Donne e scrittura, tradizione e tradimenti

di:

saffo

Queste le donne dalla parola divina che l’Elicona
e la macedone rupe di Pieria nutrirono di canti:
Prassilla, Miró, Anite eloquente, pari ad Omero,
Saffo, ornamento delle donne di Lesbo dalle belle chiome,
Erinna, Telesilla gloriosa, e tu pure, Corinna,
che cantasti lo scudo bellicoso di Atena,
Nosside dalla voce sonora e Mirtide dal dolce canto,
autrici tutte di pagine perenni.
Nove sono le Muse, figlie del vasto Cielo, e nove sono esse
le generò la Terra – gioia imperitura per i mortali.
Antipatro di Tessalonica

 

Che ne è stato di Mirtide?

Il binomio donne e scrittura ha penato secoli prima di accreditarsi non come anomalia che conferma la regola di un’irreversibile incompatibilità, ma come eccezione aperta su scenari di un possibile tutto da costruire e da attraversare. Le donne non hanno diritto di parola e non hanno diritti sulle parole, questa la regola: non scrivono, non leggono, non studiano, non predicano, non insegnano, non usano le parole in pubblico, non pubblicano le loro parole.

Saffo inclusa nel Canone alessandrino dei nove poeti lirici è stata, ed è considerata ancora oggi, l’eccezione che conferma la marginalità e l’inconsistenza della scrittura d’autrice nella storia letteraria. È su uno sfondo culturale e su un immaginario collettivo di questo tipo che si staglia con originalità l’epigramma di Antipatro di Tessalonica, tutto intessuto sull’inattesa associazione donne-parola-divino.

Già nel verso d’apertura Antipatro, poeta greco vissuto a Roma in età augustea, indica che, al centro della sua poesia, ci saranno donne dalla parola divina – ed è, il suo, un impegnativo femminile plurale, non un asettico singolare, portatore di una privilegiata eccezionalità fuori classe e fuori concorso.

La qualità divina della parola poetica di queste donne nutrite di canti è esplicitata attraverso il riferimento all’Elicona e alla rupe di Pieria: in Pieria si diceva fossero nate le Muse e sul monte Elicona, in Beozia, alle Muse era consacrato un famoso santuario.

Nelle divine sorelle, figlie del principio celeste, Urano o Zeus, e di Mnemosine, dea della memoria, trovava espressione una delle forme più alte del sentire religioso greco.

In numero di tre o multipli di tre, secondo una struttura trinitaria caratteristica delle ipostasi femminili del divino, poi definitivamente canonizzate in nove, le Muse erano per i greci figura del legame indissolubile tra manifestazione artistica e presenza divina: il darsi dell’esperienza artistica come esperienza entusiastica, come possibilità esperibile solo nell’ousìa-en-theós, nell’essere presenti al divino e immersi nel divino, qualificava, per i greci, il gesto poetico come imprescindibilmente imbevuto di materia divina.

In questo epigramma che, con tutta probabilità, doveva essere il carme introduttivo ad una raccolta miscellanea delle nove autrici, Antipatro celebra la capacità poetica femminile proponendo un non scontato collegamento tra le nove scrittrici, figlie di Gea, la Terra – piano umano – e le nove Muse, figlie di Urano, il Cielo – piano divino. Le nove poetesse vengono nominate ad una ad una. Non solo Saffo, ma anche Prassilla, Miró, Anite, Erinna, Telesilla, Corinna, Nosside, Mirtide.

In un eccesso di ottimismo, Antipatro si augurava che le loro pagine perenni potessero valicare i secoli, quale gioia imperitura per i mortali. Ma se Saffo è riuscita a guadagnarsi una presenza autonoma nelle storie letterarie e la sua memoria si è in qualche modo conservata, di Prassilla, Miró, Anite, Erinna, Telesilla, Corinna, Nosside, Mirtide, che ne è stato? Scomparse nel nulla, o quasi.

E di tutte le scrittrici i cui nomi ci sono tramandati da altre fonti, in liste quasi fantomatiche di poeti? Che ne è stato di Learchide, Prassagoride, Clito, Mistide, Mnesarchide, Taliarchide? E di tutte le altre, quelle di cui non un nome ci è rimasto, non una manciata di versi né un’eco lontana?

Una donna che scrive come un uomo (o un uomo che si spaccia per donna)

Potrebbe essere interessante, a questo punto, spostarsi nel mondo latino, per appurare se a Roma sia possibile rinvenire qualche traccia un po’ meno labile di scrittura d’autrice.

A Roma non mancavano le donne colte. Sappiamo che nella famiglia romana le madri rivestivano un fondamentale ruolo educativo, come testimonia il famoso esempio di Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione e madre dei Gracchi, che insegnò personalmente l’eloquenza ai propri figli; conosciamo la vicenda di Ortensia, figlia dell’oratore Quinto Ortensio Ortalo, rivale di Cicerone, che alla metà del I secolo a.C. pronunciò una pubblica arringa davanti ai triumviri. C’è poi Sulpicia, l’unico nome di poetessa che ci arriva dalla latinità. Ma, Sulpicia o Tibullo?

Anche a Roma, come in Grecia, alle parole delle donne era interdetto l’ingresso nello spazio pubblico – Cornelia insegna, ma il suo insegnamento è circoscritto alla sfera domestica; Ortensia perora una causa in tribunale, ma è la situazione politica d’eccezione a permetterlo, e per quell’unica volta soltanto.

Trovare autonomamente canali di diffusione dei propri scritti era per le donne una via impraticabile. E così Sulpicia scrive poesie, dando voce ai propri sentimenti d’amore e al proprio desiderio, ma il nome in calce alla pubblicazione dei componimenti non è il suo, è quello di Tibullo.

Assorbite all’interno del Corpus Tibullianum, al momento della loro riscoperta in età moderna le elegie di Sulpicia apriranno un significativo dibattito critico. Sulpicia o Tibullo? Questo, in sintesi, il nocciolo della questione. E, giusto per confermare come, davanti alla produzione letteraria femminile, l’approccio più ovvio sia quello di matrice aristotelica che considera in via pregiudiziale inferiore l’opera di una donna, chi ha ritenuto che dietro la persona di Sulpicia si celasse, in un ardito gioco di finzione, il grande poeta elegiaco Tibullo, ha elogiato la raffinatezza e l’eleganza del suo latino, mentre chi ha dato credito alla presenza di Sulpicia come unica voce di donna nel panorama della poesia romana ha lasciato calare pesanti giudizi negativi sulla scarsa qualità del «latino femminile» della poetessa.

Poetesse italiane fra Duecento e Trecento

Le cose non vanno meglio se prendiamo in esame le italiche lettere. Il codice Vaticano Latino 3793, canzoniere di riferimento per la poesia in volgare delle origini, ci ha conservato tre sonetti della poetessa fiorentina Compiuta Donzella, la cui storicità è confermata da diverse altre fonti. Eppure numerosi critici hanno messo in dubbio la realtà storica di questa autrice, preferendo considerarla un’invenzione letteraria. Sorte analoga per la messinese Nina, legata alla Scuola poetica siciliana. Di lei ci rimane la corrispondenza poetica intrecciata con Dante da Maiano; ma i giudizi sulla sua effettiva storicità non sono mai stati concordi.

Anche nel secolo successivo, il Trecento, lo schema si ripropone, inalterato. Qui abbiamo addirittura un gruppo di poetesse, tutte marchigiane, legate fra loro in un fecondo sodalizio intellettuale: Ortensia di Guglielmo, Leonora della Genga e Livia Chiavelli da Fabriano, Giustina Levi Perotti da Sassoferrato, Elisabetta Trebbiani di Ascoli. Ma, anche in questo caso, la posizione dominante della critica è stata quella di negare a queste donne la verità storica per considerarle, piuttosto, come una falsificazione messa in atto da poeti petrarchisti del Cinquecento.

È evidente che risulta molto più semplice pensare le donne come oggetto del fare poetico, anziché come protagoniste della scrittura. E, soprattutto laddove lo scritto si qualifica per eccellenza di forma e stile e per forza di pensiero, diventa più facile negare il protagonismo femminile che dare ragione dell’assenza e della estromissione dal canone di autrici che la tradizione ha sbrigativamente collocato ai margini, o oltre i margini, della scrittura.

Il doppio itinerario della scrittura

Nel 1996 Marina Zancan, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma La Sapienza, pubblicava Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana.

Nel saggio, Zancan evidenziava come la compattezza della nostra tradizione letteraria, tutta rigorosamente ed esclusivamente maschile, fosse l’esito di un consolidato processo di assimilazione e azzeramento di ogni diversità, in primis delle donne, soggetti innominati della storia.

«Canone» e «tradizione» sono parole da maneggiare con consapevole cautela. Il canone si struttura per eliminazione, filtrando i contenuti da trasmettere attraverso lo schermo di una neutralità che tacita le dissonanze e la molteplicità delle prospettive, e la tradizione procede non solo per conferme, ma anche e soprattutto per silenziamenti. Perciò, ripensare la tradizione in chiave di rapporti di potere permette di decostruirne l’apparentemente inossidabile compattezza, mentre rileggere il canone alla luce e in dialogo con il controcanone apre alla possibilità di esplorare vuoti, evocare assenze e reinterpretare presenze.

In questo senso, secondo Zancan, si può parlare di «doppio itinerario»: da una parte, vi sono gli itinerari e gli spazi propri delle esperienze, dell’immaginazione e delle memorie che si possono incontrare nei testi scritti dalle donne; dall’altra, avvicinarsi a questi testi significa fare i conti con gli itinerari accidentati e impervi attraverso cui la parola e la scrittura delle donne è riuscita, o non è riuscita, ad intercettare i percorsi del canone e della tradizione storica e letteraria.

Il gesto della trasmissione è consegnato all’ambigua violenza che distingue la tradi-zione dal tradi-mento. La tradizione è sempre a rischio di tradimento. «Tradimenti della tradizione» non è solo un genitivo oggettivo – ciò che è tràdito può essere tradìto –, ma è anche un genitivo soggettivo – la tradizione stessa può, anziché tràdere, tradìre –. E, questo, la storia delle donne lo sa molto bene.

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Un commento

  1. Rita Venturini 2 agosto 2023

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