Gaza: qualche domanda a Pierbattista Pizzaballa

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Il settimanale diocesano L’Azione (Vittorio Veneto), ha intervistato telefonicamente il card. Pierbattista Pizzaballa dopo la sua rinuncia a partecipare agli eventi giubilari previsti in diocesi a causa della drammatica situazione nei territori palestinesi (18 settembre 2025).

  • Cardinal Pierbattista Pizzaballa, ci spiace molto che non possa essere con noi a Motta di Livenza nei prossimi giorni, ma comprendiamo le ragioni.

«Spiace molto anche a me aver dovuto disdire questo come pure anche altri impegni. Tuttavia, partire in questo momento, con quello che sta succedendo in Cisgiordania e soprattutto a Gaza, non mi sembrava e non mi sembra opportuno. La gente ha bisogno di sapere che ci sono, che sono qui. In coscienza non mi sento di lasciare la diocesi».

  • Cosa sta accadendo a Gaza? Qual è il suo punto di vista?

«Come ho già detto anche in altre occasioni, sento un grande senso di impotenza e di frustrazione in questa situazione. Cerco di rimanere sereno e libero. L’importante è non diventare strumentali a uno schieramento o all’altro, a motivo delle gravi polarizzazioni che ci sono in questo momento. Comunque, è chiaro che quanto sta accadendo è di una gravità enorme e non riesco a capirlo, se non ricorrendo a quelle che sono le logiche umane. Non riesco a capire come si possa tollerare una cosa del genere. Sono affranto per tutto l’odio che questa situazione sta creando, allontanando sempre di più ogni prospettiva futura di ricomposizione e di guarigione di queste ferite».

  • Alcune voci vicine ad Israele, anche tra i media italiani, affermano che quello che si vede – la distruzione, la fame, i morti… – è frutto della propaganda di Hamas e non corrisponde alla realtà.

«Non è tutto nero o bianco: questo è ovvio. È evidente che ci sono delle strumentalizzazioni; è evidente che Israele ha delle ragioni… Tuttavia non possono in alcun modo giustificare quello che accade a Gaza. Questo va detto».

  • C’è una sproporzione reale, quindi, tra quanto è accaduto il 7 ottobre e la risposta da parte di Israele…

«Credo che sia evidente, e non si può tacerlo. Ne pago le conseguenze e il prezzo, anche in termini di relazioni e di amicizie. Però bisogna riconoscerlo».

  • Il progetto di due popoli e due Stati, oggi come oggi, ha ancora un valore?

«Quella dei due Stati resta idealmente una prospettiva che però rischia di diventare solo una dichiarazione, comunque necessaria. Bisognerà essere molto creativi per il futuro, perché qualsiasi soluzione dovrà prevedere periodi molto lunghi e un contesto di opinione pubblica e un contesto culturale che lo comprenda. Bisognerà lavorare molto per creare le condizioni di quale che sia la prospettiva futura. “Due popoli e due Stati” è sempre più lontana come possibilità, anche se resta quella ideale».

  • Il riconoscimento dello Stato palestinese da parte della Comunità internazionale è ancora una strada da percorre?

«La Chiesa ha riconosciuto lo Stato palestinese già da tempo. Sono gesti importanti. I palestinesi hanno bisogno, sì, di sostegno umano, ma hanno bisogno anche di essere riconosciuti nella loro dignità di popolo. E chiedono di essere riconosciuti come Stato. In che tempi questo accadrà, non so dirlo. Soprattutto, non si può negare ad un popolo, come quello palestinese, di sentirsi “popolo”».

  • Da noi, qui in Occidente, è difficile capire la posizione di Israele. O, meglio, è difficile distinguere tra Governo israeliano e il sentimento del popolo ebraico. Ci aiuta a fare chiarezza?

«Sì, in effetti, bisogna distinguere. Un conto è il Governo, un conto è la società israeliana e un conto è il popolo ebraico. Non bisogna confondere i piani. Il popolo ebraico ha un riferimento importante nello Stato di Israele, ma non è necessariamente da identificare con questo. Il governo attuale, inoltre, non rappresenta tutto il popolo ebraico né tutta la popolazione israeliana. Ci sono forti dimostrazioni contro il Governo: la società israeliana è divisa riguardo alla guerra, riguardo al Governo, riguardo alla questione degli ostaggi. Generalizzare in questo ginepraio fa sempre torto a qualcuno».

  • Cosa possiamo fare noi, qui in Occidente, per non restare vittime di questo senso di impotenza? La nostra diocesi, tramite la Pastorale Sociale e Caritas Vittorio Veneto, ha indetto una raccolta fondi per Gaza…

«Credo sia importante pregare e anche creare momenti di preghiera comunitari. Credo sia molto importante la solidarietà nella preghiera, soprattutto avvicinandosi il secondo anniversario del 7 ottobre. Credo sia importante anche, come credenti, trovare il modo di stare dentro a queste situazioni, in cui umanamente ci sentiamo molto impotenti; stare dentro da credenti, con uno sguardo di fede, sapendo consegnare nella fede anche quello che non riusciamo a comprendere: tanto dolore, tanta sofferenza, tanta ingiustizia… Non diventare strumentali a un linguaggio di odio, ma rimanere sempre ancorati a una parola che salva e che apre orizzonti e costruisce, senza mai distruggere».

  • Come settimanali diocesani e stampa cattolica possiamo portare un contributo?

«Sì, penso di sì. La comunicazione e i media sono molto importanti. Possono veicolare un linguaggio negativo o il contrario. Nel libro del Deuteronomio Dio dice a Israele: “Pongo dinanzi a te la benedizione e la maledizione, la morte e la vita, perché tu scelga la vita!”. Così anche noi dobbiamo essere coscienti che non solo dobbiamo scegliere la benedizione e la vita, ma anche promuoverla con quello che facciamo, con il linguaggio che utilizziamo».

  • La politica – anche la politica del nostro Paese e delle nostre istituzioni – può favorire una svolta?

«Non perderei troppo tempo con la politica. Ciò che è evidente in questo periodo è la debolezza, se non la paralisi, delle istituzioni politiche locali, internazionali, multipolari… vorrei dire anche delle istituzioni religiose. Questo è il momento della società civile: è lì soprattutto che dobbiamo agire ed è a questa che dobbiamo parlare».

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Un commento

  1. Giuseppe 23 settembre 2025

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