Quale messaggio ha voluto lanciare l’imam Ali Erbas, presentatosi alla preghiera islamica di venerdì 24 luglio 2020 in Aghia Sophia armato di spada?
Persona stimabilissima, italiano-europeo quanto a cittadinanza, musulmano quanto a libera scelta religiosa, Gabriele Iungo è l’autore di un lungo post pubblico sul gesto dell’imam Ali Erbas, alta autorità religiosa/politica della Turchia, presentatosi alla preghiera islamica di venerdì 24 luglio 2020 armato di spada.
Il luogo è Aghia Sofia, costruita nel VI sec. come chiesa, trasformata in moschea novecento anni dopo, adibita a museo nel 1935 dal governo turco allora in carica, decisione annullata dall’attuale governo.
Introdurre un’arma all’interno di un’assemblea cultuale non è cosa da poco, è anzi una cosa tremendamente simbolica, specialmente se chi la brandisce è la guida della preghiera. Che cosa significa?
L’autore del post dal titolo “Dal Diritto della Spada alla Spada del Diritto” prova a rispondervi, con abbondanza di particolari interessanti (rimando alla lettura), e conclude dichiarando lo scopo che lo muove: offrire informazioni «tanto ai nostri correligionari quanto ai nostri concittadini, in un reale servizio di mediazione culturale». È rispetto a questa nobile intenzione che mi sembra opportuno proporre tre integrazioni e un quesito di fondo.
La prima riguarda il fondamento “sacro” della tradizione della spada in mano all’imam. Iungo scrive che «si tratta di un’usanza di origine profetica, come variamente attestato dalle diverse scuole giuridiche». È vero, in molti la pensano così. Andrebbe però aggiunto almeno un riferimento a chi, tra i dotti dell’islam, la pensa diversamente. Ciò vale in generale, ma ancor più nell’islam, dove si dice che la differenza di opinioni sia un segno della misericordia divina.
Tra le voci che si ergono contro la predica spada in mano, la più chiara è quella di Ibn al-Qayyim al-Jawziyya, considerato uno dei massimi esponenti della scuola hanbalita e un grande esperto della Sira, cioè la biografia del Profeta dell’islam. Egli esclude recisamente che Muhammad abbia fatto uso di spada nella predica, e si mostra anzi preoccupato che gli “ignoranti” (juhhal nel testo arabo) sfruttino la falsa notizia per propagandare la diffusione violenta della religione (Zad al-Ma’ad vol. 1, 411). Forse Ibn al-Qayyim ha torto, ma perché non informare il lettore del post anche di questa posizione?
La seconda integrazione è dove cita il detto evangelico: «sono venuto a portare la spada», in riferimento al significato simbolico/spirituale della spada. È vero, nel testo di Mt 11,34 la spada è menzionata in senso assolutamente metaforico: il contesto rimanda in modo chiaro al dissenso tra chi segue Gesù e chi non lo segue, persino all’interno della stessa famiglia. Per togliere ogni dubbio merita aggiungere la parola detta da Gesù a chi cercava di difenderlo con la forza nel momento dell’arresto: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mt 26,56).
Questo fondamentale insegnamento di non-violenza trova conferma nel comportamento dei primi fedeli in Gesù: dopo la sua partenza non organizzano insurrezioni armate, non si lanciano alla conquista di territori, non pensano a fondare “stati cristiani” “imperi cristiani”. La loro è la Chiesa delle origini, modellata dal Vangelo. Con l’avvento della Chiesa imperiale (tre secoli dopo) inizia una storia del tutto diversa, che non solo ha contraddetto in modo radicale la vocazione non-violenta e disarmata del Vangelo, ma che ha esercitato un’influenza decisiva nel modellare l’islam come religione in armi.
La terza integrazione riguarda la citazione, nel post in questione, di un verso poetico – السَيفُ أَصدَقُ أَنباءً مِنَ الكُتُبِ في حَدِّهِ الحَدُّ بَينَ الجِدِّ وَاللَعِبِ – che io traduco così: «La spada è un’informazione più attendibile di quella dei libri, sul suo taglio c’è il taglio tra il serio e il fatuo». Si tratta del panegirico che il poeta di corte Abu Tammam scrive dopo la conquista islamica della fortezza di ‘Amuriyya nell’837.
La tradizione narra che il califfo Mu’tasim aveva dapprima consultato gli astrologi (!), che sulla base dei loro “libri” gli avevano suggerito di temporeggiare. Consigliatosi poi con i suoi generali, aveva deciso di rompere gli indugi e dare battaglia, ottenendo una vittoria che avrebbe consolidato la sua fama di califfo guerriero.
Parlando di quella che definisce «manifestazione liturgica del diritto alla spada», l’autore del post estrae dunque dal suo scaffale un tipico poema guerresco, che gronda sangue da tutte le parti e non fa che ribattere in mille modi il messaggio del verso iniziale: poche storie, la violenza è il miglior argomento che ci sia.
Ciò mi fa porre la domanda di fondo: che cosa si vuole arrivare veramente a dire? Dopo un’informazione di questo tipo «ai correligionari e ai concittadini», rimane ancora spazio per il dovere civico di una critica delle tradizioni religiose che sacralizzano la violenza, e che sono pertanto incompatibili con i valori della nostra cittadinanza?
Buon giorno,
per completezza, sarebbe opportuno riportare sia la mia nota originale – qui discussa in maniera parziale e selettiva – sia le repliche che ho articolato, rispetto ai rilievi che mi sono stati mossi ed ivi pubblicati.
Sono richiamate entrambe nel collegamento