
Dalla missione del MEAN in Ucraina per il Giubileo della Speranza 1-5 ottobre 2025: pensieri (3)
La chiesa di San Nicola Taumaturgo, basilica greco-cattolica di Kharkiv, è avvolta da ponteggi e coperture telonate, ma non è stata colpita da missili, droni o altri ordigni. Non è nemmeno in corso di restauro, anche se la struttura architettonica e i materiali da costruzione del tutto tradizionali farebbero supporre un edificio storico.
Si tratta invece di una chiesa di nuova costruzione, i cui lavori sono stati interrotti all’inizio del 2022 al momento dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Federazione Russa.
Nella primavera di quell’anno Kharkiv venne bombardata e fu teatro di aspri combattimenti strada per strada, boots on the ground, finché la resistenza ucraina riuscì, nell’autunno successivo, a ricacciare l’esercito invasore. Ma Kharkiv è sempre e ancora zona a rischio, nel mirino degli attacchi aerei, perché si trova a meno di 40 km dal confine e soprattutto perché, dopo Kyiv, è la città più importante dell’Ucraina, una città universitaria, felicemente multietnica, custode di un ragguardevole patrimonio artistico e culturale, e perciò ambìto obiettivo di conquista.
Di quei mesi terribili la città porta ancora i segni, inevitabilmente, anche se non c’è traccia di macerie, subito rimosse, i luoghi pubblici sono curatissimi e non si trova una cartaccia per terra.
In quei mesi terribili il progetto di San Nicola Taumaturgo cambiò radicalmente.
La cripta seminterrata diventò un bunker per accogliere chiunque cercasse rifugio. Tutto intorno era guerra, racconta con poche parole il vescovo greco-cattolico Vasyl Tuchapets, e qui ci trovavamo per stare al sicuro, per stare insieme e anche per pregare.

Lavori a San Nicola Taumaturgo
La chiesa vera e propria, rialzata su un alto basamento sopra la cripta, con l’ampia navata a pianta circolare ingombra di ponteggi fino al soffitto, coi muri ancora privi di intonaco e il cellophane alle finestre, è diventata magazzino per gli aiuti umanitari: bancali di conserva di pomodoro, pasta, merendine, latte a lunga conservazione e fette biscottate (moltissimi aiuti dall’Italia). È con orgoglio che il vescovo Tuchapets ci invita a visitarla.
Nello spazio esterno intorno alla chiesa, dentro il recinto che la circonda, alcune grandi tende contengono altri beni di prima necessità (soprattutto vestiti, coperte e kit igienico-sanitari) e sono adibite alla distribuzione settimanale degli aiuti. Altre tende coibentate rappresentano uno dei «punti di invincibilità» che si trovano nell’Ucraina sotto attacco, luogo di ritrovo e di soccorso in caso di allarmi gravi e di black out: un generatore le scalda e consente la ricarica di torce, cellulari e altri devices; tavoli, panche e cucina da campo con pentoloni fumanti ne fanno un locale di ristoro; una rastrelliera di rubinetti serve ad attingere acqua potabile quando le pompe degli impianti idraulici non funzionano. Qui veniamo accolti festosamente dopo la celebrazione liturgica in cripta e le volontarie ci offrono, con l’energica gentilezza delle donne ucraine, the, caffè e dolci.

Il rifugio a San Nicola Taumaturgo
Sul retro della chiesa alcuni container ospitano gli ultimi sfollati, perché fino a qualche mese fa a Leopoli si trovavano gli sfollati da Kyiv, a Kyiv quelli da Kharkiv e a Kharkiv quelli dai villaggi del vicino confine, in una continua migrazione ad effetto domino verso ovest. Adesso tutte le città sono soggette ad attacchi aerei. Difficile decidere dove andare.
Infine ci sono gli orti, sempre dentro il recinto di San Nicola, perché in quasi quattro anni di guerra si è capita l’importanza dell’economia di sussistenza e ci si è attrezzati per resistere anche in città.
San Nicola Taumaturgo in Kharkiv è immagine immediata della Chiesa voluta da papa Francesco come «ospedale da campo». Lo è non soltanto come evidenza metaforica, ma come scelta sostanziale e consapevole. Qual è il compito della chiesa ucraina in questi tempi terribili? Asciugare le lacrime, dice il vescovo Tuchapets, offrire consolazione, rifugio e speranza: allora puoi dire Questa è la mia chiesa.

Il vescovo Vasyl Tuchapets, esarca greco-cattolico di Kharkiv
In questo contesto di realtà e di senso, che non richiede aggiunta di esegesi, la celebrazione del Moleben (celebrazione di supplica) alla Vergine Maria secondo il rito greco-cattolico, decisamente poco comprensibile per noi, nonostante lo sforzo del bilinguismo e dei sussidi predisposti, ci coinvolge e ci emoziona profondamente. Dentro la cripta dal basso soffitto che a fatica ci contiene tutti e centodieci, riusciamo a non trovare teatrale l’iconostasi dorata che ha fatto di uno scantinato una chiesa provvisoria e nemmeno i pesanti paramenti liturgici che inscatolano il piccolo vescovo Vasyl nascondendone la persona, perché il suo viso è radioso da sotto l’alta mitra e il suo sguardo esprime gioia e gratitudine prima ancora che le sue parole vengano tradotte.
E cominciamo a renderci conto davvero che il fatto di essere lì, a Kharkiv, insieme alla gente di Kharkiv è il vero «aiuto» che stiamo portando. La stessa percezione abbiamo avuto nella chiesa cattedrale romano-cattolica, vedendo il vescovo Pavlo Honcharuk contenere a fatica l’emozione durante la processione d’ingresso della celebrazione eucaristica, per il solo fatto di vederci lì. Sarà poi il professor Ihor Biletsky, rettore dell’Università Beketov, nel pomeriggio, a fissare il concetto con razionale chiarezza:
«La guerra è un male assoluto. Distrugge tutto, distrugge le case, le vite, ma anche le anime e le idee. Tutto. Ma c’è una cosa più brutta della guerra ed è l’indifferenza. Voi ricordate a noi che esiste un mondo che non è rimasto indifferente e la vostra presenza ci fa sperare che possiamo vincere questo male che è la guerra».
Tra ripetuti segni di croce, che non siamo in grado di eseguire a tempo, e sventagliate di turibolo con campanelli alla catena, il coro di S. Nicola Taumaturgo procede risolutamente con le antiche e popolari melodie bizantine a più voci, che riempiono i vuoti senza bisogno di accompagnamento musicale. Spicca tra i cantori la voce e l’alta figura di suor Oleksia, che sappiamo solita girare col furgone degli aiuti tra i paesi sul confine russo col rigido copricapo a velo della tradizione orientale e il giubbotto antiproiettile: è stata in Italia con un gruppo di ragazzi ospitati dalla Diocesi di Como per una «vacanza dalla guerra», conosce alcuni di noi e non sta nella pelle dalla gioia.
Intanto la liturgia di supplica alla vergine Maria prevede che i celebranti si trovino insieme al di qua dell’iconostasi, dalla stessa parte dell’assemblea e allo stesso livello dell’assemblea, davanti al solenne leggìo che regge il libro della Bibbia. Si viene quindi a creare una disposizione circolare – tutti intorno alla Parola, non altro che la Parola – che sorprende chi si aspetta nel rito orientale una più rigida separazione tra clero e laici, tra sacro e profano.

Il vescovo cattolico latino di Karkiv, Pavlo Honcharuk
La diversità del rito cattolico romano da quello greco è visivamente notevole e non siamo in grado di comprenderne i particolari, ma risulta visivamente notevole anche la presenza di una comunità riunita intorno alla Parola e l’unità delle chiese che celebrano l’una il rito dell’altra: il vescovo Tuchapets della chiesa greco-cattolica aveva concelebrato la messa nella cattedrale latina insieme al vescovo Pavlo Honcharuk e ora il vescovo Pavlo concelebra il Moleben nella basilica di rito greco con il vescovo Vasyl, mentre il Nunzio Apostolico Visvaldas Kulbokas ci accompagna in tutte le tappe del percorso giubilare, dalla cattedrale di Kyiv alle due chiese di Kharkiv, fino alla straziante panachìda (commemorazione funebre) interconfessionale nel cimitero della città. E fra i tre si percepisce una confidenza che va oltre il rito, bella da vedere.
Ci abbiamo messo un po’, ma a poco a poco, di celebrazione in celebrazione abbiamo capito un altro aspetto importante delle Chiesa cattolica in Ucraina. Avevamo subito notato, nella cattedrale di Kyiv, la bandiera giallo-azzurra nazionale drappeggiata davanti all’altare, intrecciata al rosario e alla croce. A Kharkiv, in S. Alessandro, abbiamo visto la bandiera non solo davanti all’altare, ma anche di fianco alla statua di S. Michele Arcangelo, il protettore dell’Ucraina, e abbiamo scoperto che gli stemmi allineati sull’altar maggiore, ai lati del tabernacolo, non sono ex voto, ma i gagliardetti dei battaglioni al fronte. La cosa ci ha sorpreso, bisogna confessarlo, e ci è sembrata audace.
Abbiamo poi osservato che ogni celebrazione si concludeva con la supplica per la salvezza dalla guerra. I celebranti lasciano il presbiterio per unirsi all’assemblea in una supplica cantata in forma litanica, di grande pathos: Dalla malattia, dalla fame, dal fuoco e dalla guerra, salvaci Signore! Dalla morte improvvisa e inaspettata custodiscici Signore! E infine ogni celebrazione si conclude con l’Inno spirituale dell’Ucraina, di melodia più fiera. E allora abbiamo visto il vescovo Pavlo impugnare con più energia il pastorale, abbiamo sentito alzarsi il volume delle voci e invocare: Salva, Dio, la nostra Ucraina, concedi libertà, concedi saggezza, concedi un mondo buono… Per ben due volte si chiede «salvezza e libertà». È un inno che sentiamo cantare in molte circostanze anche laiche, nei video youtube e nei reel facebook, una sorta di secondo inno nazionale.

Piazza Maidan, Kiev
Non c’è dubbio, la chiesa ucraina ha preso posizione molto chiaramente. Non si limita ad «asciugare le lacrime», cosa che ognuno si aspetta da una chiesa cristiana, ma sostiene senza ipocrisie la resistenza ucraina e condivide con il popolo la lotta per la libertà e l’autodeterminazione.
Del resto, per quale altra ragione il Nunzio Apostolico ha voluto accoglierci, la mattina del nostro arrivo a Kyiv, proprio in piazza Maidan, la piazza in cui si è consumata la «Rivoluzione della dignità» del 2014, che si concluse con la fuga (dopo aver tentato una violenta repressione) del presidente filorusso Yanukovich? E siccome sapeva che non avremmo capito subito, l’arcivescovo Kulbokas ce lo ha pure spiegato, mentre ci accompagnava lungo l’infinita teoria di bandierine e foto commemorative dei caduti, invitandoci a pregare, anche con una preghiera laica di ringraziamento, per coloro che hanno dato la vita per la libertà del popolo ucraino, a pregare per la fine della guerra in Ucraina, correggendosi immediatamente e significativamente per sottolineare: per la fine della guerra «contro» l’Ucraina.
Non basta la resistenza delle armi, non basta la diplomazia della politica, ha aggiunto, occorre un movimento di popolo, un’idea con cui costruire la pace dal basso, un’idea che ancora non sappiamo quale sia (parole sue), ma che con questo pellegrinaggio giubilare si vuole esprimere, anche promuovendo concretamente la costituzione dei Corpi Civili di Pace Europei.
Eravamo un po’ storditi dalla nottata in treno, forse anche distratti dal rumore del traffico in piazza Maidan e dallo spettacolo impressionante delle bandierine commemorative, ma per fortuna qualcuno ha registrato queste parole e al ritorno in Italia abbiamo potuto coglierne il peso: non solo una presa di posizione, ma quasi un programma.

L’arcivescovo Kulbokas, nunzio a Kiev, in Piazza Maidan
Non siamo abituati a parole così chiare, perciò abbiamo avuto bisogno di tempo per capire una chiesa in situazione di guerra. Ancor più che «ospedale da campo», la chiesa ucraina ci è ci è sembrata un cantiere in costruzione, proprio come S. Nicola Taumaturgo, con un progetto sempre da rivedere davanti a una prova di realtà ineludibile quale è la guerra. E non è un caso che sia proprio questa prova di realtà, più che le questioni dottrinali, a segnare il difficile rapporto con le chiese ortodosse e tra le chiese ortodosse in Ucraina[1].
Dentro l’aeroporto di Cracovia c’è una cappella che è possibile prenotare con una telefonata, come si prenota una sala conferenze. Con un po’ di impegno la si trova anche nella stratificazione segnaletica dell’aeroporto. È uno stanzone rettangolare senza finestre, poco più di un garage, solo caratterizzato dall’immagine onnipresente di papa Giovanni Paolo II. Qui, in attesa degli imbarchi per Milano, Bergamo, Roma, nel non-luogo per definizione che è un aeroporto, si improvvisa una messa conclusiva del Giubileo della Speranza, senza ricami liturgici e solo con qualche canto di quelli più consueti, stanchi del viaggio e distratti dal pervasivo mercato aeroportuale, col sottofondo degli annunci dei voli e un’assurda puzza di ossido di carbonio proveniente dall’areazione forzata.
Come può essere che ne esca una celebrazione commovente?
Il fatto è che abbiamo alle spalle giornate memorabili di incontri, scambi, scoperte, che abbiamo tessuto relazioni, osato promesse, sperato nuovi incontri. Abbiamo vissuto in treno, poche ore prima, la tensione di un attacco aereo sopra le nostre teste, esperienza «immersiva», come si dice, ma in una «realtà reale». Sentiamo di aver bisogno di tempo per accogliere davvero e comprendere quello che abbiamo ricevuto e abbiamo il timore di non essere coerenti e conseguenti rispetto agli impegni che il cuore ha voluto prendere.
E allora non serve molto apparato, non serve nemmeno che ci conosciamo tutti (non ne abbiamo avuto il tempo), né che il prete celebrante sia «di quelli bravi», ma serve portare all’altare, insieme, quel che davvero della vita ci appassiona.
[1] Colpisce il confronto tra due documenti emanati in questi giorni, quasi contemporaneamente, rispettivamente dai vescovi della chiesa greco-cattolica ucraina (Nell’unità la forza del popolo. Lettera pastorale del Sinodo dei Vescovi della Chiesa greco-cattolica ucraina in Ucraina in occasione del periodo di Avvento) e dalla Conferenza Episcopale Italiana (Nota pastorale. Educare a una pace disarmata e disarmante). Pur considerando la diversità di circostanza dei due documenti, sempre di indicazioni pastorali si tratta, e mentre nelle tre pagine dei vescovi ucraini balena un cortocircuito teologico per cui “Seguire la via di Cristo è l’unica via sicura alla vittoria” (e il riferimento è inequivocabilmente all’attuale conflitto in corso con la Federazione Russa), nelle 34 pagine della C.E.I. troppe circonvoluzioni non indicano chiaramente alla comunità ecclesiale cui si rivolge un discernimento sul tema del ricorso alle armi e agli armamenti, mentre suggeriscono alla stampa titoli del tipo La C.E.I in opposizione al governo italiano e alla UE (Il Manifesto, 7/12/25).





