L’illusione reale

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Il rapporto fra percezione e realtà costituisce un tema cruciale del nostro tempo. Soprattutto perché evoca – e delinea – quell’entità informe – eppure così importante – che passa sotto il nome di opinione pub­blica. O meglio: Opinione Pubblica, con le iniziali ma­iuscole. Come usava fare Walter Lippmann, che nel 1922 scrisse un testo, fondamentale, sull’argomento. Con questo stesso titolo. L’Opinione Pubblica, per usa­re una tautologia, è quel che la maggioranza delle per­sone ritiene sia l’Opinione Pubblica. Cioè, il pensiero dominante intorno a questioni di «pubblico» interesse. Che, come ha chiarito lo stesso Lippmann (e altri, dopo di lui), tende ad avvicinarsi a quello delineato e propo­sto dai media. Per questo l’attenzione intorno agli stru­menti di rilevazione delle opinioni è cresciuto tanto. E per questo, a maggior ragione, è cresciuto lo spazio dedicato dai media alle misure, alle misurazioni e ai mi­suratori. Delle opinioni. Cioè: dell’Opinione Pubblica. Perché le stime rilevate dai sondaggi e presentate da coloro che li realizzano, sui media e soprattutto in tv, diventano «vere», reali. Non Opinioni, ma Realtà. Uno specchio nel quale si riflettono gli spettatori. Pardon: i cittadini. Pardon: gli spettatori. I quali, d’altronde, evocano quel modello di governo rappresentativo che Bernard Manin ha definito «Democrazia del Pubblico». Dove i partiti sono rimpiazzati dalle persone, mentre la comunicazione (e la televisione, in primo luogo) prende il posto delle organizzazioni politiche e sociali. Dove le ideologie e le identità vengono surrogate e, progressiva­mente, sostituite, da immagini e «parole» elaborate da esperti di marketing. Politico – e non solo. I sondaggi, allora, diventano essenziali: a misurare l’impatto sulle opinioni dei cittadini di slogan e iniziative. A delineare e, talora, imporre l’Opinione Pubblica.

L’indagine

Per questo i sondaggi e coloro che li realizzano sono importanti. Per questo sono importanti i media e i me­diatori che li comunicano. Perché contribuiscono, in misura crescente, a costruire la realtà sociale. E per questo ho trovato importante, oltre che interessante, questo libro e le ricerche da cui è ispirato. Condotte in 14 Paesi del mondo nel 2014 e in 33 nel 201 5. D’altron­de, autore del saggio e uno dei responsabili è Nando Pagnoncelli. Specialista di Opinione Pubblica fra i più noti e stimati (non solo) in Italia. Da me, per primo. (E io, di regola, fatico a fidarmi di chi opera nel – mio – set­tore…). I sondaggi presentati in questo volume offrono una «misura» della distanza fra la realtà e la rappresen­tazione sociale. Che spesso è davvero ampia. Talora, enorme. Anche se molte persone, spesso, non se ne ac­corgono. Perché non dissociano e non distinguono fra percezione e realtà. Per loro la percezione è la realtà.

Anche quando è distorta in modo sensibile, a dir poco. Gli esempi proposti dal saggio di Nando Pagnoncelli, Dare i numeri, e dalle in­dagini su cui si basa sono numerosi. Talora sorprenden­ti. Ma, comunque, coerenti nel mostrare la tendenza a dilatare l’ampiezza dei fenomeni – e dei problemi – che suscitano maggiore preoccupazione.

I problemi

Per primo: il lavoro. O meglio: la mancanza di lavoro. Da anni, secondo l’Osservatorio sulla sicurezza (realizzato da Demos, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis), la prima causa di inquietudine in Italia (ma anche in altri Paesi europei), d’altronde, è la disoccu­pazione. Non per caso, la popolazione intervistata nel sondaggio condotto in Italia in questa occasione ritie­ne che i disoccupati rappresentino il 49%. Ebbene, nel 2014 l’Istat registra un tasso di disoccupazione pari al 12%. La dimensione del fenomeno percepita dai citta­dini, supera, dunque, di oltre quattro volte il dato reale.

Peraltro, i Neet – coloro che non studiano e non la­vorano – tra i giovani di età compresa tra 18 e 24 anni, secondo l’Istat, sono il 35%. Ma gli italiani ne stimano l’estensione oltre il 50%. C’è, dunque, la tendenza a «drammatizzare», sul piano della percezione, i proble­mi che ci preoccupano maggiormente.

Una distorsione simile, non per caso, emerge di fron­te a un altro problema che coinvolge la popolazione italiana. Il declino demografico. L’invecchiamento del Paese. Un processo effettivamente in corso che, tuttavia, non giustifica la convinzione che l’Italia sia una nazione (quasi) di soli vecchi. Gli italiani, però, lo pensano dav­vero. Al punto da ritenere che gli ultrasessantacinquen­ni siano il 48%. Cioè un italiano su 2. Mentre, in effetti, le persone di età superiore a 65 anni superano di poco il 21%. Dunque, una su 5. Parallelamente, l’età media, nel nostro Paese, è intorno a 45 anni, ma gli italiani pensa­no che sia di 59.

Vecchi a ogni costo, dunque. Così ci piace pensarci. Anche se le strategie pubbliche sembrano ignorarlo: le risorse investite dai governi per i giovani e la famiglia continuano a essere limitate. Assolutamente inadeguate.

Infine, gli stranieri. Da anni costituiscono uno dei primi motivi di preoccupazione e di polemica politi­ca. Tanto che alcune forze politiche evocano e agitano, per questo, la minaccia dell’invasione. In effetti, secondo l’Istat, nel 2014 rappresentavano poco più del 7% dei re­sidenti. Ma gli italiani erano convinti che fossero il 30%.

Nel 2015 l’Istat ha registrato, al proposito, una cre­scita, per quanto limitata. E il peso della popolazione straniera si è attestato poco al di sotto del 9%. Ma secon­do gli italiani la presenza è, comunque, tre volte superio­re, anche se meno elevata dell’anno precedente (26%).

Gli immigrati

La tendenza a enfatizzare il fenomeno si acuisce in riferimento ai «musulmani». Divenuti una fonte di rischio. Il «marchio» delle migrazioni più recenti, che giungono dall’Africa e dal Medio Oriente. Le fonti sta­tistiche più accreditate presentano, al proposito, dati diversi. Secondo l’Istat sono poco più di un milione (circa 2% della popolazione italiana), mentre il rappor­to annuale della Caritas sui migranti stima questa com­ponente poco meno del 4%. Ma le ricerche presentate da Pagnoncelli dicono che, secondo gli italiani, il 20% della popolazione residente nel nostro Paese sarebbe di religione musulmana. Cioè, 5-10 volte di più rispet­to alla realtà. (E la realtà percepita è quella che conta. Cioè: la realtà reale).

Il timore suscitato dagli immigrati permette di ri­salire all’origine delle distorsioni che marcano le no­stre percezioni sociali. Il loro andamento, infatti, non è casuale, ma cresce sensibilmente in alcuni periodi particolari. Uno fra tutti: fra il 2006 e il 2009. Inci­dentalmente, anni di elezioni. La «paura», infatti, è un argomento «politicamente» sensibile. In quella fase la presenza degli immigrati, sui media e nella propa­ganda politica, era martellante. E l’emozione appare strettamente proporzionale all’esposizione mediatica. La distorsione, d’altra parte, risulta particolarmente evidente presso alcune componenti sociali specifiche. Risulta, infatti, più ampia fra le persone più anziane, con titolo di studio più basso, fra le casalinghe e i pen­sionati. La «paura dell’altro», che collega immigrazio­ne e criminalità, appare più acuta fra gli «spettatori abituali». Fra coloro, cioè, che seguono la tivù per oltre 4 ore al giorno. E guardano, con particolare passione, i programmi del pomeriggio. Che «vivono di morte». Meglio: di omicidi, tragedie familiari e altri eventi drammatici.

La «passione criminale», ma, soprattutto, la pau­ra dell’altro favoriscono soggetti politici ben definiti. I partiti populisti e di destra. In Italia, peraltro, questi soggetti hanno una parentela stretta con i media e la tv. Berlusconi, per primo, a metà degli anni Novanta, ha fondato un partito «personale», utilizzando le reti, di sua proprietà, come ambiente e come mezzo di au­topromozione. E di riproduzione dei sentimenti più adeguati a sostenere le sue ragioni. Meglio: le sue «emo­zioni». A svantaggio degli altri. I comunisti. Grazie alla tv, attraverso i media, ha ricostruito un nuovo muro. Il muro di Arcore. Per rimpiazzare il muro di Berlino. Per dividere di nuovo il (nostro) mondo in due. Pro o con­tro di lui. Berlusconiani contro comunisti. E viceversa. Il suo principale alleato, la Lega di Bossi, ha agito al suo fianco da «imprenditore politico della paura». Agitando i ri-sentimenti e l’inquietudine. Verso gli «altri» che ven­gono da lontano. Verso il «mondo» che rischia di preci­pitarci addosso.

I populismi

Da allora la corrente dei populismi non si è più ar­restata. E, anzi, è cresciuta anche altrove. Da noi ha in­tercettato e amplificato un altro argomento. La sfiducia politica. Nella versione dell’anti-politica. Interpretata, fra gli altri, dal Movimento 5 stelle. Fondato da un comico proveniente (anch’egli) dalla tv. Ma ha «sfruttato» un nuovo medium: la rete. Internet. Che, a sua volta, alimenta sfiducia. Perché spinge a «denunciare», oltre – e, spesso, più – che a dialogare. La sfiducia, d’altronde, può essere una virtù democratica, quando promuove la «controdemocrazia», come la chiama Rosanvallon. Se, cioè, favorisce la «sorveglianza» e il «controllo» del po­tere e dei leader. Se, ancora, induce i cittadini a mobili­tarsi, per tutelare i loro diritti, per promuovere le loro domande – antiche e nuove. Ma diventa rischiosa, per la democrazia, se diventa sfiducia negli altri, quando produce il distacco dalle istituzioni. Quando, inoltre, diventa una risorsa politica essa stessa. L’antipolitica come argomento politico. Agitato da partiti che cattu­rano consensi presentandosi come anti-partiti. E attin­gono da un «clima d’opinione» complice. Che spinge a ridimensionare e, perfino, contraddire e negare il no­stro senso civico, il nostro stesso spirito di partecipa­zione.

Nel 2013, alle ultime elezioni politiche, la partecipa­zione alle urne, sebbene in calo, è stata comunque ele­vata. Pari al 74,6%. Quasi 3 elettori su 4. Ma il clima antipolitico spinge gli italiani a pensare che siano stati solo il 54%, poco più di un elettore su 2. Così succede che ci guardiamo allo specchio e ci vediamo ancor più «brutti e cattivi» di quel che siamo.

D’altra parte, il populismo, al di là dell’indefinitezza del termine, circoscrive la ricerca e la costruzione di un «popolo». Si accende e si propaga, non per caso, quan­do la democrazia rappresentativa fatica a funzionare. È una risposta allo spaesamento civile. Al disorienta­mento del demos, come comunità di cittadini. Allora (e, dunque, anche ora), il populismo si afferma perché il popolo si sente escluso dal governo. E, quindi, privo di riconoscimento. Il populismo irrompe in queste fasi di spaesamento. È la risposta al vuoto di riferimenti so­ciali e culturali attraverso la «costruzione» del popolo, di «un» popolo. Avviene mediante la ricerca di «nemici». Gli «altri» da cui distinguersi e distanziarsi. I politici. Quelli che ci governano. Oggi, in particolare gli stranie­ri e l’Europa. Il populismo, per realizzarsi, ha bisogno di un Capo che offra riconoscimento e identità. E di un linguaggio.

È ciò che avviene oggi. In Europa e in Italia. La dilatazione delle percezioni e delle immagini, rispetto alla realtà, ne è un sintomo, ma anche una condizione. E un amplificatore. Che rende l’Italia più esposta, soprattutto rispetto agli altri Paesi europei. Come mostrano queste ricerche. Che, per questo, vanno prese sul serio. Non per caso, sul piano dell’ignoranza cognitiva, cioè per distacco fra percezione e realtà, l’Italia si mantiene nella parte alta della graduatoria.

Politica e media

Tuttavia, sarebbe sbagliato ricondurre la distanza e l’ignoranza nel rapporto fra percezione e realtà solo alla strategia e all’azione dei soggetti politici. Alla com­mistione fra politica e media.

In realtà, i media e la tv in particolare non hanno bi­sogno di suggeritori per agitare i mostri che suscitano emozioni forti. Perché le emozioni forti, e in particola­re le paure, fanno ascolti alti. Piacciono agli spettatori. Pardon: ai cittadini. E viceversa. Basti pensare alle reti tematiche, che si affidano solo alla paura. Ai «serial cri­minali». E ai delitti irrisolti, ma anche risolti, che, in Ita­lia, durano e si ripetono per anni. Diventano, anch’essi, serial di successo, nei nostri talk. Nei nostri programmi di inchiesta.

Qui, peraltro, c’è una specificità «nazionale». Perché la frequenza di notizie ansiogene, nella tv italiana, è su­periore rispetto a ogni altro Paese europeo (lo ha rile­vato l’Osservatorio di Pavia nel IX Rapporto Europeo sulla Sicurezza, 2016).

Allo stesso modo, l’uso dei sondaggi, come osserva Nando Pagnoncelli, riflette una logica molto simile. Il «sondaggio pubblico per il pubblico» cerca di «allarga­re il pubblico». Di alzare gli ascolti. Così privilegia le «scoperte» inattese (ma cercate con cura.) Meglio se traumatiche, ansiogene. In grado, comunque, di fare «notizia».

L’Opinione Pubblica, dunque, viene (dis)educata a stupirsi. Mentre i media e i mediatori, da parte loro, cercano di stupire. Di assecondare le paure. Se è utile, quando è utile (all’audience), di generarle. Di costruirle. Dietro a questo meccanismo, però, non c’è solo malafede. Non ci sono solo strategie e progetti di segno politico e culturale. C’è anche pigrizia. Politica e cultu­rale. Si tratta, infatti, di una questione etica, ma anche anest-etica. Una questione di indifferenza. Di pigrizia. Politica e culturale.

Il populismo, dunque, incontra tanto successo anche perché si rinuncia, da tempo, a opporgli altri argomen­ti. Altri obiettivi. Perché si accetta il marketing della paura e dell’antipolitica come non vi fossero alternati­ve. Come se il ri-sentimento fosse l’unico sentimento in grado di avere mercato – politico e non solo. Come se le «buone ragioni» dell’altro, della socialità, dell’altruismo fossero fuori moda. Prive di appeal. Incapaci di fare ascolti. Di avere un pubblico ampio.

Eppure 6 italiani su 10 (Rapporto 2015 su «Gli Ita­liani e lo Stato», Demos) dichiarano di aver partecipato ad attività di impegno sociale, negli ultimi mesi. Il 50% di aver contribuito a iniziative solidali e «altruiste». E di aver provato «soddisfazione». Perché impegnarsi con gli altri e per gli altri è, probabilmente, più gratificante che restare da soli. Ignorando gli altri, ma anche se stessi.

Tuttavia, questi argomenti non sembrano molto «po­polari». E vengono spesso trascurati. Per scelta ma, ri­petiamo, anche per pigrizia culturale.

Così, invece di spiegare agli italiani che la disoccupa­zione è un problema, ma di entità molto minore a quel che si pensa. E che i giovani senza lavoro sono tanti, ma molti meno di quel che dicono molti «opinionisti». Inve­ce di chiarire i veri numeri dell’immigrazione – peraltro in calo, nel nostro Paese. Si preferisce la strada più co­moda: assecondare. Le paure, i risentimenti, la sfiducia. Dare ragione – e rassegnarsi – alle percezioni sociali. Anche se sono distanti dalla realtà sociale. Così, però, il populismo smette di essere una «famiglia di soggetti politici», ben definita. Diventa un clima culturale. Inde­finito. Che alita nei nostri pregiudizi, sospinto dal ven­to dei media e della politica. E diventa realtà. Opinione Pubblica. Per convenienza e per viltà.

Difficile non sentirsi complici.

Questo saggio ce lo spiega in modo eloquente ed esplicito. E io spero che venga letto, ma soprattutto usato. E spero, ancora, che Nando Pagnoncelli divenga leader e portabandiera delle «percezioni miti». Prossi­me ai cittadini piuttosto che agli spettatori. Alla realtà piuttosto che all’(auto)inganno.

Io prometto di seguirlo. E di iscrivermi al suo partito.

Nando Pagnoncelli, Dare i numeri

Nando Pagnoncelli,
Dare i numeri.

Il testo è tratto dal saggio conclusivo del volume di Nando Pagnoncelli, Dare i numeri. Le percezioni sbagliate sulla realtà sociale. Con un saggio di Ilvo Diamanti, Collana «Lampi», EDB, Bologna 2016, pp. 104, € 10,00. 9788810567258

Descrizione dell’opera

La discussione pubblica italiana rischia di partire da una somma di percezioni clamorosamente sbagliate. Una distanza rispetto alla realtà che può fare comodo alla politica per cavalcare gli allarmi sociali ai fini del consenso. E ai media per aumentare l’audience.

Un’indagine condotta in 33 Paesi su un campione di oltre 25 mila individui consente di misurare le percezioni dei cittadini su aspetti sociali, demografici ed economici. Dal numero degli immigrati a quello dei giovani adulti che ancora vivono con i genitori. Dall’occupazione all’obesità. Dalla presenza delle donne in politica agli accessi a internet. Dalla ricchezza all’andamento demografico. Dal sentimento religioso alla vita in campagna.

Le discrepanze tra percezione e realtà consentono di creare un «indice di ignoranza» che classifica i Paesi dal meno al più informato.

Sommario

I. La percezione e la realtà. II. I rischi delle percezioni. Indagine Ipsos in 14 Paesi 2014. III. I rischi delle percezioni. Indagine Ipsos in 33 Paesi 2015. IV. Lillusione reale (I. Diamanti).

Note sull’autore

Nando Pagnoncelli, ricercatore e presidente di Ipsos Italia, cura la rubrica «Scenari» del Corriere della Sera e collabora con la trasmissione televisiva Dimartedì, condotta da Giovanni Floris su La7. Tra le sue pubblicazioni: Opinioni in percentuale. I sondaggi tra politica e informazione (Laterza 2001); Lelettore difficile. Cosa influenza il voto degli italiani? (con Andrea Vannucci, Il Mulino 2006); Le opinioni degli italiani. Non sono unopinione (intervista di Mauro Broggi, La Scuola 2011); Come siamo cambiati. Gli italiani e la Chiesa negli ultimi 50 anni (Gabrielli 2015) ; Le mutazioni del Signor Rossi. Gli italiani tra mito e realtà (EDB 2015).

Ilvo Diamanti insegna Governo e comunicazione politica all’Università di Urbino, dove dirige LaPolis (Laboratorio di studi politici e sociali). È professore di Régimes Politiques Comparés all’Università Paris II Panthéon-Assas, direttore scientifico di Demos &; Pi ed editorialista del quotidiano La Repubblica. Per EDB ha curato l’indagine Gli italiani e la Bibbia (2014).

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