
Il pontificato di Leone III coincide con l’avvento al potere di Carlo Magno, re dei Franchi. Le questioni dottrinali affrontate dal terzo Leone.
«A voi Padre santissimo, spetta alzare – come Mosè – le mani a Dio per aiutare la nostra milizia, cosicché, con la vostra intercessione e grazie alla guida e alla concessione di Dio, il popolo cristiano riporti sempre ed ovunque vittoria sui nemici del Suo santo nome, e il nome del Signore nostro Gesù Cristo sia glorificato nel mondo intero».[1] Così si legge testualmente in una Lettera di Carlo Magno – indirizzata nell’896 a papa Leone III, terzo predecessore che porta il nome dell’attuale Pontefice –.
Carlo, l’avvocato difensore della santa Chiesa – come sarà apostrofato dai due papi a lui coevi –, opera la famosa distinzione tra quelli che sarebbero dovuti essere i compiti propri del pontefice romano e quelli che l’imperatore, invece, si auto-assegnava per ri-unificare sacro e potere, Roma e Oriente, nelle sue mani.
Gettare ponti tra due poteri
Si apriva la lunga, ma anche tormentata, stagione dei rapporti tra sacerdozio e potere politico, che ancora nel Seicento vedrà intervenire il gesuita Roberto Bellarmino che, in due conclavi, rischiando di essere eletto, aveva pregato: «A papatu libera me, Domine!».
Un dibattito, quello condensato nelle battute di Carlo Magno che, dalla Breccia di Porta Pia in poi, affaticherà teologi e giuristi per distinguere, e non separare, Chiesa e Stato, sacro e profano, istituzione ecclesiastica e centri di potere statali.
Ecco il compito che Carlo Magno attribuiva a sé stesso, alludendo alle migrazioni barbariche, agli assalti musulmani e alla necessità di coesione interna: «Secondo l’aiuto della divina misericordia, difendere con le armi ovunque, all’esterno, la Santa Chiesa di Cristo dall’incursione dei pagani e dalla devastazione degli infedeli, e, all’interno, fortificarla con il riconoscimento della fede cattolica».
A ben vedere, l’attacco recente di Israele all’edificio e alle persone della chiesa cattolica di Gaza ha riproposto, in altri contesti, la medesima problematica, seppur in un fronte di guerra, purtroppo, ancora tragicamente acceso.
In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, si legge che papa Leone XIV si dichiara «“profondamente rattristato” per questo assalto alla parrocchia, che dall’inizio della guerra ha dato rifugio ad oltre 500 persone in fuga. Papa Leone, affidando le anime dei defunti “all’amorevole misericordia di Dio Onnipotente”, assicura la sua “vicinanza spirituale” all’intera comunità e la preghiera “per la consolazione di coloro che sono nel lutto e per la guarigione dei feriti”».[2]
Il nostro ritornare agli eventi dei tempi di Leone III e di Carlo magno diviene, oggi, anche una mai sopita domanda sul rapporto da istituire tra paesi in guerra: sulla reazione di fronte ad assalti armati a luoghi di culto, sul ruolo che potrebbe svolgere il Papato, almeno come fattore di mediazione tra le parti.
Vi sono, in particolare, due aspetti di questi primi mesi di pontificato di Leone XIV che, mi sembra, potrebbero fungere da leva per ri-visitare al meglio alcuni aspetti del suo remoto predecessore, papa Leone III, anch’egli santo del calendario cattolico, seppur poi posto in secondo piano dal martirologio, nel 1969.[3]
Non è un caso che il saluto dalla loggia di San Pietro del 267° pontefice della Chiesa universale, sia stato: «La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio».[4] Un suo predecessore, a nome del medesimo Cristo, augurava, oltre mille anni fa, pax al franco Carlo, ora detto Magno e proclamato imperatore di una realtà sacra e romana.
Purtroppo, a distanza di tanti secoli, anche questo contemporaneo pontificato leonino è segnato da moltissimi focolai di guerre in corso e anela alla realizzazione dell’augurio cristiano di pace.
Proprio così si è espresso papa Prevost dopo l’Angelus di domenica, 10 agosto 2025, collegandosi a un evento tragico che sembrò allora “risolvere” la seconda guerra mondiale: «Continuiamo a pregare perché si ponga fine alle guerre. L’80° anniversario dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki ha risvegliato in tutto il mondo il doveroso rifiuto della guerra come via per la risoluzione dei conflitti. Quanti prendono le decisioni tengano sempre presenti le loro responsabilità per le conseguenze delle loro scelte sulle popolazioni. Non ignorino le necessità dei più deboli e il desiderio universale di pace».[5]
Colui che siede oggi sul medesimo soglio di Pietro, dove nel 795 si era seduto Leone III, ha di nuovo voluto far riferimento a Cristo nostra pace (Ef 2,14), ribadendo altresì, il 5 agosto 2025, nel Messaggio per l’80° anniversario dei bombardamenti atomici (redatto il 14.7.2025): «Nel nostro tempo di crescenti tensioni globali e di conflitti, Hiroshima e Nagasaki sono “simboli della memoria” […] che ci esortano a rifiutare l’illusione di sicurezza fondata sulla distruzione reciproca assicurata. Dobbiamo, invece, forgiare un’etica globale radicata nella giustizia, nella fraternità e nel bene comune. Prego, pertanto, perché questo solenne anniversario possa servire come invito alla comunità internazionale a rinnovare il suo impegno a perseguire la pace duratura per l’intera famiglia umana, “una pace disarmata e una pace disarmante”».
Chiari, essenziali, precisi desideri e intenti di pacificazione universale, sia in campo politico che in campo religioso, insomma. Ieri come oggi. Sentimenti presenti nella cristianità romana e auspicati per tutta la Chiesa dal terzo Leone della serie dei pontefici, come ricorda lo storico greco Teofane, il quale scrive che, ai tempi di papa Leone III, a Carlo Magno premeva vivere in pace con Costantinopoli (che avrebbe potuto considerarlo usurpatore della dignità imperiale) e con i territori italiani (che erano stati, una volta, dominio dei Bizantini e che ormai diventavano dei progressivi possessi delle migrazioni di turno, dette «barbariche»).
Unire i due imperi in uno solo, unificare l’umanità spezzata: ecco l’auspicio della cultura carolingia, appoggiata e sostenuta dal terzo Leone; ma, insieme, ri-unificare i due mondi religiosi legati a Costantinopoli e a Roma, attraverso una vera alleanza con la sede di Pietro.
Il più maturo prodotto teologico della riforma altomedievale – ovvero i Libri carolini o Capitolare [= testo di legge promulgato dall’imperatore] de imaginibus –, scritto da Alcuino di York – un pensatore di punta della riforma indotta da Carlo Magno – contrastava le decisioni prese nel concilio di Nicea del 787, convocato dall’imperatrice Irene, vedova di Leone IV (reggente dal 780 per il figlio Costantino VI).
Alcuino, appoggiato da altri intellettuali, avrebbe voluto tracciare dei ponti tra l’appoggio del monachesimo greco e della Chiesa di Roma alla decisione imperiale di ostacolare la posizione iconoclasta (allora dominante in Oriente) e, d’altra parte, sostenere la moderazione dell’intelligenza, ricordando che, a Nicea, si era già riconosciuto che le immagini sacre potrebbero svolgere una mediazione reale tra corporeo e spirituale.
Se – come oggi ha ripetuto papa Prevost – «questa è la pace del Cristo risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente», comprendiamo forse ancora meglio l’iniziativa del suo predecessore, il terzo Leone, nei confronti del re dei Franchi.
Carlo Magno: «Advocatus sanctae ecclesiae»
L’alleanza tra il papato di Leone III e l’impero che sarà denominato “sacro” e “romano” da parte di Carlo Magno avrebbe dovuto, nelle intenzioni, segnare un nuovo inizio della cristianità in Europa.
Secoli dopo, il poeta Enrico di Avranches, parlando di un altro grande imperatore, Federico II, scriverà che «Federico assomma in sé il vigore, il coraggio, il valore, la potenza di ciascuno di questi quattro grandi condottieri: egli è come Roberto il Guiscardo per i Siciliani, come Cesare per Roma, come Davide per gli abitanti d’Israele, come Carlo Magno per quelli di Aquisgrana».[6]
A distanza di alcuni secoli dall’incoronazione di re Carlo in San Pietro, in molti vi riconosceranno come il ri-avvicinamento e l’intesa tra due «poteri sovrani: quello ecclesiastico (centrato sul primato del pontefice di Roma rispetto a quello già esercitato dalla città e dalla Chiesa di Costantinopoli) e quello regale (centrato sulla persona di Carlo, re dei Franchi, che, da principe delle zone francesi, sarebbe stato ora appellato Magno da quasi mezza Europa).
Evidentemente, le fonti insistono sulla riconciliazione tra uno, che era molto più franco e barbarico nella mentalità che romano, e l’altro, papa Leone terzo, che stava cercando di ripristinare il primato di Roma rispetto all’emergere della sede di Costantinopoli.
Eletto papa lo stesso giorno del seppellimento del predecessore Adriano I, cioè il 26 dicembre 795, papa Leone III fu consacrato il giorno seguente (clero, nobiltà laica e popolo di Roma furono concordi sulla sua scelta). Pontefice dal 27/12/795 al 12/06/816, il romano terzo Leone, a cinque anni dalla sua elezione, incoronerà dunque Carlo Magno (742–814).
Già «patrizio dei Romani» (il «patriziato» comportava una funzione di protezione e di sorveglianza su Roma) –, Carlo veniva ora additato all’intera Europa come Imperatore di una corona insieme sacra e romana. S’inaugura una splendida stagione medievale: certamente non un’epoca buia, se si pensa a quanto avverrà nella Scuola palatina (come era già avvenuto nel Vivarium di Cassiodoro in Calabria).
A distanza di secoli, una riproduzione, eseguita nel 1743, di un antico mosaico lateranense (oggi visibile nella Piazza di Porta S. Giovanni in Laterano), porrà, sulla destra, tra papa Silvestro e l’imperatore Costantino, un Gesù che benedice gli Apostoli e tiene in una mano un libro, su cui si legge Pax vobis; a sinistra, si ammira san Pietro tra papa Leone III e il re franco, Carlo, inginocchiati ai suoi piedi: al primo, Pietro dona una stola e, a Carlo, una bandiera, mentre il cartiglio invoca: Beate Petre donas vitam Leoni p. p. et bictoriam Carulo Regi donas. Insomma, vita al papa e vittoria (bictoriam è arcaico) a re Carlo!
La fucina della “nuova cultura medievale”
La scelta di Leone III d’incoronare imperatore il re dei Franchi comporta riverberi di rinnovamento, anche sul piano teologico e dottrinale: un tema e un problema sentito allora nell’organizzazione ecclesiastica e, ai nostri tempi, molto sentito. Sotto papa Francesco, è stata inaugurata una rinascita organizzativa e contenutistica degli studi teologici, radicati sulle tre virtù teologali.
Un Messaggio di papa Prevost ripete: «In un certo senso, la fede e la teologia forniscono le basi per conoscere Dio, mentre la carità è la vita di amore che godiamo con Lui. Tuttavia, è mediante la virtù della speranza che desideriamo raggiungere la pienezza di questa felicità in Cielo. Così, essa ci ispira e ci sostiene per avvicinarci sempre più a Dio, anche quando ci troviamo di fronte alle difficoltà della vita».[7]
Del resto, Veritatis gaudium[8] ci aveva già esplicitamente ricordato che «col passare dei secoli, grazie specialmente al solerte impegno dei vescovi e dei monaci, furono fondate, vicino alle chiese cattedrali e ai conventi dei monaci, le scuole, le quali promovevano sia la dottrina ecclesiastica, sia la cultura profana, rendendole come un tutt’uno. Da tali scuole derivarono le Università, la gloriosa istituzione del Medioevo, la quale nella sua origine ebbe la Chiesa come madre liberalissima e protettrice».
Il solerte impegno di vescovi, monaci e centri di cultura del primo Medioevo va visto plasticamente all’opera ai tempi del terzo Leone e dell’imperatore Carlo.
Si guardi alla Scuola palatina: esistente già dai tempi di Pipino il Breve (e forse già ai tempi di Carlo Martello) – la schola del palatium riprende vigore proprio ai tempi di Carlo Magno e di Leone III. Vi si piantano i semi della grande cultura filosofica e teologica medievale. Sarà proprio Carlo Magno ad elevare quella Scuola al rango di Istituto ufficiale e, in esso, egli sarà apostrofato come David.
La classe degli intellettuali, degli scribi e dei pensatori che dovranno rinnovare l’amministrazione politico-ecclesiastica, si forma lì, in quella Schola.
Quella corona imperiale, posta da papa Leone III sul capo di un “barbaro franco”, aveva voluto segnare non soltanto il ripristino del primato di Roma e dell’autorità della cristianità occidentale rispetto all’Oriente, ma era una vera e propria investitura.
Carlo doveva davvero essere advocatus sanctae ecclesiae: non solo allo scopo di trasferire a Roma il potere effettivo e simbolico della cristianità, ma per assecondare il rilancio delle arti e delle scienze: grammatica-dialettica-retorica (che diverranno le artes trivii delle scuole e università bassomedievali); aritmetica-geometria-musica-astronomia (che saranno le artes quadrivii).
Tra i maestri della Schola di palazzo, opera Alcuino (735 ca-804) – formatosi a York, alla scuola dell’arcivescovo Aelberto –, che si era stabilito in Francia presso il re dei Franchi, a partire dal 782.
Al suo seguito si misero l’irlandese Giuseppe Scoto (uno dei primi filologi biblici del Medioevo), l’anglosassone Wizo, detto candidus, l’astronomo irlandese Dungal di Saint-Denis (+ dopo l’827), il grammatico e geografo Dicuil (+ 825).
Dall’Italia, su consiglio dello stesso Alcuino, arrivano l’anziano maestro Pietro di Pisa (+ prima del 799), il suo compatriota Paolino, poi vescovo di Aquileia (+ 802), il longobardo Paolo Varnefrid (latinizzato Diaconus: Paolo diacono), che poi lascerà la corte per ritirarsi, dopo pochi anni, a Montecassino (dove scriverà la Historia Langobardorum che ci dà molte di queste notizie).
Altri vengono dalla Baviera, dalla Spagna (donde proviene Teodulfo, poi vescovo di Orléans), dalla Francia (come Angilberto, che si soprannominava Omero) e come Modoino (il cui soprannome era Nasone, come il classico Ovidio).
L’accordo, provocato da Carlo e strategicamente ripreso da Leone III, punta, insomma, sulla cultura, anche filosofica e teologica, per la rinascita di uno spirito nuovo: questo sarebbe stato quel Medioevo incipiente, incubatore della futura età rinascimentale.
Non fa meraviglia che l’affresco, dipinto da Raffaello e dai suoi assistenti tra il 1516 e il 1517 – oggi in una delle stanze dei Musei vaticani/Stanza dell’Incendio di Borgo, commissionata da papa Giulio II a Pietro Vannucci detto il Perugino nel 1508) –, sembra voler «ideologizzare artisticamente» questo spirito di accordo tra due poteri, per una rinascita culturale.
L’affresco sarà eseguito dal Sanzio su commissione di un altro Leone (papa Leone X de’ Medici) il quale, mediante l’evocazione del fatto verificatosi nel Natale dell’Ottocento, ai tempi di Leone III e di Carlo Magno, lancia il tema del Concordato, avvenuto fra la Santa Sede e il regno di Francia nel 1515.
Si ricorderà che, significativamente, nell’affresco rinascimentale, i tratti del volto di papa Leone III risulteranno gli stessi che aveva, nell’anno dell’opera pittorica rinascimentale, papa Leone X, mentre il volto di Carlo Magno aveva l’aspetto di Francesco I.
Altro che buio Medioevo!
Alcuino di York è il primo indiscusso protagonista del concretizzarsi del progetto culturale carolingio, assecondato teologicamente da papa Leone III. I sapienti della corte carolingia si sentiranno investiti di una missione di difesa e di propagazione della verità cristiana, che trova nel sovrano Carlo «l’uomo della provvidenza».
Ed ecco che si raccolgono le vite dei santi, non soltanto per proporli quali modelli di virtù cristiane, ma come dei veri e propri precursori della missione di rinnovamento religioso del genere umano. I santuari di Occidente si riempiono di reliquie provenienti dalla Terra Santa e dal Mediterraneo orientale, quasi a stabilire un contatto fisico tra le nuove res gestae e le azioni che erano state già degli Apostoli e del Verbo incarnato.
Durante il regno di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, giungerà in Francia un dono dell’imperatore di Bisanzio: un codice di lusso, contenente gli scritti attribuiti a Dionigi, membro dell’areopago ateniese, convertito da Paolo. Il codice, proveniente da Oriente, viene accolto come una preziosa reliquia, e, in processione, viene portato nel monastero di Saint-Denis. Tradotto in latino, sembra, infondatamente, contenere gli scritti del primo convertito di Paolo apostolo sull’areopago.
Sarà Ilduino l’intellettuale che potrà tracciare come una linea “storica” che congiungeva il cristianesimo imperiale di tipo carolingio alla fondazione di una Chiesa romana universale: i testi di pseudo-Dionigi (come oggi lo chiamiamo), hanno quasi il prestigio di autorità neotestamentaria, essendo opera dell’unico convertito di Paolo sull’areopago di Atene. Sta nascendo la gerarchia degli angeli, la gerarchia ecclesiastica, i nomi teologicamente corretti da attribuire a Dio.
Lo stesso Carlo Magno, del resto, prima dei testi pseudo-dionisiani, era presentato come re-filosofo (sebbene illetterato) e come re-sacerdote. E, poiché un re-filosofo, oltre a conoscere la verità, deve anche difenderla, ecco il senso di quella corona, posta da Leone III sul capo del re franco: un obiettivo teologico più che politico.
Grazie all’appoggio di papa Leone III, la familiarità con il vastissimo patrimonio della letteratura patristica e della produzione cristiana tardo-antica si accompagnerà alla frequentazione dei testi di età romano-barbarica (soprattutto le raccolte di Cassiodoro, di Isidoro e del venerabile Beda) e, soprattutto, ai testi dei Padri della Chiesa, i quali sono come “vendemmiati” dai copisti e dagli interpreti. In tal modo, il precetto monastico benedettino della lectio et meditatio diviene monito a farsi contemporanei della Bibbia, dei Padri, soprattutto di Agostino e di Girolamo, ma anche di Cicerone e di Virgilio.[9]
La questione teologica del Filioque
Ma il pontificato di Leone III non fu soltanto questione di rapporti tra poteri e di incubazione della rinascita letteraria. Ritorna, sotto di lui, anche la disputa dottrinale tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente a seguito dell’inserimento del termine Filioque nella versione latina del terzo articolo di fede del Simbolo costantinopolitano del 381 (lo Spirito procede dal Padre «e dal Figlio»).
Lo si vede sia negli atti dei concili d’Aquileia (796) sia di Aquisgrana (809), celebrati sotto Leone III: lo Spirito Santo, come viene professato, procede (procedit) eternamente dal Padre e dal Figlio, come avevano proclamato già diversi Simboli di fede fin dal V secolo. In particolare, nel sinodo di Aquisgrana dell’809, Carlo Magno farà forti pressioni presso papa Leone III per inserire nel Credo liturgico il Filioque («procede dal Padre e dal Figlio). Ma Leone gli resistette, rifiutandosi di inserire il Filioque, pur di non intaccare con qualche variazione la formula di fede che era stata redatta in un concilio ecumenico e non in un qualunque sinodo provinciale.
Come sarà chiarito da papa Giovanni Paolo II in un’udienza del 1990: «La formula più completa: «che procede dal Padre e dal Figlio» («qui a Patre Filioque procedit»), già presente in antichi testi e riproposta dal Sinodo di Aquisgrana nell’809, venne infine introdotta anche a Roma nel 1014 in occasione dell’incoronazione dell’imperatore Enrico II. Si diffuse da allora in tutto l’Occidente, e venne ammessa dai Greci e dai Latini nei concili ecumenici di Lione (1274) e di Firenze (1439) […]. L’introduzione dell’aggiunta, accolta senza gravi difficoltà in Occidente, suscitò riserve e polemiche tra i nostri fratelli orientali, che attribuirono agli occidentali un cambiamento sostanziale in materia di fede. Oggi possiamo ringraziare il Signore per il fatto che anche su questo punto si va chiarendo in Oriente e in Occidente il vero senso della formula, e la relatività della questione stessa».[10]
Leone III dovette altresì occuparsi della questione cristologica dell’adozionismo (una teoria sostenuta principalmente dai vescovi spagnoli Felice di Urgel e da Elipando di Toledo): Gesù Cristo, come uomo, è il vero Figlio di Dio, non soltanto, come sostenevano gli adozionisti, suo figlio adottivo (deliberazioni dei sinodi di Ratisbona del 792 e di Francoforte del 794, nonché del sinodo di Roma del 798, che era stato richiesto dallo stesso Carlo Magno, anche lui, come già Costantino, imperatore-teologo).[11]
Rilancio degli studi e della disciplina
Tra le lettere di Leone III a Carlo Magno,[12] brilla quella alle Chiese d’Oriente sulla già sintetizzata questione del Filioque, alla quale non risulta estraneo l’influsso di Paolo diacono.[13]
Il racconto di Paolo Varnefrid (poi Paolo diacono) – un longobardo (n. 720/730, m. 797 ca.) –, si chiuderà non senza aver parlato del re dei Franchi, Carlo, chiarendo che egli, su richiesta di papa Adriano I (il predecessore del terzo Leone), era appunto sceso in Italia per sconfiggere re Desiderio, ponendo fine al regno longobardo.
Si stanno, frattanto, ancora succedendo le migrazioni o ingressi, di vari popoli, denominati genericamente “barbari”, tra cui anche i Franchi, dei quali, sotto papa Leone III, diviene fondamentale la figura di Carlo Magno. Non è un caso che un planctus di Colombano al vescovo Andrea sulla morte di Carlo,[14] al trimetro n. 17, piange la dipartita dell’imperatore: «O Columbane, stringe tuas lacrymas/ precesque funde pro illo ad dominum/ Heu mihi misero».[15]
L’iterato Ohimé misero è, per Colombano, il modo poetico per sottolineare una perdita enorme, lenita soltanto dalla speranza che Cristo stesso accolga nella sua santa sede re Carlo: «Guai a te, Roma e al popolo romano, ora che se n’è andato il sommo e glorioso Carlo» (n. 11).
Dai Capitoli pubblicati in Appendice ai Concili dell’anno 813 (ultimo biennio di pontificato di papa Leone III), dopo i canoni relativi alle decime e agli incestuosi, si ricavano notevoli indicazioni disciplinari del terzo Leone.
Vi si legge: «Vi sia pace e concordia tra i vescovi, i conti, gli altri chierici, i monaci e i laici».[16] Siamo di fronte alle prime avvisaglie linguistiche di quella che sarà tristemente nota come la lotta per le investiture e che, talvolta, risorge anche nei nostri tempi nel bilanciamento dei rapporti tra Chiese particolari e Stati: la potestà di governo del vescovo dipende dall’anello conferito dal potere terreno (per anulum), o dall’ordine sacro che affida al vescovo il pastorale (per baculum, cioè l’atto di consegna del segno di governo come un pastore)?
Papa Leone III ebbe a che fare anche con una stagione di gravi problemi relativi agli stati di vita: i canoni promulgati sotto di lui devono ricordare ai canonici regolari e ai monaci di vivere secondo la «regola» e non alla maniera dei secolari, soprattutto per quanto riguarda refettori e dormitori; come pure ricordano che non bisogna entrare impunemente nei monasteri femminili (i presbiteri che vi entravano per celebrare, sarebbero dovuti rientrare celermente nelle proprie sedi!).
La Concordia – firmata ad Aquisgrana nel mese di settembre 813 (un anno prima della morte dell’imperatore Carlo Magno) –, oltre a richiamare quanto già stabilito in precedenti costituti, ordina ai ministri sacri di astenersi dagli affari secolari e turpi (IX);[17] impone ai laici di non espellere i presbiteri dalle chiese per assumersi competenze proprie del clero; di non affidare o far amministrare chiese ai chierici senza il consenso dei vescovi (XIV); accenna altresì alla «peste» dei crimini e degli incesti, che dovevano allora cominciare ad essere assai diffusi (XXV)[18] e che, in età moderna, genereranno la decisione disciplinare di un altro concilio ecumenico.
Il pontificato di Leone III apparirà inflessibile agli occhi delle famiglie romane dopo la morte di Carlo Magno (814). Difatti, il papa dimostra con alcuni congiurati una severità che fu criticata perché poco consona al capo spirituale della cristianità.
Il 12 giugno 816, il corpo santo del terzo Leone venne sepolto in San Pietro.
[1] IX Lettera di Carlo Magno a papa Leone III (796), in Carlo Magno, Lettere, traduzione a cura di D. Tessore, prefazione di F. Cardini, Città Nuova Roma 2001. Cf. Nicola Cilento, Sul preteso scambio di lettere fra il ‘Basileus’ e Carlo Magno, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano” n. 75 (1963), pp. 24-42.
[2] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2025–07/papa–leone–xiv–telegramma–padre–romanelli–attacco–chiesa–gaza.html (17.7.2025).
[3] Si ricorderà che, negli anni Sessanta del Novecento, con l’intento di riformare il calendario liturgico, molti Santi, pur venerati ab immemorabili, furono sottoposti a delle indagini “storiche” per eliminare o declassare a calendari regionali quei Santi considerati non sostenuti da adeguata documentazione storica.
[4] Salvatore Cernuzio su “Vatican News”: https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2025–05/papa–leone–xiv–elezione–saluto–benedizione–chiesa–mondo.html [14.8.2025].
[5] https://www.vatican.va/content/leo–xiv/it/angelus/2025/documents/20250810–angelus.html [14.8.2025]. Anche Giuseppe Riggio, direttore di Aggiornamenti sociali 76 (2025), pp. 363–366, scrive che il tema che è emerso in modo preponderante dalle prime parole e dai primi interventi di papa Leone XIV, Robert Francis Prevost, è la pace, sulla quale dall’8 maggio 2025 è tornato insistentemente più volte:
[6] Armando Bisanti, Orgoglio poetico e lode del sovrano nei carmina di Enrico di Avranches, in Il Regno di Sicilia in età normanna e sveva. Forme e organizzazioni della cultura e della politicа, a cura di Pietro Colletta, Teofilo De Angelis, Fulvio Delle Donne, Basilicata University Press, Potenza 2021, p. 164.
[7] Videomessaggio alla Rete cattolica panafricana di teologia e pastorale in occasione del suo terzo Congresso:
[8] Costituzione apostolica Veritatis gaudium di papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche (29.1.2028), Appendice II.
[9] J. Leclercq, Cultura umanistica…, cit., 48.
[10] Giovanni Paolo II, Udienza generale del 7.11.1990: https://www.vatican.va/content/john–paul–ii/it/audiences/1990/documents/hf_jp–ii_aud_19901107.html [14.8.2025].
[11] Nella VII lettera di Carlo Magno ad Elipando metropolita di Toledo e agli altri vescovi di Spagna (794) – la più lunga delle lettere di Carlo – si discute l’eresia che, dopo il Sinodo di Siviglia (784), si stava diffondendo a macchia d’olio nei territori spagnoli: nel contrasto secolare sulla duplice natura di Cristo (divina e umana), l’eresia adozionista definiva Gesù non figlio propriamente ma “figlio adottivo” (adoptivus filius) di Dio, chiamato cioè da un certo momento in poi – dopo il battesimo nel fiume Giordano – a una missione particolare, dopo la quale soltanto egli avrebbe assunto la natura divina. Carlo Magno ne approfitta per ribadire ancora una volta il suo ruolo di difensore della Chiesa e della vera fede:
[12] in Epistolae Karolini aevi tomus III, in Mon. Germ. Hist., Epistolae, V, 1, a cura di E. Dümmler – K. Hampe, Berolini 1898, pp. 85-104; altre lettere di L. III in J.–P. Migne, Patr. Lat., CII, coll. 1023-1036.
[13] Pauli Warnefridi, diaconi Forojuliensis, De gestis langobardorum, PL vol. 95, coll. 433-672. Cf. anche Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovamento carolingio. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Cividale del Friuli – Udine, 6-9 maggio 1999, a cura di Paolo Chiesa, Forum, Udine 2000.
[14] MGH, Poetarum latinorum medii aevi, tomus I, 1881, pp. 434-436.
[15] Ivi, p. 436.
[16] MGH, Appendices ad concilia a. 813, p. 295.
[17] Ivi, p. 298.
[18] Ivi, p. 300.





