
A inizio febbraio è stato pubblicato da Mimesis il libro di Nelson Mauro Maldonato, psichiatra e professore ordinario di Psicopatologia Clinica all’Università di Napoli Federico II, La vita fuori dalleforme. Psicopatologia e storia profonda. Rivolgiamo all’autore alcune domande.
- Prof. Maldonato, comunemente, nella nostra lingua, per “perplessità” intendiamo un atteggiamento dubbioso, incerto. In psicopatologia, invece, come nel corrispettivo vocabolo tedesco, per perplessità si intende qualcosa di forte, di paralizzante.
Si tratta di un’esperienza di smarrimento, di indecidibilità su ogni aspetto della vita, di perdita del senso comune, che ipoteca drasticamente il giudizio critico del paziente.
Può durare a lungo prima che si giunga all’attenzione dello psichiatra. È una fucina di sintomi prima del buco nero della schizofrenia.
Purtroppo la si rubrica ancora pigramente a breve preambolo della schizofrenia, senza accorgersi della perdita di aspetti decisivi delle dinamiche interiori del paziente e dell’inevitabile inaccuratezza del trattamento. Ecco, questo libro nasce dall’esigenza di ridiscuterne l’importanza clinica.
- La perplessità è caratterizzata da un “non più” e un “non ancora”. Il “non più” del senso comune, dell’evidenza naturale delle cose, che sono smarriti, e il “non ancora” del delirio e della psicosi. Del resto, uno dei tuoi maestri, Bruno Callieri, nell’opera Quando vince l’ombra. Problemi di psicopatologia clinica, corredata di un tuo bellissimo saggio introduttivo, approfondisce molto il tema dello stato d’animo pre-delirante, quando un’ombra sinistra si allunga sulle cose e tutto suona enigmatico e misterioso, avvolto in un’atmosfera sospesa, surreale e cupa. Il libro, in fondo, parla anche di questo.
È proprio così. C’è qualcosa, in questo passaggio dalla luce all’ombra, dal corporeo all’incorporeo, che somiglia a un silenzioso ripiegamento interiore della vita.
Come se, nel tentativo di liberarsi dalle forme, la nuda vita si ritrovasse perduta, in un paesaggio brumoso di presentimenti oscuri, di segni e simboli minacciosi. Questo graduale e costante assottigliarsi del confine tra l’Io e il mondo provoca un senso di irrealtà e di oscillazione nel vuoto.
- Tali stati d’animo, come provi a dire, aiutano a comprendere anche l’atmosfera sospesa, di angosciosa incertezza che pervade i nostri tempi, al di là della condizione psicopatologica. Per certi versi, è come se fossimo un po’ tutti privi di forme, messi a nudo. E la “forma” non è solo un involucro, un contenitore; è anche, secondo l’etimologia del termine greco antico eidos, l’essenza delle cose. Siamo, dunque, quasi privi di “contenitori” e tendiamo a smarrire l’essenza.
In un’epoca di slanci prometeici della tecnica, con il tentativo di passare dalla cognizione biologica alla biologia dell’inorganico, il corpo è divenuto un luogo sempre più difficile da pensare.
Al di là delle profezie e delle utopie messianiche sul superamento del genere umano, credo occorra ripensare il corpo dai suoi interstizi, dalla sua porosità, dalle sue metamorfosi: per cogliere insomma le psicogeografie dell’esistere storico nella sua permanente trasformazione. Per quanto si continui ad almanaccare sulla sua obsolescenza, il corpo non è affatto antiquato.
Resta un affascinante e inviolato mistero. Nella ‘forma’ del corpo sono inscritti i cambiamenti culturali e sociali che ridisegnano continuamente significati, rappresentazioni, relazioni di potere, nelle declinazioni del controllo, della disciplina, della resistenza, della libertà.
- Soprattutto le opere ormai classiche di Ernesto de Martino pongono in risonanza le apocalissi psicopatologiche con le apocalissi culturali, vale a dire i vissuti di “fine del mondo” dei pazienti, in particolare all’esordio della psicosi, con quelli esperiti diffusamente in occasione della fine di una civiltà, di una fase storica. Cosa provi a dire al riguardo?
Lo sfinimento febbrile delle ‘leggi’ della storia – con la drammatica débâcle delle visioni metafisico-idealistiche della storia, la secolarizzazione delle teologie e, da ultimo, l’egemonia della tecnoscienza – ha aperto linee di frattura profonde nel senso comune. Con la locuzione “crisi della presenza”, de Martino colse lucidamente, sebbene in parte, gli esiti di questi sconvolgimenti.
La non riconoscibilità di un fine ultimo nei fenomeni storici – con l’atteggiamento nichilistico di quanti sostengono che nulla abbia senso o, all’opposto, che tutto abbia senso – ha impoverito l’analisi dei fatti e generato un sentimento di vertigine.
Anche da qui si comprende come il tema delle apocalissi sia diventato straordinariamente attuale: un fiume carsico, con le sue narrative filosofiche, artistiche e antropologiche, che attraversa la nostra civiltà, ma che le scienze della psiche non riescono ancora a vedere.





