Acqua: preziosa e scarsa

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siccità

Paolo Tarolli è docente di Idraulica Agraria all’Università di Padova. All’inizio della scorsa estate, ci aveva parlato (qui) della siccità e delle conseguenze sulla produzione agraria e sull’ambiente. Ora torna sull’argomento, anche alla luce dei dati predittivi della sua ultima ricerca di recente pubblicata sulla rivista internazionale Agricultural Systems (qui).

  • Professore, viviamo entrambi in Pianura Padana. Insieme osserviamo che qui piove pochissimo. Perché?

Sebbene non sia un meteorologo o climatologo, posso menzionare una recente ricerca dove viene descritto come il riscaldamento globale possa avere ampliato le zone di alta pressione: quindi le condizioni con scarse precipitazioni.

Lo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters. Per ulteriori approfondimenti – sui cambiamenti climatici e gli effetti di siccità – suggerisco questo blog.

Cause
  • Un clima più caldo non dovrebbe aumentare l’evaporazione dell’acqua in atmosfera? Dove va a finire tutta quest’acqua?

Dobbiamo tenere aperto, appunto, lo sguardo globale, per meglio comprendere i fenomeni locali. Ci sono zone del pianeta in cui si manifestano, come ben sappiamo, eventi alluvionali molto intensi. Nel mentre ci sono altre zone in cui piove pochissimo. Siamo di fronte alla estremizzazione dei fenomeni.

Ecco: se vogliamo dare una rappresentazione del cambiamento climatico in atto, possiamo dire che questo si manifesta nell’aumento della frequenza degli eventi estremi.

  • La causa prima, qual è?

Senz’altro la causa è individuata nell’incremento dei gas serra nell’atmosfera, da cui l’impegno massimo che l’umanità è chiamata a produrre per ridurre e azzerare l’emissione di tali gas.

  • Lei si aspettava ciò che stiamo vedendo da queste parti?

Non sono sorpreso dal cambiamento in sé, poiché gli studi pubblicati negli anni scorsi già indicavano la tendenza: così nel mio lavoro pubblicato sulla rivista Nature Food lo scorso anno (qui). Ma, francamente, io stesso sono sorpreso dall’accelerazione che sembra manifestarsi in ciò che stiamo ora osservando.

  • Nel giugno scorso, in pieno clima siccitoso, ci ha parlato del “cuneo salino” nel fiume Po: questo è ancora un indice significativo e allarmante?  

Certamente. La zona del Delta del Po – nell’insieme del Veneto e l’est dell’Emilia-Romagna – può essere considerata un vero e proprio hotspot o “punto caldo” per il cambiamento climatico. Il cuneo salino, ovvero la risalita di acqua salata dal Mare Adriatico lungo il corso del fiume Po, è un processo importante, di cui mi sto occupando in collaborazione con il Consorzio di Bonifica Delta del Po.

La portata idrica minima per garantire la sopravvivenza degli ecosistemi del fiume è individuata in 450 metri cubi al secondo. Ebbene, l’anno scorso, in estate, la portata è stata, a lungo, al di sotto di tale limite. Basti dire che nel 2006 – in occasione di una “magra” storica del Po – l’acqua salata era risalita per 33 chilometri: l’anno scorso è risalita sino a circa 40 chilometri dalla foce. In questo periodo – alla fine dell’inverno – il cuneo è risalito già di qualche chilometro.

A meno di intense piogge primaverili, si prefigura una situazione estiva persino peggiore dell’anno scorso. Ne studieremo le conseguenze.

Conseguenze
  • Quali potrebbero essere le conseguenze in agricoltura e sui consumi idrici potabili?

La conseguenza immediata è che l’acqua ad alto contenuto salino non può essere impiegata per l’irrigazione della zona altrimenti le colture subirebbero stress e conseguente calo di resa.

Abbiamo già visto colture di mais e di soia subire questo effetto l’anno scorso per effetto di infiltrazione di acqua salata. Il rischio è quello della micro-desertificazione. Le conseguenze della salinità arrivano poi anche nelle falde di profondità della zona: il che può impattare sulla disponibilità delle acque potabili.

  • Nel resto d’Italia le cose vanno meglio?

Il nord Italia è senz’altro, in questo momento, la parte maggiormente interessata dal fenomeno siccità nel nostro Paese. Paradossalmente – pensando alle situazioni del passato – la Sicilia e la Sardegna, ad esempio, stanno meglio del nord: non solo perché, nei mesi scorsi, in quelle regioni è piovuto di più, ma anche perché possiedono una rete di invasi realizzati per trattenere l’acqua piovana ad uso irriguo, oltre al fatto che le aree sono coltivate meno intensamente e le colture sono diverse e meno esigenti dal punto di vista dell’irrigazione. Il danno serio alla produzione agraria, quindi, è decisamente collocato al nord.

  • Che fare in questo nord d’Italia?

Bisogna adottare rapidamente misure di contenimento della siccità in agricoltura per resistere al cambiamento con l’attuale assetto produttivo, per evitare seri problemi economici e, conseguentemente, sociali.  In prospettiva, poi, si dovrà arrivare ad un adattamento – o ad una vera trasformazione – del sistema produttivo in agricoltura, ma si tratta di una trasformazione complessa, che necessita un ampio confronto con agricoltori e associazioni di categoria.

Siccità: i dati
  • Prima di presentare le misure di contenimento che lei propone, vuole illustrare i dati predittivi della sua più recente ricerca, ora pubblicata?

Col mio gruppo di ricerca ho analizzato la zona del Nord-Est italiano, includendo, oltre al Veneto (esclusa la parte dolomitica), una parte della Lombardia e una parte dell’Emilia-Romagna. Il preciso oggetto dello studio, pubblicato sulla rivista Agricultural Systems, sta nella predizione statistica delle classificazioni climatiche dei suoli ad uso agricolo nel tempo sotto l’effetto del cambiamento climatico.

Allo stato attuale il 96% della superficie agricola del Nord-Est è collocata in area “temperata”, con estati calde, ma con stagioni non secche. Nello scenario futuro – proiettato sulla fine del secolo – intravvediamo una riduzione delle aree agricole a clima temperato dal 96 al 71%: un 25% circa dell’attuale suolo ad uso agricolo passerà a zone con estati non solo molto calde, ma anche secche. Ciò che affiora, con allarme, è che il 15% di queste terre avrà un clima decisamente arido.

Lo studio comprende anche un’analisi per tipo di coltura. Attualmente, per quanto ho detto, tutte le colture, o quasi, si collocano su terreni classificati in clima temperato. Ma in futuro, nella peggiore delle ipotesi, il 10% delle attuali colture orticole si collocherà in clima arido, così come il 19% dei frutteti. Ma il dato che più impressiona è che il 76% delle superfici ad oggi coltivate a riso andrebbe a collocarsi in zone di tipo arido, assieme ad un altro 20% di superfici oggi adibite a seminativi irrigui.

Di fronte a questo scenario futuro, le domande vengono da sé: potremo, in queste zone, pensare di continuare a coltivare riso e altri seminativi irrigui allo stesso modo? L’agricoltura praticata sino ad ora sarà ancora sostenibile? Quando arriverà il momento in cui le risorse economiche per disporre dell’acqua per queste coltivazioni non basteranno? Le domande sono proiettate sul “domani”, ma certamente bisogna cominciare a pensare le risposte, seriamente, “oggi”.

Ci sono cose che si possono e che si debbono, a mio avviso, fare subito, altre da programmare senza perdere tempo.

A breve termine
  • Cosa fare “subito”?

Per reggere questo tipo di agricoltura – che certamente non può essere trasformata dall’oggi al domani – sto lavorando col mio gruppo di ricerca in particolare alla soluzione dei piccoli invasi per superfici interessate da agricoltura eroica.

Ciò non costituisce, di per sé, niente di nuovo: in altre parti d’Italia e del mondo ci sono invasi per trattenere le acque piovane. Anzi, pure in Veneto e in tutte le zone collinari del nord Italia – sino a due o tre generazioni fa – si mantenevano gli invasi. Gli invasi, a mio parere, costituiscono, la più “immediata” delle soluzioni.

  • Ci spieghi meglio quali caratteristiche dovrebbero avere questi invasi.

I piccoli invasi di collina (ma non solo) sono in grado di assolvere ad una doppia funzione: raccogliere l’acqua quando piove, mitigando gli effetti alluvionali e, naturalmente, rendere l’acqua disponibile per l’irrigazione, per più settimane, sino ad un mese o più di mancanza di precipitazioni, in seguito.

Uno dei benefici – quanto mai urgente da conseguire – sarebbe la riduzione o, auspicabilmente, l’azzeramento del prelievo di acque dai pozzi profondi per l’irrigazione: una pratica che, di fronte alla siccità, sta prendendo sempre più piede, purtroppo, in agricoltura. Questa è una pratica pregiudizievole dal punto ambientale e sociale, perché, se non controllata, potrebbe determinare una minore disponibilità d’acqua ad uso potabile, specie nelle grandi città di pianura. Ricordo semplicemente che l’acqua è un bene comune, forse il primo bene comune. Non può essere presa da una parte, lasciando priva un’altra.

  • Si sta andando, dunque, verso gli invasi? Vede una chiara scelta politica e amministrativa in tal senso?

La Regione in cui vivo, il Veneto, si sta orientando correttamente alla politica dei laghetti. A livello nazionale è stata recentemente attivata una cabina di regia sulla crisi idrica. L’accelerazione dell’estremizzazione del clima deve aver avuto la sua parte nella maturazione di nuovi atteggiamenti da parte della classe politica, ora più sensibile.

I dati e i documenti, ormai, sono sui tavoli della politica amministrativa, la più pragmatica. La voce di chi studia e propone soluzioni è maggiormente ascoltata. È netta la sensazione che non c’è più tempo da perdere. Ciò sicuramente avviene più per la spinta delle preoccupazioni economiche che per quelle ambientali.

C’è ancora, per noi, addetti ai lavori, molto da lavorare sulla consapevolezza, ovvero sulla criticità di un sistema economico fondato unicamente sui profitti, anziché sulle prospettive del futuro, mentre l’ambiente è – già ora – il “problema dei problemi”.

  • Questo per quanto riguarda la politica. E la società civile quanto è, secondo lei, consapevole?

Intrattengo interlocuzioni, oltre che con i politici delle Amministrazioni locali, con gli amministratori dei Consorzi di bonifica, con i rappresentanti delle Associazioni di categoria del comparto, con gli imprenditori del settore, ossia con chi avverte più direttamente i problemi della carenza d’acqua, per ovvie ragioni.

Osservo una sensibilità alta da parte di tutto il mondo rurale e dell’agricoltura. Ma qui siamo di fronte a problemi di così vasta portata da esigere la consapevolezza e la sensibilità da parte di tutta l’opinione pubblica, anche di quella lontana dal mondo agricolo, ovvero quella che vive nelle città.

  • Progetti che vanno nel senso da lei auspicato sono già in corso di finanziamento e di realizzazione?

Alcuni fondi del PNRR sono già stati impiegati in opere idrauliche finalizzate ad una migliore distribuzione delle risorse irrigue e stanziamenti del governo sono stati resi disponibili per creare barriere alla risalita delle acque saline nel Po.

A lungo termine
  • Quali altre misure potrebbero presto essere messe in atto?

Da un po’ tempo si sta naturalmente lavorando sui metodi di irrigazione. È divenuta evidente l’esigenza di una irrigazione più mirata e più curata, senza alcuno spreco, specie per certe colture. L’irrigazione goccia e goccia e la sub-irrigazione – ossia l’irrigazione sulle radici delle colture per diminuire le perdite per evaporazione – sono ormai nel patrimonio delle tecnologie diffuse nel settore, anche se non tutto questo è già arrivato ovunque. È chiaro che ci sono sempre dei costi – non indifferenti – da sostenere per l’ammodernamento e l’implementazione degli impianti d’irrigazione.

Ci sono poi manutenzioni importanti da fare, sia sui grandi invasi di montagna – ad esempio, per ripulirli dai sedimenti che diminuiscono i volumi delle acque contenute – sia sulle reti di distribuzione per ridurre le perdite che sono ancora alte, sia per quanto riguarda l’uso in agricoltura, sia, forse, soprattutto, per l’uso civile, potabile.

Teniamo poi presente che i suoli ricchi di sostanze organiche sono maggiormente in grado di trattenere l’umidità. Se vengono meno le sostanze organiche nel terreno si amplia la strada verso l’aridità e la desertificazione. Dobbiamo prestare particolare attenzione anche a questo pericolo, pertanto vanno attuate delle procedure che favoriscano l’aumento della sostanza organica nei suoli.

Si parla poi, in questi giorni, di desalinizzazione delle acque del mare e di reimpiego delle acque reflue dei depuratori comunali e aziendali. Non è il mio campo di ricerca, tuttavia quel che posso dire è che ogni misura di risparmio dei consumi di acqua e di massimizzazione dell’impiego dell’acqua va presa in seria considerazione, con la consapevolezza che nessuna, da sé, può risultare risolutiva: ognuna può presentare, insieme, aspetti positivi e negativi; tutte queste possono concorrere ad affrontare il problema.

  • E a più lungo termine, cosa si potrebbe programmare?

Come ho detto, nel breve termine si può e si deve mirare a proteggere, con interventi strutturali, l’attuale sistema produttivo e le attuali colture, ma è indubbio che – dati alla mano – a più lungo termine, bisogna saper ipotizzare un cambio, almeno parziale, delle colture.

La genetica agraria potrà dare una mano a selezionare coltivazioni più resistenti, meno esigenti d’acqua, ad esempio, di mais, ma è indubbio che si potrà resistere sino ad un certo punto, oltre il quale non sarà neppure conveniente. So bene che cambiare colture significa trasformare intere filiere e tradizioni alimentari e persino culturali. Io stesso manifesto un approccio prudente in tal senso: anch’io vorrei conservare quel che c’è da tanto tempo.

Ma le trasformazioni sono sempre avvenute nei secoli scorsi e l’adattamento è sempre avvenuto. Dobbiamo prepararci, tutti. Questo è il tempo di un attento discernimento colturale e culturale: molto difficile, ma va fatto!

Francesco e la Laudato si’
  • Professore, concludiamo questa intervista con la parte “etica”. Cosa raccomanda ai lettori?  

Da quanto abbiamo detto, risulta come i cambiamenti climatici che producono, in questo caso, siccità, stiano incidendo, su tutti i sistemi ambientali, alimentari, economici e sociali: tutto è davvero collegato. Come dovremmo, ormai tutti aver capito, persino i massicci fenomeni migratori mondiali sono correlati al clima.

Il documento mondiale che ha magistralmente messo in relazione i molteplici fattori con straordinaria lungimiranza è la Laudato si’ di papa Francesco: da uomo di scienza, laico, non mi stanco di ripeterlo. Sempre più la geopolitica e persino le guerre sono da mettere in relazione con la crisi ambientale.

Ricordo che, nella giornata mondiale dell’acqua – il 22 marzo scorso – il papa ha detto che «l’acqua non può essere motivo di sprechi, abusi, o motivo di guerre, ma va preservata a beneficio nostro e delle generazioni future».

La prima raccomandazione è, innanzi tutto, di non sprecare mai l’acqua: banalmente, la durata delle nostre docce e dei nostri consumi quotidiani d’acqua ha una grande rilevanza collettiva. L’acqua va usata quando effettivamente serve e per quanto serve. L’acqua che risparmiamo è preziosa ad altri e per altri usi collettivi, vitali.

Ciascuno di noi può pensare poi alla propria alimentazione: a quanto sia equilibrata ed “etica” nei confronti dell’acqua e dell’ambiente. Ma è chiaro che ogni comportamento individuale e familiare deve risolversi in un impegno collettivo, oggi, senza precedenti, perché l’umanità è davvero di fronte a nodi senza precedenti. Tutto il sistema economico mondiale deve evolvere in maniera più rispettosa del nostro pianeta: le condizioni dell’ambiente in cui ci è dato di vivere vengono prima delle ragioni del profitto.

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