
Giovanni Stanghellini, psichiatra, psicoterapeuta, professore a Firenze di Psicologia dinamica, è fra i principali studiosi di Psicopatologia antropofenomenologica e, per me, un maestro e un amico. Di prossima uscita è il volume Disincanto e passione. Per un’etica civile nei “tempi bui” (Jaca Book), che verrà presentato il prossimo 2 ottobre a Padova, presso il Centro Universitario Padovano (Sala Grande, ore 18:30), con Leonardo Meneghetti.
- Professor Giovanni, un po’ tutti viviamo sospesi fra disincanto e passione. Con una mossa tipicamente fenomenologica e, più in generale, filosofica, cogli i due “poli” della questione – disincanto e passione, appunto – e li poni in risonanza, sottolineandone la tensione etica. Per me la passione è quasi una necessità: non saprei vivere senza, dalla passione politica a quella erotica. Molti, e da decenni, paiono piuttosto assorbiti dal disincanto. Di esso, tuttavia, sottolinei un’accezione che trovo illuminante: il disincanto come la capacità di riconoscere il negativo che è nella realtà. Mentre intendi la passione come simpatia per l’umano. Soffermiamoci per un istante sui due termini-poli del campo di tensione.
Il mio libro analizza il rapporto tra due forze apparentemente opposte: la lucidità del disincanto e la forza vitale della passione. Spesso pensiamo che la passione sia legata a utopie, speranze irrealistiche o misticismo; io sostengo che la vera passione è un “moto dell’anima diretto verso la realtà”. Non è una fuga, ma un modo per entrare in contatto profondo con il mondo. Le passioni ci rendono più vivi, più “reali”, e ci rivelano i nostri veri valori.
Allo stesso modo, il disincanto non è apatia o cinismo. Non è un distacco passivo, ma un’intelligenza del negativo, la capacità di vedere la realtà così com’è, senza illusioni. È una forza critica, un’analisi spassionata che ci protegge da ingenuità e manipolazioni.
La sfida sta nel far coesistere queste due forze. Il disincanto ci dà la lucidità per riconoscere i limiti e le difficoltà della realtà, mentre la passione ci fornisce l’energia per agire e trasformarla. In questo senso, il libro si rifà a concetti come quello di “pessimismo organizzato” di Walter Benjamin, un invito a non cedere né all’ottimismo superficiale né alla disperazione. È un equilibrio che si può riassumere con le parole di Antonio Gramsci: “l’ottimismo della volontà” deve essere sempre bilanciato con il “pessimismo dell’intelligenza”.
L’integrazione di disincanto e passione ci permette di agire nel mondo in modo consapevole e onesto. È la chiave per un’esistenza autentica, dove la conoscenza di sé si unisce all’impegno per una realtà migliore, senza mascherature o false promesse.
- È interessante notare come, specie fra chi, come noi, si occupa di Psichiatria, la passione finisca talora per rinviare a qualcosa di esagerato, abnorme, sproporzionato, che rischia di far smarrire la bussola. Nel libro, invece, intendi la passione come un moto dell’animo diretto verso la realtà, che ci lega a noi stessi e agli altri. Insomma, una condizione irrinunciabile per conservare il contatto col mondo.
Comincerei spiegando cosa non è la passione. La passione non è utopia, poiché colui che si esalta (o si crogiola) nell’utopia baratta la realtà con il suo sogno, correndo il rischio di rinchiudersi in un mondo privato, incantato. L’utopia implica un rischio molto serio: violentare la realtà e imporre con brutalità il proprio sogno agli altri, come nelle distopie politiche totalitarie.
La passione non è neanche speranza, poiché nella speranza talora oltrepassiamo la realtà, molliamo la presa che potremmo avere sulla realtà stessa e dunque abdichiamo alla concreta possibilità di trasformarla in qualcosa di migliore. La speranza può essere persino violenta – “la vita è lenta, la speranza è violenta” scrive Apollinaire – perché colui che spera aspira ad annullare le differenze tra il proprio desiderio e la realtà, in particolare tra il proprio desiderio (come io vorrei che fosse l’Altro) e il desiderio dell’Altro (come l’Altro vorrebbe essere), invece che raccogliere responsabilmente la sfida del limite che quest’ultimo impone e delle conseguenze del proprio agire su di esso.
La passione, infine, non è la passio mistica poiché quest’ultima, nel suo afflato di ultracoscienza e di unione con l’ultra-realtà del divino che è in ogni essere e in ogni cosa, perde il contatto con la realtà di tutti i giorni, l’unica che possiamo condividere con i nostri simili.
La passione, inoltre, non è l’eros dell’impossibile (a cui dedico un intero capitolo) poiché in quest’ultimo il movimento verso l’Altro è subordinato all’impulso verso il caos, alla dissoluzione dell’individualità personale, all’uscita dal proprio Io per penetrare (con tutta la violenza che ciò comporta) nell’Altro, all’uso dell’Altro come mezzo per raggiungere l’estasi sessuale e l’oblio di sé tramite l’orgia, all’intreccio esiziale con la volontà di potenza e la pulsione di morte. Nell’eros dell’impossibile l’eros non è diretto all’Altro come a un fine, come il compimento della propria umanità. Il proselito dell’eros dell’impossibile, questo rivoluzionario da boudoir, utilizza un sesso de-erotizzato per scardinare i muri maestri che limitano l’espansione infinita della propria coscienza – la palingenesi della propria coscienza.
Che cos’è dunque (in positivo) la passione? La passione è motus animi diretto verso la realtà. Le passioni ci smuovono e commuovono: un evento mondano può farci trasalire, sobbalzare, toccarci. Tanto più c’è passione, tanto più c’è contatto con la realtà poiché le passioni, muovendoci e commuovendoci nel contatto con la realtà, ci rendono più consapevoli della nostra esistenza e ci fanno sentire più reali. Le passioni, tutte le passioni, aumentano il nostro senso di realtà, poiché tutte le passioni che colpiscono l’anima aumentano la quantità di realtà che si trasmette all’anima stessa. Infine, le passioni sono indici di ciò che conta per noi, dei nostri valori, e quindi via regia per la conoscenza e la cura di sé.
- Mi trovo spesso a evocare le due “passioni d’incertezza” di Spinoza: la paura e la speranza. Il sottotitolo del libro – Per un’etica civile nei “tempi bui” – ci ricorda come il nostro tempo sia caratterizzato soprattutto dalla paura. Per contro, ti appelli alla speranza, quasi si trattasse anche di una riflessione laica sulla Bolla di indizione del Giubileo 2025 “Spes non confundit”.
Come scrivo nelle prime pagine di questo libro, La Storia conosce periodi in cui lo spazio pubblico si oscura, nell’ombra proiettata dalla paura; e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare attenzione ai loro bisogni vitali, ai loro interessi individuali e alla loro libertà privata. Per ridurre tutto a una formula, i tempi resi bui dalla paura sono quelli contrassegnati dall’individualismo estremo, dalla svalutazione dei rapporti sociali intesi come reciprocità e mutualità, dalla loro riduzione a finalità meramente utilitaristiche.
Il mondo in cui viviamo è un sistema crudele che, in nome della flessibilità, esige che gli individui accettino l’insicurezza e la precarietà come stile di vita. Ma, d’altra parte, lo spirito dei nostri tempi incita a fare tutto il possibile, e anche l’impossibile, per acquisire successo e ricchezza. E, infine, punisce coloro che non si conformano all’etica imprenditoriale che promuove, e ancor di più coloro che falliscono nel loro tentativo di essere imprenditori di se stessi – il che equivale a stigmatizzare la povertà come una colpa e una vergogna. Sembra un nodo inestricabile, un circolo vizioso in cui speranza e disperazione si alimentano vicendevolmente.
La maggior parte dei giovani si trova in una modalità di sopravvivenza pre-apocalittica (come tutti noi in qualche misura). Chi invece si ostina ancora a sognare di realizzare un proprio progetto, e ancor di più un progetto sociale comunitario, è vittima di un “ottimismo crudele” che ostacola, invece che contribuire a sviluppare e realizzare la propria felicità.
- Individuerei, per il nostro discorso, alcune coppie, ad esempio quella fra speranza e utopia. Si tratta, in tal caso, non di poli opposti in tensione, bensì di aspetti complementari e prossimi. Il libro evoca anche la povertà, nelle sue differenti articolazioni, la poesia, l’amore. Ecco, a proposito dell’eros, ci può illuminare il mito, reso celebre da Platone, di Eros come figlio di Poros (ricchezza, abbondanza e, insieme, ingegno) e Penia (povertà, mancanza e, dunque, anche desiderio).
Il destino di Eros è sospeso tra due precipizi: l’eros dell’impossibile, e l’agonia di Eros. Il primo è una vita pulsionale che si slancia verso l’Altro completamente priva di freni, non per amarlo, ma per usarlo come sostanza inebriante, come porta di accesso all’ultracoscienza – e precipita nel caos. La seconda è una vita che senza Eros fa della relazione con l’Altro un calcolo razionale, un rapporto di potere, una prestazione finalizzata al godimento.
In merito all’eros dell’impossibile, Eros ha un rapporto complesso – e non semplicemente antitetico – con il suo alter ego: Thanatos, cioè la morte. Chi ama, conosce bene quel peculiare indebolimento, quel venir meno, accompagnato da un simmetrico sentimento di potenza. Da questo vertice, che identifica nel sesso uno strumento di alterazione della coscienza individuale, si intravede l’intreccio con la volontà di potenza: il sesso come mezzo per accedere a uno stato di comunione tra individui, in contrasto alla natura umana e alle sue più consolidate convenzioni. Tratto dall’opera di uno tra i principali esponenti del simbolismo russo, il poeta, drammaturgo e filosofo Vjaceslav Ivanov (1866-1949), la formula “eros dell’impossibile” descrive una temperie culturale tempestosa nel corso della quale “il pensiero si rivolse ai problemi di confine dell’esistenza, saltando i vari aspetti concreti della vita. La vita e la morte divennero le forme fondamentali, quasi esclusive, dell’esistenza umana, e la ricerca su di esse divenne il mezzo principale per comprendere questa stessa esistenza; e diventando tali, la vita e la morte si fusero in una certa unità sovrannaturale”. Nel libro, faccio riferimento alla figura psicopatologica che chiamo “homo dissipans” per descrivere questa forma di esistenza esaltata.
La formula “agonia di eros” rimanda a un saggio di Byung Chul Han dedicato alla visione del mondo di quelle persone che la clinica chiama “narcisiste”. Nel mio libro descrivo l’esistenza di colui che chiamo “homo oeconomicus”, forse il prototipo della cultura del narcisismo. Eros sta scomparendo in una società ossessionata dalla prestazione. L’individuo, concentrato su se stesso, non riesce più a cogliere l’alterità dell’Altro. La sessualità diventa un atto di consumo, privo di quel rischio e di quella passione che definiscono Eros. L’Altro viene ridotto a un oggetto da consumare, perdendo la sua unicità. Questo culto dell’Uguale soffoca Eros, che è invece una forza dirompente e rivoluzionaria. L’eros autentico richiede un’uscita dal proprio ego e un’apertura verso il diverso. La sua agonia è il segno di un mondo senza trascendenza e incapace di un vero rapporto con l’Altro.
Vorrei concludere che il mio scritto si azzarda a formulare una proposta: una forma di pensiero che tolleri l’ambiguità, non in quanto doppiezza e falsità o irresolutezza, ma in quanto consapevolezza del duplice carattere della realtà. Che liberi le contraddizioni invece che liberarci da esse occultandole. Che tenga insieme gli opposti invece che separarli. Che ci eserciti a stare di fronte ai conflitti invece che ignorarli, o pensare di risolverli con il filo della logica – cioè dell’ottimismo dialettico che porta a una sintesi – o della spada (che poi non sono così diverse): con la retorica della razionalità o con quella della guerra.
Abbiamo bisogno di una dialettica erotica che riconosca e abbracci i contrari, invece che illudere e illudersi di risolverli. Non tutto il reale è razionale, o riconducibile alla razionalità. Bisogna immaginare un pensiero capace di riflettere e di farsi carico dell’ambiguità della realtà e delle sue contraddizioni. Un pensiero capace di essere illuminato – parafrasando Benjamin – dalle scintille che si sprigionano dall’urto tra le contraddizioni inerenti alla realtà e tra i diversi modi di vederla.
Abbiamo bisogno di un pensiero dalle cui fiamme emani non luce, ma tenebra visibile. Un pensiero – parafrasando Fernando Pessoa – che sia un’idea che è divenuta azione, conservando la forza della passione e assumendo il peso della materia.
Abbiamo bisogno di un eros del possibile…





