
Foto di Giuseppe Milo.
Viviamo un tempo paradossale: mai come oggi siamo stati così connessi, eppure mai così soli. La nostra epoca è segnata da una crisi profonda delle relazioni, da un individualismo diffuso che frantuma i legami e da un crescente senso di smarrimento collettivo.
Lo scenario sociale ed educativo in cui ci muoviamo è contraddittorio: le reti digitali sembrano avvicinarci, ma spesso esasperano differenze e polarizzazioni; le città si popolano, ma la vita quotidiana si fa sempre più anonima; i luoghi di aggregazione tradizionali – dalla scuola alla parrocchia – perdono la loro forza coesiva.
Solitudini
A confermare questa diagnosi è stato anche il sociologo Zygmunt Bauman, che ha descritto la nostra società come “liquida”, incapace di strutturare relazioni durature, in cui “la solitudine è diventata l’esperienza quotidiana dell’uomo contemporaneo”[1]. Ma accanto a questa solitudine, emerge una nuova fame di relazioni autentiche. Come osserva il pedagogista Andrea Porcarelli, “la persona non può realizzarsi senza relazioni significative: la qualità dell’educazione dipende dalla qualità dei legami”[2].
In questo scenario, la fraternità non è solo un’istanza teologica o un valore morale, ma una questione antropologica e politica. La Fratelli tutti di papa Francesco ha rimesso al centro questa parola quasi dimenticata, definendola come il “sogno di una società aperta, dove ciascuno ha un posto”[3]. Ma può davvero esistere fraternità in un mondo frammentato, segnato da logiche di dominio, competizione e paura dell’altro?
Lo stesso discorso vale all’interno delle comunità ecclesiali. Anche qui la fraternità, da fondamento spirituale, rischia di essere piegata a logiche funzionali, di appartenenza e di omologazione. Il teologo Giuseppe Lorizio ha parlato in modo provocatorio di un’“ecclesiologia della selezione”, denunciando la tendenza, più o meno esplicita, a includere solo chi appare conforme a determinati modelli dottrinali, pastorali o morali[4].
In altre parole, il fratello è accolto solo se risponde ai requisiti impliciti della “normalità ecclesiale”, se non disturba l’equilibrio interno, se non costringe a ripensare visioni e pratiche consolidate.
Questo approccio, seppure spesso giustificato da esigenze di coerenza o di “fedeltà alla verità”, tradisce in realtà una paura profonda della differenza. Ma una comunità che accoglie solo il simile non è una fraternità: è un’ideologia.
L’evangelico “amare il prossimo” non è mai condizionato dalla sua somiglianza con me, ma dalla sua umanità nuda, irriducibile. Come afferma Christoph Theobald, “non si dà esperienza di Dio senza un’esperienza ecclesiale di fraternità: è questa la carne della fede” [5]. La fede, infatti, non è solo adesione intellettuale a una dottrina, ma immersione in un corpo relazionale dove ciascuno è accolto nella sua unicità, ferita compresa.
La domanda che fa da sfondo a queste riflessioni – e che diventa oggi radicale – è dunque la stessa posta da Dio a Caino: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9).
L’unicità come premessa della comunione
La fraternità non nasce dall’uniformità. Non è il risultato di un’identità omologata, né di una comunanza imposta dall’alto. La vera fraternità – quella che custodisce e genera vita – nasce solo dall’incontro tra unicità riconciliate. Perché se non si è riconciliati con la propria storia, con i propri limiti e con la propria luce, la differenza dell’altro viene vissuta come minaccia e non come occasione.
Hans Urs von Balthasar lo afferma con chiarezza disarmante: «Ogni persona è un’idea unica e irripetibile di Dio»[6].
Non una copia, non una ripetizione. Non una variante di un modello preesistente. Un’idea unica. In ciascuno di noi si riflette qualcosa del volto di Dio che nessun altro può riflettere allo stesso modo. La comunione non è dunque il risultato di una cancellazione delle differenze, ma un’armonia costruita sull’ascolto profondo delle unicità. La verità è sinfonica – scrive ancora Balthasar – perché solo voci diverse possono comporre un canto bello, vero, umano. Dove le voci si sovrappongono, si confondono o cercano di prevalere l’una sull’altra, lì non c’è sinfonia, ma rumore. E la fraternità si spegne.
È in questa prospettiva che possiamo comprendere come ogni relazione fraterna nasca non dal bisogno dell’altro, ma dal suo riconoscimento. Non c’è vera fraternità se io voglio l’altro per completarmi, o peggio ancora, per conformarlo alla mia visione del mondo. C’è fraternità solo quando io vedo l’altro per quello che è: distinto, autonomo, libero. Solo chi ha accolto la propria unicità può lasciarsi sorprendere da quella dell’altro senza sentirsi minacciato.
Quando invece l’identità personale è fragile o irrisolta, la differenza dell’altro provoca inquietudine. Quando non abbiamo ancora fatto pace con la nostra storia, ogni diversità ci sembra un giudizio implicito, una superiorità esibita, una ferita riaperta. È allora che la fraternità si ammala: si trasforma in concorrenza, in paragone sterile, in fatica da sopportare. Il fratello diventa nemico non per quello che fa, ma per quello che è. Perché ci ricorda qualcosa di noi che non siamo riusciti a integrare.
Emmanuel Levinas, rileggendo l’etica a partire dalla prossimità, ricorda che: «L’altro non è l’inferno: è la possibilità della mia verità»[7].
È nel volto dell’altro – con il suo sguardo, le sue fragilità, le sue attese – che io posso scoprire chi sono. Ma questa possibilità si apre solo se ho già compiuto un tratto di cammino verso me stesso. Altrimenti l’altro diventa specchio distorto, riflesso da combattere, differenza da ridurre.
Eppure, ogni volto porta con sé una rivelazione. Ogni fratello è un’occasione di trasfigurazione. Ma solo se smettiamo di chiedergli di rassicurarci e iniziamo a lasciarci interpellare. Fraternità non significa che siamo tutti uguali, ma che siamo tutti unici, e proprio per questo chiamati a incontrarci. La comunione non nasce dall’appiattimento, ma dal coraggio di custodire insieme il mistero che ciascuno è.
Non è forse questo lo stile della Trinità? Tre Persone, una comunione. Nessuna si perde nell’altra. Nessuna si impone. Nessuna prevale. Eppure sono intimamente intrecciate. Amate l’unicità del fratello come luogo di Dio, sembrano dirci le Scritture. Perché dove c’è riconoscimento dell’altro, lì può nascere la fraternità. E dove c’è fraternità, lì si manifesta il volto del Dio vivente.
La fraternità come esercizio di libertà
La domanda allora si fa ancora più urgente: in un tempo attraversato da polarizzazioni feroci, da identità che si definiscono per esclusione, da individualismi che si travestono da autonomia, è ancora possibile pensarsi fratelli?
La fraternità non è una condizione spontanea. Non è nemmeno un sentimento da evocare nei discorsi. È una scelta, un cammino, un lavoro di libertà. Lo ricorda Christoph Theobald in un passaggio essenziale della sua riflessione ecclesiale: «La fraternità è l’esercizio più alto della libertà umana, perché implica che io mi accolga in ciò che sono per poter accogliere l’altro in ciò che lui è»[8].
La libertà non è, dunque, un’astratta capacità di fare o scegliere, ma la disponibilità concreta ad abitare sé stessi con verità, per poter accogliere l’altro non come intrusione ma come compimento. Fraternità significa lasciarsi coinvolgere nella storia dell’altro senza annullarsi, lasciarsi toccare dal suo volto senza difendersi, accettare che il limite dell’altro parli anche al mio.
Ma questo richiede maturità, profondità interiore, discernimento. Richiede soprattutto di spezzare la logica – sottile ma potente – della competizione come unica forma di relazione possibile. La nostra cultura sembra invece strutturata per alimentare il contrario: la rivalità, il paragone, il successo a spese dell’altro. La meritocrazia esasperata, più che premiare il talento, finisce per generare solitudini e frustrazioni, perché chi non “vince” non solo perde, ma viene disconosciuto nella sua dignità.
Non si tratta semplicemente di accogliere l’altro, ma di lasciarsi abitare da lui. Non è sufficiente tollerare la presenza dell’altro senza reagire; occorre lasciarlo entrare nella nostra vita, riconoscendo che non siamo interi da soli. La fraternità, allora, non è solo una virtù relazionale, ma una forma alta di spiritualità, che fa della libertà un atto di responsabilità e non un privilegio personale.
Eppure, anche nelle comunità ecclesiali, questo cammino si mostra fragile. Si parla molto di fraternità, ma spesso la si riduce a una parola edificante, a una formula spirituale da inserire nei documenti. In realtà, nei meccanismi reali delle relazioni ecclesiali – nella gestione dei ruoli, nel riconoscimento dei carismi, nei percorsi di discernimento – emerge una fatica profonda ad accogliere l’altro nella sua reale diversità. Come se solo chi rientra nei codici condivisi, solo chi è “riconoscibile” e “controllabile”, potesse essere davvero fratello.
Ma la fraternità evangelica nasce dalla disponibilità a lasciarsi convertire dal volto dell’altro, anche quando ci destabilizza. Come ha ricordato papa Francesco: «O ci salviamo tutti insieme nella fraternità, o non ci salviamo affatto»[9].
La fraternità è dunque profezia, non tattica. È visione del Regno, non strategia ecclesiastica. È libertà che si apre all’altro non per calcolo, ma per fede. Perché solo insieme possiamo sperare. E solo riconoscendoci fratelli possiamo credere ancora che l’altro non è un ostacolo al mio compimento, ma condizione della mia pienezza.
Fraternità o primato?
La storia di Caino e Abele non è un episodio del passato, ma un archetipo che attraversa ogni epoca. Una pagina antica, capace però di rivelare le logiche più profonde del nostro presente. In quella domanda che Dio rivolge a Caino – «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9) – non c’è solo il dolore per un’assenza, ma la denuncia silenziosa di una scelta: Caino non ha voluto essere fratello. Ha preferito essere il primo[10].
La Scrittura non ci offre motivazioni psicologiche dettagliate, né ci consegna un profilo complesso dei due fratelli. Dice solo che l’offerta di Abele fu gradita a Dio, e quella di Caino no (Gen 4,4-5). E questo basta perché il fratello diventi minaccia, il volto si abbassi, l’ira prenda il sopravvento. Ma il problema, in fondo, non è Abele. Il problema è lo sguardo ferito che Caino ha su di sé. È lì la radice del dramma: nell’incapacità di riconoscersi amato nella propria unicità[11].
Dio lo sa. E per questo non interviene con un castigo, ma con una domanda: «Perché sei irritato? E perché è abbattuto il tuo volto?» (Gen 4,6). È una domanda che apre uno spazio. Uno spazio per riconoscere la propria fragilità, per nominare la propria delusione, per fare verità sul proprio desiderio di essere visto, riconosciuto, amato. Ma Caino non coglie questo spazio. Non dà voce alla sua ferita. E nella mancata elaborazione del dolore nasce la violenza. Quando il bisogno d’amore non viene nominato, si trasforma in potere. Quando non si riesce a custodire la propria mancanza, si cerca di colmare distruggendo l’altro.
Fraternità o primato: è la scelta radicale che ci viene chiesta ogni giorno. Chi vuole essere fratello sa che la luce dell’altro non spegne la propria, anzi la rivela meglio. Perché nella reciprocità non si perde identità, ma la si completa. Chi invece desidera essere il primo – e soltanto il primo – finirà inevitabilmente col trasformare ogni fratello in un potenziale rivale, ogni relazione in un conflitto latente, ogni dono altrui in un fastidio da rimuovere.
Eppure, la pagina di Genesi non si chiude con la morte. Si chiude con una voce che continua a interrogare. Dio non si arrende. Anche davanti al sangue versato, anche dinanzi alla fuga, Egli resta fedele alla sua domanda: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9).
È come se Dio stesse dicendo: “Dov’è il tuo cuore? Dove hai smarrito la tua verità più profonda? Quando hai dimenticato che eri figlio, prima ancora che fratello?”.
Questa domanda risuona come un invito più che come un rimprovero. Un richiamo a tornare a sé, a ritrovare la voce originaria della propria umanità. Finché c’è questa voce che ci chiama, la fraternità non è perduta. Può essere ancora scelta. Può diventare orizzonte. Può ritornare ad essere promessa.
Non si tratta solo di sapere dove si trova nostro fratello, ma di desiderare di esserci accanto. Di volerlo raggiungere. Di sentire che la sua vita riguarda la nostra. Non come padroni, non come salvatori, ma come compagni di cammino. Custodi, non controllori. Fratelli, non giudici.
Fraternità non è assenza di conflitti, ma capacità di attraversarli senza rinunciare all’altro. È la decisione quotidiana di non lasciarsi definire dall’istinto di dominio, ma dalla possibilità della cura. È la libertà di scegliere l’altro come parte di me, senza paura di perdermi.
È ancora possibile essere fratelli, se rinunciamo al delirio del primato e torniamo ad abitare la verità semplice – e radicale – di essere unici, ma non soli.
E forse, proprio lì, nella fatica del vivere insieme, nel disagio della differenza, nel confronto con il limite, la domanda di Dio cambia forma: non è più un’accusa, ma un appello.
“Dov’è tuo fratello?” È lì dove tu hai il coraggio di incontrarlo. È lì dove tu scegli, ogni giorno, di non avere paura della sua luce. Né della tua.
Praticare fraternità
Non basta dire “fratello”. Occorre scegliere di esserlo.
La fraternità non nasce da un’ideologia, né da un istinto. Non è un sentimento spontaneo, né un’espressione generica di buon cuore. È piuttosto una decisione consapevole di riconoscere nell’altro una parte costitutiva di sé, al di là di ogni convenienza, affinità o utilità. È un atto di fiducia nel legame, una scommessa sulla possibilità che l’altro non sia un limite, ma una possibilità.
La domanda di Dio a Caino – “Dov’è tuo fratello?” – continua a risuonare nel cuore della storia. Non come condanna, ma come possibilità. Non come peso, ma come invito. È una domanda rivolta a ciascuno di noi, ogni volta che ci scopriamo indifferenti, arrabbiati, chiusi nel bisogno di emergere. Ogni volta che la logica del confronto prende il posto della logica del dono. Ogni volta che la differenza diventa distanza, che l’altro ci appare come una minaccia e non come un mistero da accogliere.
Fraternità e primato non possono coesistere. O scegliamo di essere fratelli, o continueremo a costruire sistemi, comunità, relazioni segnate dalla paura, dalla competizione, dall’ossessione di dover contare, emergere, comandare. Il cuore della fede non sta nella supremazia, ma nella cura. Non nell’ordine, ma nella prossimità. Non nel controllo, ma nella fiducia.
In questa luce, la fraternità non è solo una categoria relazionale, ma una dimensione teologica ed ecclesiale. È nella fraternità che si misura la verità di una comunità credente. Una Chiesa che non è capace di riconoscere il volto dell’altro come “sacramento dell’incontro con Dio” rischia di ridursi a struttura organizzativa, a contenitore ideologico, a corpo senz’anima.
La sfida allora non è semplicemente “essere gentili”, ma riconoscere che nessuno può salvarsi da solo. Siamo legati. Non per debolezza, ma per vocazione. La nostra è un’identità “in relazione”, aperta all’altro, fatta per la comunione. È tempo, dunque, di riapprendere l’arte del legame. Di attraversare la fatica del conflitto senza rinunciare al cammino insieme. Di scegliere, ogni giorno, l’altro come presenza significativa, come domanda che mi interpella, come volto che rivela qualcosa anche di me.
Forse è proprio questa la via per non rassegnarsi alla frammentazione del nostro tempo: riabilitare la fraternità come pratica concreta, come stile di vita, come scelta politica e pastorale, come spiritualità incarnata. Uscire dalla logica delle “appartenenze blindate” e abitare lo spazio dell’incontro, dove nessuno si salva da solo, dove l’altro non è ostacolo ma compagno, dove la luce che lo attraversa non è minaccia ma rivelazione.
La fraternità non è un’utopia. È una scelta radicale, un esercizio quotidiano, una sfida al cuore del Vangelo. È l’orizzonte possibile per chi non vuole smettere di credere nell’umano, per chi rifiuta la retorica dell’“io prima di tutto”, per chi desidera costruire comunità in cui si respira la libertà dell’essere accolti nella propria verità.
Dov’è tuo fratello? È la voce che ci accompagna, che ci inquieta, che ci salva. È la domanda che ci ricorda che prima di essere padri, leader, ministri, cittadini o credenti, siamo figli. E dunque fratelli. E che l’unica eredità che vale davvero, è quella che nasce quando nessuno viene lasciato indietro.
[1] Z. Bauman, Solitudine nel tempo della rete, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 11.
[2] A. Porcarelli, Educare alla cittadinanza e al bene comune, LAS, Roma 2020, p. 45.
[3] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 127.
[4] G. Lorizio, La crisi della fraternità nelle comunità ecclesiali, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, 2020/1, pp. 9-22.
[5] Ch. Theobald, Il concilio del futuro. Nuovi cammini di cattolicità, EDB, Bologna 2009, p. 115.
[6] H. U. von Balthasar, La verità è sinfonica, Queriniana, Brescia 1972, p. 18.
[7] E. Levinas, Totalité et Infini, Martinus Nijhoff, La Haye 1961, tr. it. Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 2001, p. 73.
[8] Ch. Theobald, Il concilio del futuro. Nuovi cammini di cattolicità, EDB, Bologna 2009, p. 136.
[9] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 137.
[10] Sul carattere archetipico del racconto di Caino e Abele, si veda P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento, Borla, Roma 1992, pp. 55-67.
[11] L’incapacità di Caino di sentirsi amato è il nodo simbolico dell’intero testo. Cfr. A. Wenin, Caino e Abele. Genesi 4,1-16. Fraternità e responsabilità, EDB, Bologna 2005.






Personalmente colgo interessanti spunti di riflessione sia dall’articolo che dall’intervento di Silvano. Chiederei a quest’ultimo di segnalare qualche testo per poter approfondire le sue non banali e stimolanti considerazioni. Cordiali saluti.
Caro Mario, come può facilmente intuire lo spazio di un commento è poco idoneo a fornire bibliografie. Se vuole può scrivermi silvanodebortoli@gmail.com indicandomi quali degli argomenti da me accennati vorrebbe approfondire e io le invierò volentieri qualche indicazione bibliografica. Intanto, a beneficio di tutti, segnalo le ricerche rigorose di Relationship Australia le quali provano, ad esempio, che spesso è la solitudine ad agire la connessione telematica, soprattutto nella direzione dei social network, non il contrario, cosicché non è possibile inferire una relazione univoca di causa-effetto tra i due fenomeni https://www.relationships.org.au/relationship-indicators/ Più in generale segnalo volentieri questa struttura australiana aconfessionale https://www.relationships.org.au/ che agisce in tutta l’Oceania con servizi diretti e ricerche sociali a sostegno della qualità delle relazioni tra persone, gruppi e istituzioni. Un esempio da meditare, e forse imitare, sia nella chiesa sia nella società italiana. Cordiali saluti. Silvano
Le considerazioni che l’articolo propone meritano alcune puntualizzazioni sulle divulgazioni sociologiche. Non è ovviamente questa la sede per scrivere del difficile rapporto delle scienze sociali, in particolare la sociologia, con la cultura italiana, in particolare quella religiosa e cattolica. Visto con sospetto fin dall’origine, l’impatto della sociologia nella cultura italiana diffusa, soprattutto di quella sociologia che con rigore metodologico faceva e fa ricerca sociale sul campo, quantitativa e non solo qualitativa, è stato spesso deviato sia in ambito accademico, dove spesso si è preferito lavorare tenendo al margine la ricerca quantitativa sul campo, sia in ambito cattolico, dove la preferenza è per le opinioni sociali grossolanamente ermeneutiche (tanto più che persino alcuni sociologi si esercitano a fare gli opinionisti) piuttosto che per la ricerca sociale e gli esiti che questa può o potrebbe esprimere. Ne sono esempio alcune frasi, ormai divenute opinioni diffuse, con le quali ad es. inizia l’articolo : “connessi e soli … individualismo diffuso … smarrimento collettivo …”. Al presente, salvo qualche ricerca di psicologia sociale riferita a condotte devianti o malate, non risulta che alcuna ricerca sociale abbia dimostrato un nesso causale generalizzabile tra connessione telematica e solitudine relazionale. Anzi esistono prove contrarie, ossia che molte solitudini relazionali o esistenziali sono temperate proprio grazie alle connessioni telematiche, che tra l’altro svolgono molte altre funzioni utili. Lo stesso si potrebbe dire dell’individualismo diffuso: quanto lo sia nessuno sa. E ancor più dello smarrimento collettivo: fenomeni quali l’omologazione generalizzata delle attitudini cognitive e del capitale culturale di massa mostrano adesioni e coesioni costanti o ripetute che vanno nella direzione dell’identificazione e non dello smarrimento. I malintesi cognitivi, rafforzati dalla diffusione di stereotipi indimostrati, anziché avvicinare la chiesa alla società producono l’effetto contrario, perché si costituiscono come barriere mentali che danno l’illusione di aver compreso quello che invece non è stato capito, con gravi conseguenze anche sul piano pratico, quando da assunti non verificati si derivano decisioni gravide di implicazioni. Non ci si deve meravigliare poi se la chiesa, incapace di capire e confrontarsi, rinuncia ad affacciarsi alla realtà e alla società, preferendo evolvere verso condotte settarie, quali sono quelle descritte nell’articolo.