Brevi considerazioni sul dibattito Nardello-Grillo

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Oltre a sollevare la questione fondamentale dei rapporti ermeneutici tra Scrittura e Tradizione, nei suoi interventi Nardello affronta la questione del diaconato considerandola in sé stessa e dando voce, per nulla isolata, alla crisi che il ministero diaconale di fatto attualmente vive nella Chiesa.

E non solo nella sua forma transeunte, ma anche in quella permanente, malgrado le speranze che l’introduzione di quest’ultima forma aveva a suo tempo suscitato. Quanto scritto in proposito da Dario Vitali in merito lo attesta già da tempo[1]. Si tratta di un dato corrispondente alla realtà e non prenderlo in esplicita considerazione sarebbe dar prova di poca lungimiranza pratica.

Per Grillo la questione del diaconato viene invece affrontata in prospettiva sistematica. Il che lo porta a privilegiare il ministero ordinato in quanto tale. Ne consegue che l’eventuale accesso delle donne al diaconato sembra qui di fatto da lui considerata solo una prima tappa verso un loro graduale e auspicato accesso anche agli altri due gradi del ministero ordinato, esattamente come è già accaduto nella comunione anglicana. Il che complica la discussione sul diaconato, in quanto lascia molto non detto nel suo argomentare, a tratti molto aspro.

La sua posizione ha comunque l’indubbio merito di portare l’attenzione sulla problematicità del paradigma ecclesiologico gerarchico, un paradigma coerente rispetto alla minorità culturale e sociale a lungo patita dalle donne, in modo peraltro non sempre totale e uniforme. Oggi una tale minorità, che faceva dell’esser donna addirittura un impedimento all’ordinazione, certamente non è però più accettabile non solo culturalmente, ma neppure teologicamente. E questo in ragione dell’uguaglianza tra uomo e donna che nasce dall’essere entrambi fatti Uno in Cristo mediante il battesimo.

Oltretutto questo paradigma ecclesiologico gerarchico non si trova come tale nel Nuovo Testamento. Esso si è infatti imposto nella Tradizione come una traduzione, storicamente condizionata, dell’apostolicità della Chiesa contestualmente elaborata a partire dalla triade neoplatonica e dalla rilettura spirituale dei ministeri neotestamentari ispirata al sacerdozio veterotestamentario.

Diversamente da questo schema gerarchico, l’apostolicità, di cui tale schema è traduzione storica, rappresenta invece una delle note irrinunciabili della Chiesa proprio in quanto attestata nel Nuovo Testamento e proclamata nel Credo come verità di fede. E non solo nella figura dei Dodici, ma anche in quella di Paolo.

A questo punto bisognerebbe forse porsi la domanda sul paradigma ecclesiologico-sacramentale più adeguato per affrontare la questione dell’apostolicità del ministero ordinato e della sua coerenza o meno con l’ammissione in esso o in parte di esso anche delle battezzate.

Difficile rispondere senza riferirsi alla sacramentalità che il Vaticano II ha riconosciuto all’episcopato quale sommo grado dell’unico sacramento dell’ordine e strettamente collegato alla presidenza dell’eucaristia. Una presidenza che inevitabilmente pone la mai esaminata questione relativa all’esatto significato kenoticamente cristologico della mascolinità anche escatologica del Figlio morto e risorto, legata alla resurrectio carnis.

Un grado e una presidenza cristologica nel contempo però eminentemente relazionali, in quanto necessitano strutturalmente dell’imprescindibile concorso degli altri due gradi per poter venir adeguatamente svolti a reale beneficio della Chiesa, Corpo di Cristo e popolo di Dio.


[1] D. Vitali, Diaconi che fare?, San Paolo, Cinisello Balsamo 2019.

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5 Commenti

  1. Angela 21 maggio 2024
  2. Vincenzo 21 maggio 2024
    • Anima errante 22 maggio 2024
  3. Antonella Montalbano 21 maggio 2024
  4. Fabio Cittadini 18 maggio 2024

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