Sinodalità, cioè?

di:

frosini

La società contemporanea, nella quale la Chiesa è chiamata oggi ad annunciare sempre di nuovo il Vangelo della salvezza, si caratterizza – soprattutto in Occidente – per aver radicalmente cambiato paradigma. Ciò a tal punto che qualche interprete afferma che il cristianesimo sarebbe ormai confinato in un’insignificanza totale, almeno nel mondo occidentale attuale, in cui la percezione della fine di un mondo, o di un radicale cambiamento d’epoca, si alternerebbe e mescolerebbe con il tramonto secolaristico di tutti i valori tradizionali.

Tensioni e contraddizioni

Lo stesso Documento preparatorio della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, tenuto presente nell’Instrumentum laboris per la prima fase dell’Assemblea sinodale di ottobre prossimo, tracciava alcuni caratteri salienti del contesto storico attuale, registrando i cambiamenti epocali: saremmo ormai pervenuti ad un passaggio cruciale della stessa vita della Chiesa.

Quel Documento etichettava con il termine complessità il nostro tormentato contesto, con le sue tensioni e contraddizioni. La globalizzazione in crisi e il tempio crollato avrebbero fatto riconoscere che siamo tutti sulla stessa barca, peraltro con il rischio di affondare ma, al tempo stesso, avrebbero fatto esplodere le disuguaglianze e le inequità già esistenti (in particolare, processi di massificazione e di frammentazione; tragica condizione dei migranti). Anzi, delle fratture profonde percorrerebbero ormai non soltanto l’Occidente, ma l’umanità intera e, in essa, la stessa Chiesa, oggi alle prese con la mancanza di fede, la piaga degli abusi e la corruzione al suo interno:

«Accanto a Paesi in cui la Chiesa accoglie la maggioranza della popolazione e rappresenta un riferimento culturale per l’intera società, ce ne sono altri in cui i cattolici sono una minoranza; in alcuni di questi i cattolici, insieme agli altri cristiani, sperimentano forme di persecuzione anche molto violente, e non di rado il martirio. Se, da una parte, domina una mentalità secolarizzata che tende a espellere la religione dallo spazio pubblico, dall’altra, un integralismo religioso che non rispetta le libertà altrui alimenta forme di intolleranza e di violenza che si riflettono anche nella comunità cristiana e nei suoi rapporti con la società. Non di rado i cristiani assumono i medesimi atteggiamenti, fomentando le divisioni e le contrapposizioni anche nella Chiesa. Ugualmente, occorre tenere conto del modo in cui si riverberano all’interno della comunità cristiana e nei suoi rapporti con la società le fratture che percorrono quest’ultima, per ragioni etniche, razziali, di casta o per altre forme di stratificazione sociale o di violenza culturale e strutturale» (Documento preparatorio, n. 8).

In molti si chiedono se l’essere umano, soprattutto in Occidente, possa riprendere a coltivare il desiderio di quella spiritualità che sembra insito e insopprimibile nel suo cuore, ma temono che egli non lo sappia più identificare nell’esperienza cristiana che ha forgiato il recente passato.

E tuttavia, non mancano semi di speranza e di futuro, che lo Spirito continua a far germogliare anche nel nostro tempo:

«Il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto di amore, non si pente di averci creato. L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune» (LS, n. 13).

A quest’uomo, che talvolta non vede più nella Chiesa come istituzione una roccaforte di valori condivisi – riconoscendoli piuttosto nel successo economico e d’impresa, dove l’ostentazione del potere è commisurata al possesso di denaro e alla sua ricaduta nella gestione della cosa comune – la Chiesa propone oggi, come segno profetico, la sinodalità, che rappresenta la strada maestra.

È quest’uomo d’oggi, con tutte le sue problematicità e speranze, che la Chiesa intende sempre ascoltare ed è ciò che ha cercato di udire mediante questa lunga fase consultiva, con il metodo del discernimento in comune (anche se, sul totale dell’umanità, sono stati coinvolti pochi milioni di persone), o anche con il metodo della conversazione nello Spirito, che ha segnato profondamente la lunga fase consultiva del cammino sinodale, benché non sempre sia riuscita a far capire a tutti i consultati che si tratta di un cammino perenne nella storia, orientato dallo Spirito Santo, il quale va perciò pregato e costantemente invocato.

Un Sinodo sulla sinodalità: perché?

«La Chiesa riconosce che la sinodalità è parte integrante della sua stessa natura. L’essere Chiesa sinodale trova espressione nei concili ecumenici, nei sinodi dei vescovi, nei sinodi diocesani, nei consigli diocesani e parrocchiali. Sono molti i modi in cui sperimentiamo forme di sinodalità già in tutta la Chiesa. Tuttavia, essere una Chiesa sinodale non si limita a queste istituzioni esistenti. La sinodalità, infatti, non è tanto un evento o uno slogan, quanto uno stile e un modo di essere con cui la Chiesa vive la sua missione nel mondo».

Le efficaci battute del Vademecum per il Sinodo sulla sinodalità, pubblicato nel settembre 2021 dal Segretario generale del Sinodo dei vescovi, oltre a precisare il diverso peso e valore dottrinale di concili ecumenici e altre forme di consultazione generale o locale di vescovi e popolo di Dio, introducono efficacemente al clima e ai temi che stiamo vivendo in questi giorni in tutto il mondo, in vista della Prima sessione della 16ª Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che è calendarizzata dal 4 al 29 ottobre 2023 (la seconda sarà celebrata nel 2024).

Frattanto, in vista del discernimento comunitario della prima fase, è stato pubblicato l’Instrumentum laboris (20.6.2023), intitolato Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione. Tale documento

«articola alcune delle priorità emerse dall’ascolto del Popolo di Dio, ma non in forma di asserzioni o prese di posizione. Le esprime invece come domande rivolte all’Assemblea sinodale, che avrà il compito di operare un discernimento per identificare alcuni passi concreti per continuare a crescere come Chiesa sinodale, passi che sottoporrà poi al Santo Padre» (n. 10). In sintesi, la fase finale del Sinodo, dopo il raduno del 2024, elaborerà «le proposte concrete per crescere come Chiesa sinodale» (Introduzione).

In Italia, in particolare, a partire dal 12 luglio 2022, quando fu consegnato dalla Presidenza CEI il testo I cantieri di Betania, si è vissuto, dopo il primo anno di ascolto, il secondo anno del cammino sinodale in atteggiamento di cantiere, ovvero di progettazione, selezione dei materiali, costruzione che tenesse conto non solo delle nostre esigenze, ma di quelle del contesto e dell’ambiente.

Un primo Instrumentum laboris è stato, a livello globale, il “documento di lavoro” per ben sette incontri continentali: Africa (SECAM); Oceania (FCBCO); Asia (FABC); Medio Oriente (CPCO); America Latina (CELAM); Europa (CCEE) e Nord America (USCCB e CCCB).

Questi sette incontri internazionali hanno prodotto, a loro volta, sette Documenti Finali, che serviranno da base per il secondo Instrumentum laboris, che sarà utilizzato nell’ampio dibattito dell’Assemblea sinodale, nel corso della quale non soltanto i vescovi, ma anche il 25% di consacrati/e e di laici/laiche (in totale, come ha detto padre Giacomo Costa, illustre esperto di scienze sociali e consultore della Segreteria generale del Sinodo, circa 370 membri dell’Assemblea, esperti esclusi) voteranno le proposizioni finali da consegnare al santo padre per la sua successiva Esortazione apostolica: essa sarà indirizzata ai vescovi di tutto il mondo dai quali, come si legge nell’Instrumentum laboris per la consultazione di ottobre 2023, si attende qualche sviluppo magisteriale e teologico (Introduzione).

D’altra parte, come ha osservato lo stesso Costa, ormai sono stati identificati i punti-chiave emersi durante l’intera conversazione sinodale, in vista del passaggio all’azione, ovvero, in questa fase, con l’obiettivo di raggiungere un consenso inclusivo, da sottoporre a successivo discernimento, in cui ciascuno possa sentirsi rappresentato, senza trascurare i punti di vista marginali, né i punti su cui va emergendo un legittimo dissenso.

Il profilo teologico-istituzionale del Sinodo dei vescovi

Istituito il 15 settembre 1965, da papa Paolo VI, il Sinodo dei vescovi costituisce una delle più preziose eredità del concilio ecumenico Vaticano II e va gradualmente diventando, particolarmente dopo le quindici assemblee generali ordinarie già celebrate, una peculiare manifestazione e un’efficace attuazione della sollecitudine dell’episcopato per tutte le Chiese, seppur attraverso dei delegati e degli eletti.

Com’è noto, il Sinodo dei vescovi (a cui partecipano coloro che sono stati eletti dai loro confratelli, o nominati direttamente dal papa) può riunirsi in Assemblea generale ordinaria, come accadrà anche nella fase conclusiva del Sinodo sulla sinodalità, se vengono trattate materie che riguardano il bene della Chiesa universale; in Assemblea generale straordinaria, se le materie da trattare, che riguardano il bene della Chiesa universale, esigano un’urgente considerazione; in Assemblea speciale, se vengono trattate materie che riguardino maggiormente una o più aree geografiche determinate.

Nuovo nella sua istituzione, il Sinodo dei vescovi viene, tuttavia, considerato antichissimo nella sua ispirazione, in quanto è proposto come una forma ricorrente di efficace collaborazione dei vescovi delegati e designati dal Romano Pontefice nelle questioni di maggiore importanza, che richiedono speciale scienza e prudenza per il bene di tutta la Chiesa.

Il Sinodo dei vescovi è, perciò, da considerare un organismo rappresentativo di tutto l’episcopato cattolico, che oggi interpreta e attualizza la Scrittura, la Tradizione e il Vaticano II, offrendo altresì notevole impulso al magistero pontificio, che ordinariamente si esprime mediante un’Esortazione apostolica.

È un Sinodo dei vescovi, che si raduna in analogia con gli antichi consessi locali e generali dei vescovi dei primi secoli cristiani, nel corso dei quali i sinodi ecumenici pervenivano a comuni formulazioni della fede, mentre i sinodi provinciali o locali risolvevano questioni pratiche o disciplinari (per esempio, l’età minima richiesta per l’ammissione al presbiterato, oppure la formulazione di anatematismi contro dottrine eretiche).

Resta, dunque, un consesso di vescovi, con la caratteristica di favorire la «conversazione ecclesiale e teologica spesso dominata da voci latine/occidentali» (Instrumentum, B.1.3); un Sinodo non degli eventuali osservatori ed esperti di volta in volta convocati: Periti che cooperano alla redazione dei documenti; Uditori, che possiedono una particolare competenza sulle questioni da trattare; Delegati Fraterni, appartenenti a Chiese e Comunità ecclesiali che ancora non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica; Invitati Speciali provenienti dalle file del clero, dei religiosi/e del laicato.

In tal senso, il Sinodo dei vescovi esprime la dimensione sovradiocesana del munus episcopale, che tuttavia si esercita in modo solenne nel Concilio ecumenico, ma si esprime pure nell’azione congiunta dei vescovi sparsi su tutta la terra (azione che deve essere indetta o liberamente recepita dal Romano Pontefice).

Insomma, il nuovo Sinodo resta un organismo essenzialmente episcopale, corpo che tuttavia non vive separato dal resto dei fedeli i quali, mediante i vescovi, sono consultati, di modo che, dopo l’opportuno discernimento episcopale, siano i destinatari delle conclusioni sinodali, allo scopo di avviarne in tutte le Chiese particolari la cosiddetta recezione, incoraggiata dalle esortazioni apostoliche che il papa promulga, quasi come messa a punto magisteriale delle assise sinodali.

In questo senso, a differenza dei Sinodi diocesani convocati dai Pastori di una Chiesa particolare, ogni Sinodo dei vescovi va considerato uno strumento che cerca di dare voce all’intero Popolo di Dio per mezzo dei vescovi delegati e designati, ai quali l’Instrumentum laboris pone anche domande sui futuri metodi del discernimento ecclesiale, per esempio invitando a dibattere sinodalmente la «trasformazione degli organismi di partecipazione attualmente previsti dal diritto canonico in organi di effettivo discernimento comunitario» (B 3.3); oppure sollecitando, tra l’altro, a chiedersi come «approfondire la riflessione sul contributo delle donne alla riflessione teologica e all’accompagnamento delle comunità? Come possiamo dare spazio e riconoscimento a tale contributo nei processi formali di discernimento a ogni livello della Chiesa?» (B 2.3); o ancora: «Quali passi concreti sono necessari per andare incontro alle persone che si sentono escluse dalla Chiesa in ragione della loro affettività e sessualità (ad esempio divorziati risposati, persone in matrimonio poligamico, persone LGBTQ+, ecc.)?» (B 1.2., quesito 6).

Speranze e perplessità

In data 24 aprile 2021 fu approvato, rispetto alle determinazioni iniziali (enunciate già da papa Francesco il 17 ottobre 2015, in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo, in un discorso di ampio respiro), il nuovo itinerario per la XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (inizialmente prevista per il mese di ottobre del 2022), che sarà celebrata sul tema, ormai noto a tutti: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione».

Questo Sinodo sulla sinodalità viene articolato in una fase continentale, con un suo Instrumentum laboris, e una della Chiesa universale, con un suo secondo Instrumentum laboris.

La novitas organizzativa e il dibattito sul tema in discussione non potevano non suscitare problemi, resistenze, difficoltà, tensioni e perplessità, che non vengono celati o dissimulati, anzi: «Non mancano espressioni di rifiuto molto netto: “Non mi fido del Sinodo. Penso che sia stato convocato per introdurre ulteriori cambiamenti negli insegnamenti di Cristo e infliggere altre ferite alla sua Chiesa” (osservazione individuale dal Regno Unito)». È quanto si legge testualmente al n. 18 del Documento di lavoro per la tappa continentale del Sinodo (ottobre 2022).

D’altra parte, a seguito della Lettera pontificia alle Assemblee continentali di Africa, Asia, Medio Oriente e Oceania, oltre ai vescovi delegati, avranno diritto di voto 70 tra preti, religiosi/e e laici/laiche, provenienti dalle Chiese particolari in rappresentanza del Popolo di Dio.

Insomma, anche dei non vescovi saranno dotati del diritto di voto come sinodali, introducendo, secondo alcuni, una modifica profonda al profilo istituzionale del Sinodo dei vescovi: infatti, desumendo alcune caratteristiche dei Sinodi diocesani, esso quasi tenderebbe a manifestare, sul piano giuridico-teologico, una sorta di «autorità del popolo di Dio», che non sarebbe, secondo alcuni, riducibile all’ordinazione sacra.

Certo, quello dei delegati non-vescovi nel nuovo Sinodo sarà più un «voto di memoria» (memoria fidei) che un «voto di rappresentanza» di tutti i cattolici del mondo; ma suscita comunque una vivace discussione al fine di calibrare meglio la rappresentatività dei religiosi/e e di laici/laiche, in correlazione con la funzione episcopale e la sua potestà di ordine: cosa significherà tutto questo negli sviluppi futuri, in relazione all’autorità e al sensus fidei del popolo di Dio, nel quale, com’è ben noto, non tutti hanno la sacra potestas ordinis? Come evitare che i critici lamentino che i contenuti della fede rischiano di non avere più nessun valore costitutivo, anzi si mirerebbe a far risultare la dottrina comune della Chiesa dalla mera prassi sinodale?

La Chiesa come realtà in sviluppo storico

Ogni Sinodo, anche quello sulla sinodalità, intende comunque collegarsi idealmente all’antica e ricchissima tradizione sinodale della Chiesa, tenuta in grande onore soprattutto nelle Chiese d’Oriente.

Guarda alla Chiesa terrestre non come un’istituzione rigida che non vuole cambiare e modernizzarsi, ma come realtà in sviluppo, che, illuminata dallo Spirito, legge con sapienza i segni dei tempi e si apre sempre più alle gioie e alle speranze delle persone del nostro tempo, in attesa vigile del mondo che sta per venire (istanza escatologica che correla Chiesa terrestre e Chiesa celeste).

In tal modo, seppur a diverso livello e autorevolezza magisteriale, viene ripreso il tema conciliare dell’aggiornamento – come espresso da papa san Giovanni XXIII – il quale non intendeva proporre una sorta di maquillage della dottrina ecclesiale, o il tema dibattuto della continuità-discontinuità della dottrina – quale fu già elaborata nei concili ecumenici – o, secondo alcuni, della cesura/discontinuità rispetto al recente passato.

Tra l’opzione di adattare la dottrina perenne alle nuove sfide e quella di partire dagli attuali segni dei tempi per interpellare da capo il Vangelo, quale sarà quella suggerita al papa dal discernimento esercitato nel Sinodo sulla sinodalità?

L’espressione «segni dei tempi», desunta dai Vangeli (cf. Mt 16,14; 24,29-41; Mc 13,24-37; Lc 12,54-59; 21,20-28; 21,29-38; Gv 4.31-238) e applicata alla lettura cristiana del contesto, è relativamente recente nel linguaggio cattolico ed è utilizzata per segnalare l’insufficienza di una narrazione schiacciata sullo sviluppo della tecnoscienza, della questione ambientale e dell’economia, e magari con il rischio di un peso e una misura per i potenti, un altro peso e un’altra misura per i fedeli comuni.

Per indicare la dinamica di adattamento armonico del messaggio di salvezza al contesto contemporaneo, di cui bisogna cogliere i tratti salienti e universalmente esplicitati, anche per eventualmente rivedere o tarare l’interpretazione tradizionale del Vangelo, Y. Congar preferiva la metafora del seme-germoglio, che progressivamente si sviluppa nello spazio e nel tempo:

«I doni di Dio sono offerti inizialmente nella forma di un seme. Questo seme contiene, fin dall’inizio, la pienezza alla quale è ordinato, ma rivestendola e velandola. Ma non sviluppa questo contenuto che a tappe, progressivamente. Deve pervenire ad una piena manifestazione di ciò che conteneva fin dal principio, ma questo avviene solamente in modo progressivo e sempre imperfetto» (Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 108).

Ciò che il Signore dona alla sua Chiesa, anche attraverso le proposizioni sinodali, potrebbe avere in sé stesso, per dono di Dio, la forza di germogliare, ovviamente se accolto in atteggiamento di ascolto disponibile, magari lungo le corde di una teologia che decida di essere soprattutto sapienziale.

Il medesimo tema è stato particolarmente studiato, tra gli altri, da due grandi teologi contemporanei, uno precedente, l’altro coevo al Vaticano secondo. Si allude a John Henry Newman e a Bernard J.F. Lonergan.

L’opera di Newman, significativamente intitolata Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845), contiene le premesse, i principi e i criteri per delineare bene il rapporto tra il contenuto immutabile della Rivelazione e della dottrina cristiana e il processo di progressiva comprensione del dogma cristiano nel corso dei secoli, particolarmente nelle assise ecumeniche che avvengono cum Petro et sub Petro.

Newman elabora un principio dello sviluppo autentico della fede che, a suo avviso, permette d’individuare, nella crescita in comprensione della dottrina da parte della Chiesa di Roma, la legittima depositaria dell’insegnamento apostolico.

Già i dogmi dei primi secoli – quelli formulati nei concili ecumenici e ripresi nei sinodi territoriali del tardo-antico – sono, ad avviso del pensatore ex anglicano, i segnali chiari di uno sviluppo interno a quell’organismo vivente e vitale che è la Chiesa di Cristo.

Proprio mentre stava completando il suo Saggio, Newman, non senza sofferenza per l’abbandono della Chiesa anglicana in cui era cresciuto, decise di diventare membro della Chiesa cattolica, nella quale sarà ricevuto il 9 ottobre del 1845.

A Newman non è estraneo il termine «evoluzione»: anche all’interno della Chiesa esiste infatti, a suo avviso, uno sviluppo dogmatico. È ciò viene da lui sostenuto contro il protestantesimo, che vedeva nella «novità» dei dogmi cattolici, a partire dal Concilio di Trento, una falsificazione della verità evangelica.

Newman trova, invece, nelle ri-formulazioni dei dogmi, i segnali concreti della vitalità della verità rivelata, consegnata una volta per tutte (depositum fidei) da Cristo alla sua Chiesa, ma comunque in sviluppo nella storia (non nel senso darwiniano del termine).

L’impegno era precisamente quello di salvaguardare la scienza dal divorzio kantiano tra ragione e volontà, così come ci si esprimeva nel liberalismo razionalistico, nel quale la scienza fisica veniva utilizzata contro la Scrittura, la cui interpretazione proposta dalla Chiesa era intesa come una sfida a quella scienza positivista che aveva ormai messo tra parentesi la categoria di creazione.

A sua volta, la poderosa opera di B.J.F. Lonergan Method in theology (1971), prende coscienza dello sviluppo scientifico di ciò che è diventata la modernità nel suo complesso.

Modernità può significare secolarismo, un fenomeno che, nell’ottica del gesuita canadese, produce almeno tre distorsioni nelle strutture sociali e nella civiltà: pensare di poter fare a meno della fede in nome dell’arbitrio e della scoperta della fede personalmente verificata; visione meccanicistica dell’essere umano, a danno della dignità umana e del rispetto per la moralità umana; elevato successo della tecnica con i suoi principi di efficienza ad oltranza.

La teologia – propone Lonergan – deve tener conto degli esiti di un’avvenuta transizione storica da verità eterne a dottrine in sviluppo. Il che non soltanto apre il campo ad una teologia intesa come opera di collaborazione tra molti specialisti (interdisciplinarità), ma mette altresì in evidenza l’irriconciliabile antitesi tra conclusioni teologiche e procedure più tradizionali.

Non si può assistere inerti – ritiene il pensatore gesuita – all’enorme sviluppo dei linguaggi e della letteratura (potremmo oggi aggiungere anche la tecnologia e i social media); non si può far finta di non vedere il subentrare, rispetto alla vecchia nozione di cultura classica, di una cultura empirica, in cui nascono le scienze umane, con notevoli ripercussioni sulla stessa filosofia.

In quest’ottica, il cristianesimo stesso, in quanto fatto storicamente attestato, diviene realtà suscettibile di continue re-interpretazioni, come lo sono, peraltro, le sue stesse formulazioni dogmatiche elaborate nei sinodi ecumenici o proposte ex cathedra dai sommi Pontefici.

Il che non significa negare che quanto è stato dogmaticamente definito dalla Chiesa resti permanentemente valido, semper idem, bensì precisare che questa validità va assunta di volta in volta e determinata dal rispettivo contesto storico.

Negli stessi concili ecumenici cristiani divenne quanto mai esplicito che la realtà del mondo mediato dal significato viene conosciuta non attraverso le sole idee, o in connessione con l’esperienza, bensì mediante i giudizi veri e la fede vera (presupposto, questo, non soltanto della predicazione dei cristiani, ma anche delle deliberazioni, dei decreti e degli anatemi dei Sinodi).

Lo stile sinodale dei Padri della Chiesa

Tenendo conto della storia della Chiesa e della dottrina dei Padri, ogni raduno dei vescovi e ogni consultazione del popolo di Dio non ha il medesimo peso dottrinale e, dunque, ogni nuovo Sinodo dei vescovi, anche quello sulla sinodalità, non corre il rischio d’introdurre ulteriori cambiamenti negli insegnamenti perenni di Cristo e della Chiesa; e, tuttavia, essi vanno comunque adattati al mondo contemporaneo, soprattutto se definiti da un concilio ecumenico o fatti propri da un pronunciamento ex cathedra.

Tutto si chiarisce bene alla luce della fervida attività sinodale-conciliare (ecumenica o regionale, o locale) della Chiesa, quale si svolgeva ai tempi dei Padri della Chiesa che integrano, con la Tradizione, la Scrittura sacra la quale, in questo modo, cum legente crescit, come affermava Gregorio Magno nel II libro dei suoi Dialoghi.

Ma già Vincenzo di Lérins, spentosi verso il 450, aveva elaborato e inserito nel suo Commonitorium, quella che, dopo il sinodo ecumenico di Efeso del 431, sarà ritenuta la regola per ogni eventuale elaborazione dottrinale, che voglia porsi in continuità con la regula fidei e, insieme, rispondere alle nuove esigenze dei tempi in sviluppo: «Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est». Ovvero, con radici nella Scrittura e sviluppo nell’alveo della Tradizione perenne e universalmente condivisa, in fedeltà alla volontà di Cristo.

Pur negli approfondimenti e periodiche rielaborazioni, insomma, va ritenuto come norma di fede ciò che in ogni luogo, in ogni tempo e da parte di tutti i cristiani, viene confessato, in unione con la Chiesa di Roma, che presiede alle altre nell’agàpe.

Nella medesima linea, l’Instrumentum laboris ora si domanda e domanda «come sia possibile sviluppare un esercizio effettivo della collegialità in una Chiesa sinodale: sebbene il discernimento sia un atto che spetta soprattutto “a chi nella Chiesa ha il compito di presiedere” (LG 12)» (B 3.5).

Resta un ottimo criterio, quello suggerito dal monaco di Lérins, Gallo di origine, allora allo scopo di pacificare le posizioni che erano state elaborate nel lungo periodo della controversia ariana, nel corso della quale, tra le opposte resistenze sia orientali che occidentali, si cercava di sfumare e avvicinare le tante differenze tra vescovi e il sentire delle Chiese particolari, appunto mediante le numerose convocazioni sinodali, come quelle di Roma (340), di Antiochia (341) e di Serdica (342–343).

In questa direzione, Ilario di Poitiers, nei primi mesi del 359, in preparazione al Concilio di Rimini, scrisse per i vescovi della Gallia, ma indirizzandosi anche agli antiariani d’Oriente, il De synodis.

Nella prima parte, egli esaminava le formule di fede pubblicate dal 341 al 357, condannando risolutamente solamente l’ultima – che egli denomina la blasphemia sirmiensis, apertamente ariana – mentre considerava tutte le altre in qualche modo compatibili con la teologia dei vescovi occidentali, minimizzando così le differenze dottrinali tra orientali e occidentali, al fine di favorirne l’intesa e il comune riferimento alla chiesa di Roma.

Nato a Poitiers intorno al 315, il vescovo Ilario divenne noto su larga scala – fino a poter essere apostrofato come l’Atanasio dell’Occidente – a partire dal sinodo di Milano del 355. Nel corso di esso, l’imperatore Costanzo aveva fatto pressione affinché la minoranza filoariana costringesse gli altri Padri convenuti a condannare il vescovo di Alessandria, Atanasio.

A partire da quell’anno, Ilario, sul piano dottrinale prima che disciplinare, fisserà il criterio dottrinale della continuità aperta alle sfumature “tollerabili”, prendendo posizione contro gli esponenti più in vista dei vescovi filoariani.

Il vescovo Ilario, alla vigilia della conclusione del proprio esilio (ma non senza la possibilità di muoversi nelle terre Orientali), subito prima del ritorno nella propria sede episcopale di Poitiers, indirizzerà uno scritto all’imperatore Costanzo, che appare importante per monitorare, in un aspro momento della controversia ariana, la prassi ricorrente di formulazione-riformulazione dei Simboli della fede delle Chiese di oriente e di occidente.

Già a partire dal Concilio ecumenico di Nicea del 325 e, successivamente, durante e dopo il concilio di Rimini, si era verificata una forte spaccatura sia tra i vescovi orientali sia tra i vescovi occidentali, sia tra singoli sia tra gruppi di vescovi, con grave danno dell’unità della Chiesa da tutti perseguìta.

Non è un caso che i vescovi della Gallia sentissero la necessità di scrivere ai vescovi orientali rimasti fedeli alla formula concordata e professata al sinodo ecumenico di Nicea I, per evitare che «noi, divisi nelle due parti di Oriente e di Occidente, finiamo per ingannarci con svariate opinioni una contraria all’altra». In quella lettera si fa appunto silenzio proprio circa il termine teologico inserito nel Simbolo di Nicea I, ousìa, un termine, peraltro, «costantemente accettato come sacro e con fedeltà» da loro, insieme con l’altro termine, altrettanto controverso di homoousion, della stessa ousia del Padre, detto del Figlio.

Fa riflettere il fatto che, per diversi decenni nel periodo tardo-antico, subito dopo il Concilio di Nicea I (325), nonostante alcuni vescovi avessero cambiato posizione rispetto all’originaria professione di fede conciliare da tutti loro sottoscritta, il popolo di Dio conservò la purezza della ortodossia, tanto che sant’Ilario ebbe ad esclamare: «Sanctiores aures plebis quam corda malorum sacerdotum» [Le orecchie del popolo sono più sante dei cuori di malvagi sacerdoti] (Contra Arianos, 6).

È questa una prova che lo Spirito Santo conduce comunque il popolo santo di Dio il quale, in alcuni momenti storici, nonostante l’insegnamento di alcuni Pastori, appaia titubante nel riconoscere il flusso vitale della Tradizione, conserva ed accoglie, soprattutto nei fedeli di autentica semplicità, quella fede che manifesta la sua infallibilità nel credere.

Domande aperte

Ne ricaviamo una lezione per l’oggi sinodale che – come si è detto – non è un’assise ecumenica, ma una solenne convocazione di vescovi delegati, in ausilio del successivo discernimento del papa: nel variegato e complesso mondo cristiano tardo-antico, era invalsa la prassi di scrivere, e quindi anche d’innovare, le precedenti formule di fede, ma non per mutare la dottrina tradizionale, bensì per evitare che la formula trinitaria battesimale non risuonasse correttamente nel suo vero senso nelle coscienze di chi la professava. Le variazioni di formule e di contenuti dovevano garantire il precedente contenuto nella sua efficacia conoscitiva e nella sua effettività salvifica: possono svilupparlo, accrescerlo, interpretarlo, mai impoverirlo o deviarlo.

E il vero senso veniva attinto dalla sorgente delle sacre Scritture, annunciata e spezzata dai vescovi al popolo, in unione con Roma, lungo l’alveo dinamico di quella che sarà denominata la Tradizione, svolta sempre in linea con le sacre Scritture.

Del resto, come scrive in una predica Cesario di Arles (470–542), ogni vescovo deve far succhiare al popolo le due “mammelle” dell’Antico e del Nuovo Testamento, per assumere il giusto nutrimento e crescere in salute:

«In modo non incongruo, fratelli carissimi, i vescovi sono paragonati alle mucche: infatti, come la mucca ha due mammelle, con le quali nutre il proprio vitello, così i vescovi con le loro due mammelle, cioè l’Antico e il Nuovo Testamento, devono nutrire il popolo cristiano. Considerate tuttavia, fratelli, e osservate che le mucche di carne non soltanto vanno esse stesse verso i propri vitelli, ma pure i loro vitelli vanno loro incontro, e colpiscono spesso con il proprio capo le mammelle delle proprie madri, a tal punto che, se sono dei vitelli più grandicelli, si vedono talvolta sollevare da terra il corpo delle loro madri. E tuttavia, le mucche madri sopportano volentieri questi colpi, in quanto desiderano vedere la crescita dei propri vitelli. Pure i buoni vescovi devono fedelmente desiderare e bramare che i loro figli, per la salvezza della propria anima, li disturbino con frequenti domande, così che, mentre ai figli che bussano viene donata la grazia divina, ai vescovi, che rivelano i segreti delle sante Scritture, sia preparata una ricompensa eterna» (Sermone IV,4).

Insieme, però, nel medesimo periodo tardo-antico, si cominciava talvolta più a introdurre nelle formule di fede delle novità che a mantenere quanto si era ricevuto dalla Tradizione, anche per rendere consonante la formula dottrinale con le mutate esigenze del contesto. Da questa rilevante stagione patristica, che nei sinodi ecumenici faceva discernimento, cioè talvolta approvava le formulazioni, talaltra le condannava, comprendiamo comunque che la sinodalità era soprattutto una prassi di periodico raduno dei vescovi di una zona, o dell’intera ecumene orientale e occidentale (com’era accaduto a Nicea, sotto la presidenza dell’imperatore Costantino), finalizzata a ribadire la fede comune, ma in consonanza con i tempi nuovi.

Talvolta ci viene oggi raccomandato di ricordare che Sinodo implica una vera dimensione interiore e spirituale sinodale, cioè un’autentica attitudine al dialogo, che sottintende un comune punto di partenza, essendo tutti in cammino alla ricerca della Verità, per cui nessuno, neanche da posizioni gerarchiche particolari, avrebbe delle soluzioni pre-definite in tasca. Nella medesima linea, si pongono di nuovo le centinaia di Domande per il discernimento, proposte dall’Instrumentum laboris.

Certo, le soluzioni nessuno le possiede e sappiamo che solo un concilio ecumenico potrebbe dibatterle e formalizzarle, confrontandosi con la verità di Cristo, presente nelle Scritture e nella Tradizione.

Se il nuovo Sinodo non è la convention dei vescovi o dei preti o dei laici/laiche o degli addetti ai lavori, bensì l’espressione viva di una Chiesa-comunione (cf. Lumen gentium, 6–8), in cui si cammina insieme per aiutare nel discernimento colui che presiede nell’amore a tutte le Chiese particolari di Oriente e di Occidente, esso ha comunque nei delegati i suoi battistrada, i quali hanno davanti, almeno in spe, la meta che tutti ci proponiamo di raggiungere sub Petro et cum Petro.

Tuttavia, se si vuole avanzare insieme nella corretta lettura-decodificazione del nostro tempo e delle sue nuove sfide, cosicché l’annuncio del Vangelo non resti mai separato dalla cultura in cui è chiamato di volta in volta a incarnarsi, occorre tutti ricordare che l’avanzare non è mai a casaccio e provvisorio, bensì lungo una rotta stabile, tracciata dal nocchiero, che è lo Spirito Santo, e con punti cardinali di riferimento: quelli della regula fidei, come precisata dai concili ecumenici o ribadita ex cathedra dai pontefici.

Roma, 24 giugno 2023

✠ p. Vincenzo Bertolone SdP,
arcivescovo emerito di Catanzaro-Squillace

Print Friendly, PDF & Email

Un commento

  1. Franco Cordiale 4 luglio 2023

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto