Cristianesimo ed ebraismo

di:

buber

Turbato e provocato dalle recenti tragiche congiunture in cui si trovano il cristianesimo e l’ebraismo, ho trovato consolazione in un reincontro con il pensiero di Martin Buber.

Negli ultimi tempi non posso evitare due domande. La prima è autobiografica e si riferisce ai recenti scandali, alle gravi tensioni, ai conflitti e ai tradimenti nella Chiesa cattolica. La seconda nasce dalla presa di coscienza della gravissima crisi del popolo ebraico, dopo il 7 ottobre 2023.

È ancora possibile rimanere nella Chiesa e insistere sulla fede quando abbiamo a che fare quotidianamente con comportamenti che smentiscono la bellezza e la verità del Vangelo di Gesù di Nazareth? E poi: dovremmo accettare in complice silenzio la riduzione della sacra eredità dell’ebraismo agli orribili crimini di sterminio perpetrati dallo Stato di Israele contro i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania? Dovremmo rimanere in silenzio di fronte al sorprendente ritorno del veleno antiebraico che ha caratterizzato due millenni di cristianità europea con persecuzioni, esili, deportazioni, pogrom e Shoah?

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In questi ultimi anni le pietre urlano ciò che è stato taciuto per secoli e non ci sono abiti provvidenziali per mascherare la nudità del re. Poiché è l’intero edificio cattolico a essere danneggiato e corroso, non sarà sufficiente attuare piccole riforme, ma sarà inevitabile promuovere una rivoluzione radicale e strutturale. È il sogno di Papa Francesco, che sa che «il tempo è superiore allo spazio» e che la rivoluzione è un processo lento, difficile, conflittuale.

I tradimenti del mondo ecclesiastico cattolico, in particolare lo scandalo della pedofilia clericale, ma anche la persistenza di una tradizione di potere celibe, per lo più omosessuale e allo stesso tempo omofobo, misogino da molti secoli, solitamente alleato del tradizionalismo conservatore o propriamente fascista, possono essere letti come sintomi dell’obsolescenza della morale sessuale della Chiesa, che appare irrilevante e fallita[1], distante dal pensiero, dalla Parola e dalla pratica di Gesù di Nazareth.

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Qualcosa di analogamente minaccioso per l’identità sta accadendo anche ai nostri parenti ebrei: una crisi teologico-politica colpisce gli ebrei della diaspora, a partire dalla radicalizzazione disumana della guerra di Israele contro Hamas e la Palestina, dopo il pogrom del 7 ottobre 2023. Anche per loro si tratta di una nuova congiuntura che richiede discernimento e ripensamento radicale della fedeltà ad HaShem.

Accompagnato da queste preoccupazioni, decenni dopo la mia prima visita ai suoi libri, riappare la voce chiara di Buber, con profezie che non avevo capito in gioventù. Forse solo in tempi bui, in tempi difficili di guerra, è possibile valorizzare al meglio la sua proposta antropologica e teologica. È l’io-tu, in alternativa all’io-esso, parole, principi, figure chiave del personalismo di Buber, che ha influenzato teologi cattolici come Romano Guardini, Hans Urs Von Balthasar e teologi protestanti come Rudolf Bultmann, Albert Schweitzer, Rudolf Otto, Emil Brunner e, con loro, tutta la teologia del Novecento.

Pur essendo due dimensioni inscindibili dell’esistenza umana, è evidente la superiorità antropologica ed etica del rapporto “Io-Tu”. Infatti, quando nasciamo, siamo un “io” solo perché invitati dall’appello del “tu” materno, che inaugura il nostro essere costitutivamente interpersonale.

Buber, da fedele ebreo, insiste sull’essere personale di HaShem, il misterioso e irraggiungibile “tu” divino. YHWH non può mai essere ridotto a un oggetto della nostra esperienza e pensato come un “esso”.  Troviamo una radicale opposizione al pensiero greco, che però è inevitabilmente riuscito, ben prima del calendario cristiano occidentale, ad accompagnare e talvolta a contaminare il legato semitico.

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Vedo qui un’evidente opposizione al più grande maestro della modernità, Baruch Spinoza, che con il suo “Dio, cioè la natura” ha ridotto il monoteismo a un “questo”, un teismo di un Dio senza occhi, senza ascolto, senza parole, senza alleanza e senza cuore.

Questa contrapposizione tra “Io-Tu” e “Io-Esso” permette di ipotizzare la connessione tra l’oggettivazione di Dio e la riduzione della natura a un “esso”, che è la tragica eredità lasciata alla modernità capitalista occidentale.

È questa connessione malefica dell’oggettivazione di tutta la realtà naturale, umana e divina che Francesco e Chiara d’Assisi confrontano esistenzialmente, sette secoli prima di Buber, con la rivoluzione del “tu” e la fratellanza universale di tutti gli esseri viventi.

Rapporti interpersonali al posto dell’essere di Parmenide e il Vangelo come guida, come se il diritto canonico, erede del diritto romano imperiale, non esistesse.

Il dramma della civiltà indoeuropea nasce nel momento in cui l’essere Uno, eterno, immobile, ingenerato e immutabile è esaltato, con l’esito dell’inferiorizzazione gerarchica della materialità e della pluralità mortale del mondo. Ne deriva il dualismo costitutivo, fondamento dell’Occidente, che non può rinunciare alle figure del privilegio e della disuguaglianza: essere/divenire, anima/corpo, unicità/molteplicità, spirito/materia, uomo/donna, saggio/ignorante, ricco/povero, bianco/nero, umano/animale, uomo/ambiente.

Non dobbiamo dimenticare, però, che il dualismo indoeuropeo era alleato del dualismo semitico del Primo Testamento: sacro/profano, puro/impuro; dualismo, che Gesù stesso ha affrontato e combattuto con una radicalità che coincide col suo Vangelo, ragione politica della sua condanna e della sua gloriosa Pasqua.

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Questo legame interpersonale di Francesco e Chiara d’Assisi – Vangelo della fratellanza universale, della «gioia perfetta», anche nei momenti minacciosi della natura e della storia – si ritrova anche nella testimonianza del Baal Shem Tov e del movimento chassidico, che conosciamo dai racconti della mistica ebraica raccontati da Martin Buber.

Oltre a questo, troviamo in Buber un’altra coppia di parole-principi: emunah-pistis, fede secondo l’ebraismo e fede secondo il cristianesimo, o, più propriamente, fede ebraica e fede greca. Una dualità, che, anche in questo caso, non è dualistica, perché le due figure della fede sarebbero inevitabilmente presenti nell’esperienza del popolo d’Israele, una volta garantita l’emunah, la fede del popolo della Torah nel ‘Tu’ divino, ‘assolutamente altro’ e irraggiungibile con gli argomenti della filosofia e della teodicea.

HaShem invita il suo popolo ad ascoltare (Shemà Israel) il suo silenzio amorevole, che apre al futuro e alla speranza della venuta del Messia. Se la pistis prevalesse sulla via della fede, ridurremmo Dio a mero oggetto delle nostre speculazioni, sostituendo il mistero della sua presenza-assenza amorosa con dogmi e formulazioni dottrinali. Levinas, che conosceva bene il pensiero di Buber, avrebbe detto che c’è un tradimento dell’irriducibile alterità – il volto e la traccia dell’Altro e degli altri – anche e soprattutto con la cattura gnoseologica.

Buber, nel suo progetto di accogliere Gesù di Nazareth e i quattro vangeli come espressioni assolutamente ortodosse della tradizione ebraica, arriva a distinguere la fede di Gesù, quale emunah, dalla fede di Paolo e Giovanni, che sarebbero nella pistis, debitori della tradizione greca. Le loro teologie sarebbero un abbandono dell’emunah, che è sempre stata la fede di un popolo e di tutte le sue generazioni, e che, in Paolo e Giovanni, porterebbe a una riduzione individuale.

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Nel cristianesimo, nonostante le affermazioni della Chiesa come popolo di Dio e tutte le teologie sulla comunione, il popolo cessa di essere protagonista della fede.  Buber, nella sua fedeltà al popolo dell’alleanza, si oppose fermamente sia all’individualismo liberale che all’individualismo cristiano, ma anche al collettivismo socialista.

Questi due argomenti di Buber non mi convincono. Non sono nuovi e fanno parte dell’apologetica ebraica, almeno dal XII secolo, con la professione di fede di Mosè Maimonide, recentemente ripresa da Schalom Ben-Chorin.[2]

Se Buber, invece di considerare la testimonianza di Paolo e Giovanni come il peccato greco da cui sarebbero sorti tutti i successivi tradimenti dell’emunah, avesse additato come un tradimento del pensiero e della pratica di Gesù, l’atteggiamento antimodernista della neoscolastica, incapace di rinunciare al concetto di ‘essere’ e alla speculazione metafisica per definire l’identità cattolica, sarei tranquillamente d’accordo. Un antimodernismo fallito, quello della scolastica, che può aver contribuito all’ateismo della filosofia continentale presentando un dio, ridotto a concetto.

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Certo, ricordo un principio guida della teologia cattolica, che dovrebbe funzionare come correttivo alla presunzione dogmatica e dottrinale: la analogia entis, analogia dell’essere, maxima similitudo in maxima dissimilitudine, la massima somiglianza nella massima dissomiglianza dei nostri concetti di Dio. Ma Karl Barth, confrontato anche teologicamente con i disastrosi successi della teologia cattolica e della teologia liberale, giudica l’analogia di essere un alibi illusorio, un gioco di parole, o una “colpevole arroganza religiosa”.

Leggere il prologo del Vangelo di Giovanni come se fosse un trattato filosofico, nel contesto di una fede ridotta a pistis, è un errore inaccettabile. Il logos giovanneo è assolutamente biblico e semitico: è la parola divina; è il detto del Creatore, nelle prime parole della Bibbia: «Bereshit bara Elohim…»; è la versione neotestamentaria della Sapienza, in greco Σοφία (Sophia). È evidente che, ancora oggi, logos e sophia sono concetti che possono essere confusi e male interpretati, perché sono presenti anche nella filosofia ellenistica, nel platonismo e nello gnosticismo.

Ma non abbiamo dubbi sulla possibilità che Giovanni, nonostante la presenza di ebrei di origine greca tra gli apostoli (Filippo e Andrea) e la menzione della presenza di ebrei greci a Gerusalemme durante l’ultima Pasqua di Gesù, stia riducendo Gesù a un concetto.

Leggere Paolo come se fosse un ebreo assimilato alla cultura filosofica greca è un’altra tesi inaccettabile. L’incontro di Gesù e Paolo a Damasco è indiscutibilmente un evento di fede come emunah, senza la minima ombra di possibilità di una riduzione ideologica. E l’emunah è coinvolta anche nell’approccio alla cultura greca, nel doppio fallimento di Paolo nell’Agorà e nell’Areopago di Atene, nel confronto e nel dialogo con filosofi stoici ed epicurei (Atti 17:16-34).

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A questo punto, ci si potrebbe chiedere dove portino queste considerazioni apparentemente complesse e difficili da digerire. Insomma, la riscoperta della fede come emunah può essere un antidoto a questi tempi bui di guerra?

Potrebbe essere che l’emunah non sia l’unico modo per affrontare gli identitarismi teologico-politici che sono frutto dei monoteismi ebraici, cristiani e musulmani?[3] Potrebbe essere che la rinuncia a dare priorità alla pistis, alla fede dogmatica e dottrinale, non possa essere il primo vero passo nella costruzione di relazioni macro-ecumeniche?

Il silenzio davanti all’Altro è ascolto del silenzio divino, emunah che è fedeltà, nei limiti della nostra vulnerabilità corporea e spirituale, fedeltà al Nome, che manifesta la sua immanenza, la sua vicinanza, solo nella misericordia.

Quando, nella nostra paranoia identitaria cattolica, sottolineiamo ossessivamente la necessità di identificarci solo con la ripetizione delle tradizioni dottrinali, liturgiche, rituali e politiche che hanno caratterizzato la lunga stagione egemonica del cristianesimo europeo e coloniale, abbiamo di nuovo bisogno di nemici, di solito demonizzati e combattuti, in nome di Dio, senza pietà e senza umanità.

Questo è ciò che sta accadendo ai cattolici tradizionalisti, mentori delle rinnovate illusioni neofasciste e neonaziste. Questo è anche ciò che sta accadendo ai nostri parenti ebrei e musulmani, con la risposta di sterminio radicale dello Stato di Israele allo sterminio promesso dai musulmani della Jihad.

Ed è quello che sta accadendo nell’invasione russa dell’Ucraina, benedetta dal Patriarca della Terza Roma Kirill e dalla Chiesa ortodossa come una crociata contro l’Occidente corrotto e perverso. Quasi la versione orientale del motto “Dio, Patria, Famiglia”.

Sì, è anche una questione di economia e di imperialismo, di terra, di territori, di petrolio e di minerali, ma i muri dell’inimicizia permeano le profondità di ogni essere umano e, almeno, apofaticamente, i popoli delle tre religioni abramitiche dovrebbero capire che il nostro Dio non promuove l’inimicizia e la guerra. Disarmarsi dovrebbe essere un’opzione teologica, ma sembra che sia rimasto solo a papa Francesco, in Europa e nel mondo, il compito di proclamare la verità dell’agape e della pace.


[1] Martel Fredéric, No armário do Vaticano, poder, hipocrisia e homossexualidade, Objetiva, Rio de Janeiro, 2019.

[2] Bem-Chorin Schalom, La fede ebraica, Lineamenti di una teologia dell’ebraismo sulla base del Credo di Maimonide, Il melangolo, Genova, 1975.

[3] Assman Yan, O preço do monoteísmo, Contraponto, Rio de Janeiro, 2021.

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2 Commenti

  1. Giampietro 9 aprile 2024
    • Marco 12 aprile 2024

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