Marie-Jo Thiel: celibato, una disciplina da ripensare

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Tema di dibattito ricorrente, il celibato dei preti è questione soggetta a diversi fraintendimenti. Per la teologa francese Marie-Jo Thiel, che ha dedicato un libro alla questione, la disciplina del celibato non dovrebbe più essere obbligatoria, ma facoltativa. Lo argomenta in questa intervista che riprendiamo dal sito della rivista La Vie (pubblicata il 9 ottobre 2024; cf. l’originale francese). Marie-Jo Thiel (1957) è teologa, medico di formazione e professoressa di etica e teologia morale alla Facoltà di Teologia cattolica, nonché direttrice del CEERE (Centre européen d’enseignement et de recherche en éthique) dell’Università di Strasburgo.

In un mondo secolarizzato, il celibato dei preti suscita molta incomprensione e numerosi malintesi. Ancora di più da quando gli scandali di violenze sessuali nella Chiesa scandiscono l’attualità. All’interno della Chiesa cattolica romana, la questione viene regolarmente rimessa sul tavolo, soprattutto da parte dei laici, anche se è stata esclusa dalle discussioni del Sinodo sulla sinodalità. Medico di formazione e teologa, Marie-Jo Thiel prende posizione sul tema del celibato nel suo libro La grâce et la pesanteur (Desclée de Brouwer, 2024). Vi esamina i fondamenti e le giustificazioni di questa disciplina sessuale applicata al clero fin dal Medioevo. Con un linguaggio colto ma accessibile, auspica un’evoluzione, in controtendenza rispetto alla tradizione della Chiesa.

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  • Il grande pubblico immagina un legame diretto tra il celibato dei preti e le violenze sessuali commesse da alcuni membri del clero, come recentemente nel caso dell’abbé Pierre. Non c’è forse un malinteso?

Sì, chiaramente. La CIASE ha spiegato bene che il celibato non è la causa diretta degli abusi, ma contribuisce a una certa visione del prete che può favorire un terreno propizio all’abuso. Vivere in coppia non ha mai impedito di commettere violenze. Nonostante questo, il malinteso persiste. E penso che la Chiesa stessa contribuisca a mantenerlo quando confonde celibato, continenza e castità.

In realtà, la castità riguarda tutti i fedeli, qualunque sia il loro stato di vita. Il teologo Xavier Thévenot lo diceva in modo mirabile: castus è il contrario di incastus (incesto). L’incesto è la fusionalità là dove dovrebbe esserci una separazione. La continenza consiste nell’astenersi dai rapporti sessuali. Il celibato significa non essere sposati. Si può dunque essere celibi senza essere casti e continenti.

  • Nel suo libro lei sostiene che la Chiesa debba tornare sull’obbligo del celibato per i preti. Qual è stato il suo percorso personale su questo tema?

Sono stata educata in un ambiente cattolico con l’idea che ogni vita consacrata fosse una grazia straordinaria, al punto da dimenticare talvolta che anche il matrimonio è una grazia. Poi ho scoperto lo scandalo assoluto di persone consacrate o di preti che commettono abusi. Questo mi ha portato a pormi la domanda: il celibato c’entra in qualche modo? Poco a poco mi sono resa conto che molti fattori contribuiscono alla perpetrazione di questi abusi, ma anche alla prassi di occultarli. Occorre essere molto chiari: il celibato non è direttamente in causa negli abusi. Ma è uno degli elementi che può entrare in sinergia con altri per contribuire a violenze sui minori o su persone rese vulnerabili.

  • Come si inserisce il celibato in questa dinamica deleteria?

La cultura clericale, che pone il prete al di sopra dei laici creando una dissimmetria, può essere un pendio scivoloso verso il rischio di violenze sessuali. Tale cultura è favorita dall’obbligo del celibato, uno sforzo che colloca la persona su un piedistallo rispetto ai laici, favorisce lo stare tra pari e talvolta un sentimento di superiorità che porta a un’infantilizzazione dei fedeli. A ciò si aggiungono abusi di potere, una frequente minimizzazione o addirittura discriminazione delle donne, e poi la difficoltà ad assumere la propria vulnerabilità… tutti questi fattori agiscono insieme in sinergia e contribuiscono a quella dimensione «sistemica» che viene dettagliata dalla CIASE.

  • Il celibato può tuttavia essere vissuto bene da molti preti.

È una grazia donata da Dio! Il titolo del mio libro rovescia quello di Simone Weil: la grazia, nel senso di dono di Dio, precede la pesantezza della carne e del mondo; Dio chiama in tempo e fuori tempo. Ma la grazia presuppone la natura, come diceva san Tommaso d’Aquino. Ciò significa che deve prendere corpo, incarnarsi, per portare frutto. È dunque inseparabile dalla pesantezza che la contrasta ma anche la stimola. La pesantezza può essere sollevata dal dinamismo della grazia. Se qualcuno è chiamato da Dio al celibato, rendiamo grazie! Ma dipende dalle persone. Il dono di Dio germoglia sempre in modo singolare in ogni essere umano.

  • Al di là della questione degli abusi, lei passa in rassegna i fondamenti del celibato dei preti. Il suo giudizio è che oggi non siano più del tutto validi. Perché?

Il mio libro non riguarda il celibato dei preti, ma l’obbligo del celibato. Questa questione non è dell’ordine del dogma, ma della disciplina. L’esigenza del celibato non è dunque immutabile. Ed è legittimo esaminare se sia ancora giustificata o meno. Analizzandola nel dettaglio, giungo oggi alla conclusione che il celibato è un’opzione possibile per alcuni, dopo il discernimento, ma che non dovrebbe essere obbligatorio per essere preti.

  • Come rilegge la tradizione della Chiesa a partire dalle prime comunità cristiane?

Secondo il mio giudizio, né le Scritture né la tradizione della Chiesa possono essere invocate per costringere i preti al celibato. All’inizio, Gesù si è comportato in modo estremamente aperto con gli uomini e le donne del suo tempo. Ha fortemente relativizzato tutto ciò che riguarda la sacralizzazione religiosa: per lui l’essere umano viene prima, non il sabato. Di tale convinzione, Paolo di Tarso è uno dei primi destinatari. Egli organizza le prime comunità cristiane, una ventina d’anni dopo la morte di Gesù, a partire dall’uguaglianza battesimale. Dopo la morte di Paolo, le donne vengono nuovamente marginalizzate, sempre più escluse, allontanate dall’altare, considerate fonti d’impurità… Verso l’anno 200 la verginità prende il sopravvento sul matrimonio, che viene squalificato. La cultura monastica, in piena espansione, serve da modello a una preferenza per il celibato dei chierici. E a metà del III secolo, coloro che riescono a mantenere continenza, castità e celibato sono considerati superiori ai laici. Il controllo della sessualità diventa un segno del controllo richiesto per il governo della Chiesa.

  • Lei ritiene che bisognerebbe tornare al modello iniziale di Paolo per dissociare il celibato dal potere ecclesiastico.

Mantenendo obbligatorio il celibato per i preti, si mantiene il nodo potere-sessualità-genere, che è alla fonte del potere clericale nella Chiesa. Paolo, invece, ha costruito la sua prima comunità, da un lato, sull’uguaglianza battesimale e, dall’altro, sulla molteplicità dei carismi. Ciò riduce le relazioni asimmetriche tra clero e laici e apre alla collaborazione. Il Concilio Vaticano II ha cercato di formulare questa visione nella Lumen gentium, ma non è andato fino in fondo alla sua intuizione, perché occorreva trovare un compromesso tra progressisti e conservatori.

  • Questo tema non era all’ordine del giorno del sinodo sulla sinodalità. Lo rimpiange?

Lo statuto dei ministeri e la questione dei carismi erano comunque in programma. Ritengo che la Chiesa possa riformarsi solo riflettendo su una nuova lettura della Scrittura riguardo al tema dei ministeri e dei carismi. Bisognerebbe dissociare il carisma del celibato da quello del sacerdozio.

  • Il fatto che il celibato obbligatorio non sia più compreso dai nostri contemporanei è uno dei suoi argomenti forti per sostenere un cambiamento di disciplina. Non c’è in questo scarto rispetto allo spirito del tempo un profetismo legittimo?

Non dico il contrario. Il celibato è sovversivo rispetto al consumismo del nostro mondo. È un segno della chiamata alla radicalità evangelica. Continuo a sostenere che il celibato possa essere un elemento centrale di questa prospettiva. Ma non bisogna forzare troppo l’ideale sacerdotale esigendolo da chi non è fatto per questo.

  • L’immagine del prete che dona tutta la sua vita al Vangelo è molto legata al celibato. Non si rischia di alterarla dissociando sacerdozio e celibato?

Interrogando i preti già sposati nella Chiesa cattolica romana – perché ce ne sono (gli orientali, i vedovi o i ministri di altre Chiese cristiane divenuti cattolici)! – ci si rende conto che, alla fine, la vita familiare non è un problema. La maggior parte di loro vi dirà che è quanto consente al prete di comprendere meglio i fedeli. E il sacerdozio può convivere con una professione, a condizione che non sia troppo invasiva. La vocazione può irrorare il lavoro che dà da vivere.

  • Il matrimonio immunizza contro l’esaurimento o la solitudine?

Non idealizziamo nemmeno il matrimonio! Come il celibato, anche il matrimonio non è una lunga e tranquilla navigazione. Ma l’uno e l’altro sono modi di seguire Cristo. E per un prete poter parlare la sera con un coniuge, condividere le gioie della famiglia, può aiutare ad alleviare le tensioni.

  • Lei propone come soluzione l’ordinazione di uomini già sposati (viri probati), sul modello delle Chiese orientali. Ma in queste Chiese i preti non sposati sono superiori a quelli sposati. Il celibato resta un fattore di gerarchizzazione.

Al modello orientale preferisco il modello dei carismi, che permette di tornare all’uguaglianza battesimale. Il celibato è una delle possibili porte d’ingresso per de-clericalizzare la Chiesa, ma non è l’unica. Non dimentichiamo che siamo in un sistema in cui tutti gli elementi interagiscono. Quando si tira un filo è tutta la matassa che viene dietro: i ministeri, le donne, la pastorale e persino la questione della lettura della Bibbia, che è sempre letta in funzione dell’identità del lettore.

  • Lei è teologa ma anche medico. Che cosa le apporta questa competenza?

La mia formazione medica mi offre elementi di comprensione del funzionamento di un corpo e di una psiche. È sempre sottesa al mio modo di discernere, anche se non appare in primo piano. È essenziale, perché si può facilmente ragionare in modo astratto. Al di là della medicina, le scienze umane contribuiscono alla comprensione del funzionamento dell’essere umano. Sono indispensabili per comprendere la persona nella sua globalità. Perché è proprio a questa persona nella sua complessità che si rivolge la parola di Cristo: «Seguimi!»

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3 Commenti

  1. Giovanni Belloni 19 dicembre 2025
  2. Una donna 19 dicembre 2025
    • Richard 19 dicembre 2025

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