Sciiti-cattolici: cittadinanza e diritti umani

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al sistani papa

Quarto incontro promosso dalla Comunità Sant’Egidio con esponenti del mondo sciita. Il titolo ci dice da subito che non siamo nell’astrattismo, ma “Davanti alle sfide del mondo contemporaneo”.  E una di queste sfide è non mettere nessuna cultura, nessuna fede all’indice per via del fondamentalismo, neanche quando si arriva a prassi repressive o dannose per altri popoli e i loro diritti.

Lo sciismo ovviamente oggi comprende queste deviazioni inquietanti, ma è anche molto altro, molto di più di questo, e chi ha il radicamento familiare e di fede per esprimerlo va ascoltato, perché nessuna famiglia può essere “criminalizzata”. Personalmente ho trovato in questo possibile tratto, non certo l’unico, quello più attuale e rilevante: tenere la grande famiglia sciita nel cammino, quello che tutti gli oratori hanno ricordato soprattutto in virtù della grande iniziativa di papa Giovanni Paolo II – Assisi.

La chiarezza che non avevamo allora

Alla presenza del Prefetto per il dialogo interreligioso, cardinale George Jacob Kkoovakad, che ha rivolto un caloroso saluto ai partecipanti, il senso e il contesto di questa quarta giornata di dialogo, che va avanti da quindici anni, è stato presentato con profondità e visione dal professor Andrea Riccardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio). Dopo i riferimenti alla storia del dialogo e dell’incontro con gli sciiti, soprattutto alla luce della visita del papa alla loro città santa Najaf, dove ha incontrato il loro grande ayatollah al Sistani (che mai ha piegato la testa alla revisione teocratica voluta da Khomeini), ha portato tutti nell’oggi, partendo dal senso di fondo dell’89, quando abbiamo creduto che tutto fosse cambiato, per poi cambiare di nuovo.

“Abbiamo creduto che il grande cambiamento d’epoca fosse il passaggio dal mondo della guerra fredda – con la caduta del Muro – al mondo della globalizzazione. Si era sviluppata una visione provvidenziale della globalizzazione: con l’apertura dei mercati, si credeva che ovunque sarebbero arrivate pace, democrazia e prosperità. Quasi la globalizzazione fosse una grande provvidenza che beneficava il mondo. La storia, invece, è andata diversamente. Oggi lo vediamo con una chiarezza che non avevamo anni fa, quando cominciammo i nostri incontri. La globalizzazione ha ingenerato reazioni identitarie: sono comparsi nazionalismi aggressivi, etnicismi, fondamentalismi religiosi, mentre si è praticata – di occasione in occasione – una politica di aggressione militare. La stessa vicenda dell’Iraq, che giaceva sotto una dittatura pesante e sanguinaria (lo dico con l’amicizia per i nostri ospiti irakeni), è stata travagliata da due guerre e da una frammentazione interna, che ha conosciuto conflitti, terrorismo, violenze. Ma non è un caso unico”.

Quegli anni di dittatura il principale ospite sciita, Jawwad Kohei, li conosce bene, visto che il suo avo, il grande ayatollah al Khoei al quale è dedicata la fondazione che presiede, fu prima imprigionato, umiliato e poi rinchiuso agli arresti domiciliari da Saddam Hussein.

Il cambio d’epoca di cui ci ha avvertito da anni Francesco, e che oggi appare immaginare l’archiviazione dell’ordine liberal democratico, evolve dunque ancor di più, ma Francesco ci aveva avvertito per tempo, tanto che Riccardi ha potuto proseguire così: “Siamo abitati da un profondo senso di crisi. Come dice papa Francesco, “quella che stiamo vivendo non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca”. Ce ne accorgiamo ora, consapevoli dei rischi dei cambiamenti d’epoca, ma anche del prezzo che si paga, come la terribile guerra in Ucraina, che dura da tre anni, quella in Terra Santa, ed altre purtroppo aperte.

Questa epoca imprime un suo carattere anche ai conflitti in corso: si eternizzano e non se ne trova la fine”. Una chiave possibile di lettura di questo incontro con gli sciiti è giunta subito dopo: “il mondo senza dialogo soffoca!”  Cosa vuol dire? Ascoltandolo ho pensato allo scontro di civiltà; certo questa idea non aiuta a dialogare e quindi non è bene portare farina al sacco dei suoi teorici, che non sono solo da noi, ma anche negli altri campi. Ognuno ha i suoi fautori dello scontro di città ed elevarli a parti che esprimono il tutto dei campi da cui provengono li aiuta. Questi sciiti chiamati a Roma, che ruotano attorno all’insegnamento della loro più antica e autorevole scuola teologica, quella di Najaf, non quella khomeinista, la scuola di Qom, li ho sentiti nelle edizioni precedenti di questi dialoghi esprimere la loro visione non teocratica; sono dunque la voce di uno sciismo spirituale, che aggiorna nella storia quello antico, che è molto importante conoscere, capire.

I mondi sono tali se sono aperti e quello sciita ha bisogno di dire di sé più di altri, per la sua complessità e anche per il peso che i fondamentalisti hanno assunto nella loro rappresentazione pubblica. Così il suo discorso, nel passaggio seguente, ci ha portato a un tema decisivo, l’odio e quindi la forza, il culto della forza. Non è quello che ha tormentato anche il mondo sciita, con le sue milizie in armi? Ha detto Riccardi: “Siamo nell’età della forza. Ciò che conta e occupa tanto spazio nel dibattito nazionale e internazionale, sono gli armamenti, gli scontri, le questioni economiche e finanziarie e tant’altro, ma tutto è rivelatore del peso determinante del denaro e della forza armata.

Viene da chiedersi qual è lo spazio delle religioni? Quale il loro ruolo in un mondo così cambiato? In questa stagione, che una studiosa americana, Amy Chua, definisce l’“età dell’odio”, sembra che il ruolo delle religioni sia residuale. Non pochi pensano questo. Se oggi le religioni non sono aggredite da campagne ateistiche e persecuzioni sanguinose come durante la guerra fredda (anche se molti credenti soffrono ancora), tuttavia c’è spesso scarsa considerazione per le religioni. Al massimo, taluni potenti le utilizzano, più che lasciarsi guidare dalla loro parola e ispirazione”.

Il lavoro dell’interpretazione

Letto qui, da noi, viene naturale pensare al nostro confronto, a quanto a dir poco problematico accade da noi. È così. Ma non solo qui. Bisogna allora provare a leggere queste parole con gli occhi degli interlocutori sciiti: propongono una via miliziana all’Imamato globale, portato sulle ali armati delle milizie? Sebbene nulla sia perfetto a questo mondo, la scuola di Najaf, alla quale gli ospiti di Sant’Egidio si richiamano, parla di uno sciismo che si aggiorna, incontra e dialoga, e ricordando i suoi capostipiti, si vive come vittime della forza, ma ha l’intelligenza, la coerenza, di fare la scelta opposta, non l’analoga in via opposta.

Dopo il professor Riccardi infatti ha preso la parola il professor Jawad al Khoei, del cui discorso non posso fare citazioni virgolettate perché il testo scritto del suo discorso non è stato distribuito. Ma ho sentito chiaramente la sua voce soffermarsi molte volte sull’importanza dell’ijtihad, cioè dell’interpretazione. Nessun khomeinista che si rispetti negherà questo pilastro dello sciismo, l’interpretazione compete a chiunque sia intitolato, i grandi ayatollah, fonte di imitazione.

Costoro possono interpretare le scritture, la legge islamica, e quindi emettere delle sentenze religiose. I khomeinisti però sanno che nella loro visione il potere religioso si è fatto politico, per via della teoria del governo del giureconsulto, cioè Khomeini stesso e poi i suoi successori nel ruolo di “guida della rivoluzione”. Dunque per loro la “guida” è l’unico depositario di possibile imitazione, è il solo che può governare politicamente e religiosamente. Infatti il partito khomeinista Hezbollah, pur essendo libanese, afferma nel suo atto costitutivo di rispondere alle decisioni e indicazioni di Khomeini, e poi di Khamenei.

La scuola di Najaf

Proprio il grande ayatollah al Khoei , che allora guidava la più importante scuola teologica sciita, quella di Najaf, respinse nettamente “l’eresia” teocratica, ricordando che nello sciismo potere politico e potere religioso non si identificano, non possono.

Così oggi esiste la scuola khomeinista, che segue la giurisprudenza di Khamanei, ma deve riconoscere il diritto ad esistere della prima scuola teologica sciita, molto diversa, quella di Najaf, che rifiuta la loro scelta teocratica, e qualche altra. Najaf, essendo la città santa dello sciismo, dove si venerano i resti terreni del padre spirituale degli sciiti, l’Imam Ali, oggi governata sulla linea dell’ayatollah Khoei, condivisa dal suo discepolo al Sistani; è la casa madre della teologia sciita mondiale, sebbene a molti appaia messa in ombra da Qom e dai khomeinisti.

I ripetuti richiami di al Khoei all’interpretazione, cioè a questo bene pluralista dell’interpretazione, parla di un’altra visione, sebbene qui non possa dettagliare come abbia presentato “l’interpretazione”, il suo valore, non potendo su un tema così “sciita” azzardare un riassunto mio delle sue parole tradotte all’uditorio. Ma è certo che, subito dopo, Jawwad al Khoei ha fatto riferimento al diritto all’autodeterminazione dei popoli, al principio della non ingerenza, alla decisiva promozione della cittadinanza, così importante in tutto il mondo ma soprattutto in Paesi complessi, etnicamente e religiosamente, come il suo Iraq.

Queste parole possono essere lette “da una parte e dall’altra” del grande divide dell’odierno Medio Oriente. C’è un tipo di oppressione, ma c’è anche il suo contrario, e sentire un così autorevole esponente sciita parlare di diritti di cittadinanza e di diritti umani non può che far pensare anche a quando accade in Iran, e non solo ai curdi o alle altre minoranze etniche: a loro ma anche a chi vive nel grande movimento “donna, vita, libertà”.

Ci sono poi i diritti di non ingerenza del suo Iraq, di cui si parla poco ma che l’Iran poco rispetta, o quelli del Libano, dove così a lungo Hezbollah ha espropriato i libanesi del diritto ad una strategia nazionale di difesa.

Tenendo conto di questo, ovviamente, si dovrà tenere conto anche del suo rovescio, a noi più noto. Ma che una voce sciita abbia parlato di “cittadinanza e diritti umani” in questo drammatico contesto ci aiuta a capire perché abbia colpito tanto la frase che il professor Riccardi ha pronunciato citando quanto detto da Francesco in una visita a Sant’Egidio: “senza dialogo il mondo soffoca” – perché le parole di al Khoei sembrano dirci anche che gli opposti estremismi si sorreggono, che vicendevolmente occorre sostenere la ragione del vivere insieme nel rispetto.

E gli sciiti hanno le risorse per una riforma interna del discorso religioso, quella riforma che ha invocato espressamente come necessaria il kuwaitiano Abu al Qasim Dibaji, segretario generale della World Pan Islamic Jurisprudence Organization.

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