia nella famosa «notte dei barbari», nell’aprile del 1950.

«Le milizie comuniste ci portarono in un “monastero-campo di concentramento”. Vi erano religiosi di tutti gli ordini e congregazioni. Ci suddivisero in gruppi e ci misero in diversi campi di lavoro. Io, con altri quattro gesuiti, avevo un documento di esenzione dal servizio militare per ragioni di salute.

Per un gioco della Provvidenza ci trovammo liberi e cominciammo a lavorare in un’impresa civile. Uno di noi era il futuro vescovo Pavel Hnilica, che organizzò un’ordinazione clandestina nella cappella dell’ospedale di Rožňava, città ai confini con l’Ungheria, dove il 1° ottobre 1950, il vescovo Róbert Pobožný ci ordinò sacerdoti in piena clandestinità».

Nel frattempo, i comunisti avevano imprigionato tutti i vescovi. Due furono condannati all’ergastolo. Il vescovo Ján Vojtaššák  venne condannato a 24 anni di prigione. In questo contesto, con le speciali facoltà concesse da Pio XII, vennero ordinati il vescovo Barnaš e il vescovo di Rožňava. Su raccomandazione del provinciale dei gesuiti, fu consacrato vescovo anche Pavel Hnilica, che svolgeva il servizio militare nei campi di lavoro.

Egli ordinò diversi sacerdoti clandestinamente. Ma la polizia scoprì la sua attività e così, clandestinamente, scappò dalla Cecoslovacchia e, attraversata l’Austria, raggiunse Roma. Il provinciale dei gesuiti gli chiese che, prima di partire, consacrasse vescovo il suo successore e fu proposto Ján Korec, giovanissimo, sacerdote da appena pochi mesi. Era il 24 agosto 1951.

Korec fece l’operaio per venticinque anni e continuò a scrivere nella clandestinità.

Oggetto di dibattiti, anche assai accesi, è ancor oggi l’Ostpolitik, che ebbe ufficialmente i suoi inizi nel mese di maggio 1963, quando mons. Agostino Casaroli entrò in contatto con il regime comunista ungherese e con la Repubblica cecoslovacca. Secondo il pensiero di Paolo VI, non si trattò di una politica in senso stretto, ma piuttosto di una sollecitudine pastorale verso la Chiesa nei Paesi sotto il giogo comunista. Chiesi a Korec che cosa ne pensasse.

«Non posso che rispondere: male! Casaroli era senz’altro una brava persona, un ottimo sacerdote, ma era molto ingenuo nei confronti dei comunisti. Anche l’arcivescovo Poggi, un altro della Ostpolitik vaticana, era un ingenuo. Mandò padre Bukovsky a Petrzalka nell’agosto 1976 a dirmi che il Vaticano mi pregava di non ordinare, per il momento, sacerdoti. Fui toccato profondamente. Un anno dopo, mi fece visita di nuovo padre Bukovsky e gli chiesi se fosse ancora in vigore il divieto.

Mi disse che potevo ordinare sacerdoti dei religiosi, ma non dei preti secolari. Mons. Poggi, capo della delegazione vaticana per le trattative con la Repubblica cecoslovacca dal 1973 al 1986, diceva ai comunisti che, durante i colloqui, non venivano fatte ordinazioni clandestine. Ingenuo! Non sapeva che tutto veniva intercettato. Io obbedii perché non volevo creare danni e divisioni in Slovacchia, ma non credo che questa fosse la volontà di Paolo VI. Penso invece che Paolo VI non venisse informato. Di certo so che un documento che illustrava la situazione non gli fu consegnato».

Chiesi al card. Korec un ricordo dello storico, card. František Tomášek , arcivescovo di Praga.

«Anche Tomášek fu consacrato clandestinamente ed ebbe all’inizio un atteggiamento di simpatia nei confronti di Pacem in terris, un’associazione del clero che intendeva collaborare con lo Stato alla costruzione della patria socialista, incoraggiare i fedeli all’onestà, all’impegno nel lavoro e a sostenere la pace nel mondo. Più tardi, però, se ne distaccò, cambiò opinione e incominciò a collaborare con i teologi clandestini Madr, Zverina…Gli feci visita alcune volte a Praga. Alla fine divenne un arcivescovo molto coraggioso, sostenuto anche da noi in Slovacchia».

Eminenza, che testamento lascia?

Dopo attimi di silenzio, mi rispose:

«Essere uniti e fedeli al santo padre. Le confesso: ho sofferto meno nelle prigioni che quando m’imposero di non ordinare sacerdoti nella clandestinità. Ho ubbidito. Questo è il mio testamento: non lasciarsi mai coinvolgere in azioni che dividono la Chiesa».

Il sole calava sulla fortezza di Nitra e il cardinale novantenne mi benedisse, come gli antichi patriarchi biblici. In Slovacchia si susseguono in questi giorni le celebrazioni ricordando il “vescovo in tuta” a cent’anni dalla sua nascita.

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