
Il 20 maggio 325 iniziava il Concilio di Nicea. Per questa occasione, Heiner Wilmer, vescovo dehoniano di Hildesheim, ha rielaborato per SettimanaNews il suo testo pubblicato sul numero speciale di Herder Korrespondenz dedicato a questo evento della Grande Chiesa (qui).
Nel suo intervento La democrazia ha bisogno della religione, Hartmut Rosa vede nella «stasi vorticosa»[1] che caratterizza le nostre società occidentali la ragione del rapporto aggressivo verso il mondo, l’ambiente, gli altri, che domina le nostre relazioni e interazioni sociali.
«L’altro, che ha sempre un’opinione diversa, che ama e crede diversamente, (…) è per me solo un impedimento. Bisogna che stia zitto. (…) Chi pensa politicamente in maniera diversa non viene più visto come un partner di dialogo, ma come un nemico nauseante che deve essere ridotto al silenzio».[2]
Questa atmosfera pervasiva di aggressività e di annullamento di ogni alterità mina la condizione fondamentale della democrazia: che non è solo quella della legittimità della parola che altri dicono, ma più radicalmente quella in cui le voci altrui possano essere rese udibili e vengano ascoltate dal corpo della cittadinanza.[3]
La voce rimossa dell’altro
Questa tendenza all’annullamento della voce che dice e pensa altre cose da quelle che sono le mie convinzioni ha un’ulteriore grave conseguenza per l’ordinamento democratico: quella di rendere superflua ogni argomentazione del discorso, ogni sua giustificazione che lo renda plausibile anche a chi pensa diversamente. In questo modo, è il pensiero e il giudizio critico che si intristiscono e, insieme a essi, viene meno quella forza dello spirito umano che ha reso possibile l’avventura moderna della democrazia.
Tutto questo può sembrare molto lontano dal Concilio di Nicea, ma forse le cose non stanno proprio così. Forse quel Concilio ha da dire qualcosa di importante al nostro tempo – e possiamo apprendere da esso più di quanto possiamo immaginarci. Perché Nicea è il frutto di decenni di un pensiero della fede che argomenta le sue ragioni, il suo sforzo di onorare al meglio il mistero di Dio.
E gli esiti del Concilio non sarebbero stati possibili senza la sfida di quella che sarebbe stata poi dichiarata un’eresia della fede. Senza la forza teologica degli argomenti di Ario o degli adozionisti non sarebbe stato possibile elaborare un’ortodossia della fede che ha attraversato i secoli e le vicende umane – continuando a impegnare fino a oggi la migliore intelligenza del Vangelo.
Come diceva un grande maestro della teologia italiana, Giovanni Moioli, la Chiesa produce il meglio della sua normatività quando trova davanti a sé un’alterità di pensiero che argomenta al livello più alto dello spirito umano le ragioni di una possibile alternativa, di un modo diverso di nominare l’insondabile bellezza del Dio di Gesù.
Questo è il grande lascito di Nicea per la condizione misera del pensiero nel nostro tempo: non avere mai paura di chi la pensa in maniera diversa, non temere la forza del suo argomento, perché tutto questo ti è indispensabile per affinare le tue ragioni, per esprimerle in maniera persuasiva, affinché sia possibile gettare un briciolo di luce su una verità che nessun enunciato potrà mai pretendere di esaurire in sé stesso.
La sfida della voce
E anche nella definizione dell’ortodossia della fede, quel pensiero alternativo e la sua argomentazione non scompaiono, non vengono mai ridotti al nulla, messi a tacere per sempre. Continuano a far udire la loro voce proprio nella norma che si oppone ad essi, perché quest’ultima si è nutrita del confronto con loro. Un paradosso istruttivo per questo nostro tempo, dove si pensa che dall’altro, da chi ama e crede diversamente, da chi ha un’opinione politica opposta alla nostra, non si possa apprendere nulla e debba solo tacere – per sempre.
Quando si accetta la sfida che viene da una posizione diversa, quando ci si stimola a vicenda a mettere in campo la migliore argomentazione possibile, allora si attivano processi culturali che attraversano i millenni e danno forma alla storia umana. Nicea ha finito col rappresentare un pungolo incessante per l’intelligenza della fede cristiana.
L’unico o la Trinità?
Definire la divinità di Gesù, il logos filiale incarnato di Dio, chiede ancora oggi di pensare questo Dio in un modo che impegna la qualità più alta della ragione. Per rimanere fedele al Vangelo, Nicea è disponibile a mettere in crisi il tratto più sicuro del pensiero di un Dio solitario – senza relazioni e senza affetti.
Non l’unico alla Stirner,[4] ma quel Dio Trinità che la storia di Gesù adombra – lasciando alla fede che verrà il compito di sondarne il mistero.[5] Il Dio della generazione, finalmente liberato dall’onnipotenza dispotica della sua eterna solitudine, dove le relazioni non sono un accidente irrilevante ma danno forma al suo essere.
Generare vuol dire far essere ciò che avrebbe potuto non essere, senza il quale però nulla è. Così il Dio di Gesù vuole essere fin dal principio. È nel grembo di questo mistero che il logos fatto carne ha appreso l’incompatibilità di ogni dispotismo con il grembo che lo ha generato. Ed è qui che il cristianesimo impara, ogni volta di nuovo, la differenza fra il Dio del Vangelo e il Dio faraone di una signoria assoluta e implacabile. La distanza della fede cristiana da ogni assolutismo, politico o culturale che sia, trova nel pensiero della generazione la sua ragion d’essere, ma vi trova anche quella misura critica a cui deve rimanere fedele.
La tentazione dell’unico, dell’uomo forte al comando, ammicca sempre al monoteismo mai assopito del Dio solitario. Nicea è l’antidoto cristiano contro questa tentazione. La sconvolgente notizia che Dio non è mai stato solo, che il suo essere è un gioco di volontà che si trovano l’una nell’altra, che si fa carne nei margini del mondo di un paesino irrilevante della Giudea.
Dio ai margini
Nicea ci costringe a cercare Dio nell’irrilevanza: non nella potenza, ma nei margini; non nei centri di potere, ma nelle estremità della dedizione e della cura. L’imperativo a voler bene ai dimenticati dell’umanità, agli emarginati, ai vulnerabili che i nostri deliri di onnipotenza vorrebbero cancellare dalla faccia della coesistenza civile, non è una deriva politica della fede cristiana, ma la più radicale fedeltà a quella generazione del logos filiale che Nicea continua a mettere davanti alla fede cristiana come un’esigenza irrinunciabile. Un Dio che abita i margini del mondo, portato a spasso da un ebreo marginale.[6]
Entrare nei margini del mondo, sentirli come il luogo in cui si deve essere (anche per la Chiesa), non è l’ideologia di un papa proveniente dall’America Latina, ma il lascito secolare di un Concilio che continua a fare storia.
«Il noi che abita lo spazio marginale, che non è un luogo di dominio ma un posto di resistenza. Entrate in questo spazio. Spesso il discorso sugli “altri” annichila, cancella. Non c’è bisogno di udire la tua voce, quando io posso parlare di te meglio di quanto tu possa fare. Non c’è bisogno di udire la tua voce. Dimmi solo qual è la tua sofferenza. Voglio sapere la tua storia. E poi te la racconterò in un modo nuovo. Te la racconterò in modo tale che essa sarà diventata la mia storia, mia proprietà. Riscrivendo quello che sei, io mi scrivo in modo nuovo. Io sono ancora l’autore, l’autorità. Io sono ancora il colonizzatore».[7]
È l’omousion (stessa sostanza) di Nicea, quindi, che colloca il Dio cristiano nei margini, ne fa un suo abitante – così che egli non sia mai un colonizzatore dell’umano: né del suo pensiero, né del suo vivere.
Redenzione della finitudine
Della sofferenza dei corpi marginali il Dio di Gesù non se ne fa fare un racconto in terza persona, ma la vive come sua nella carne del logos filiale – la abita e la sente sua per sempre nel corpo del Risorto.
Per questo la redenzione promessa dal Vangelo non sarà mai una liberazione dalla carne e dalla sua finitudine, ma una liberazione della carne e la lieta destinazione della nostra umana finitudine: «Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso, / da li occhi miei alquanto circunspetta, / dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige: / per che ’l mio viso in lei tutto era messo».[8]
Questo comporta anche una liberazione dall’ossessione di un’antropologia della perfezione, sia essa ecclesiastica o tecnologica. L’umano segnato dai limiti, dalle imperfezioni, è la passione di Dio verso cui investe i suoi affetti più intimi – per destinarlo a una vita che non si consuma e a un godimento che non è mai sfruttamento dell’altro, ma gioia per il suo esserci diverso dal nostro.
Nicea ci spinge oggi a una revisione radicale della nostra cultura attraversata dall’ingiunzione alla perfezione, all’inammissibilità dell’errore, per trovare una via per riconciliarsi con quella vulnerabilità che tutti noi siamo – nessuno escluso. Vulnerabile non è l’aggettivo che circoscrive uno speciale gruppo di persone, ma la condizione profonda della nostra esistenza comunemente umana.
Contro l’antropologia della perfezione
In realtà, siamo tutti vulnerabili «perché nessuno ha sovranità sulla vita; in essa, infatti, ci troviamo non a seguito di una decisione nostra, ma ci troviamo già posti nella vita al di là di ogni nostra decisione».[9]
La sottrazione di questa sovranità, di un’origine che non è in nostro potere e di una lieta destinazione che ci sorprende come un dono sperato, è la liberazione e il riscatto di cui la nostra epoca ha profondamente bisogno. Solo una riappropriazione della vulnerabilità come fondamentale della comune conditio humana può sottrarre non solo le nostre relazioni umane, ma anche le nostre comunità politiche, dal quel dispotismo violento che le contraddistingue in maniera sempre più drammatica.
Perché pensare che alcuni siano titolari di una sovranità (sulla vita), e altri no, significa spalancare le porte a un totalitarismo implacabile – come ci ricorda Foucault: «Chiunque, purché abile, può diventare per l’altro un monarca terribile e senza legge: homo homini rex; un intero ordito politico viene a intrecciarsi con la trama del quotidiano».[10]
Quando Nicea vincola l’essere di Dio alla sua costituzione trinitaria, facendolo abitare i margini del mondo e dell’umano, immergendolo nella vulnerabilità che noi siamo senza perdere nulla di sé stesso, apre uno spazio politico di ospitalità e stima la cui realizzazione rimane un compito per ogni generazione che viene al mondo.
Certo, ogni sistema istituzionale e politico passa; ma gli stimoli che ci vengono da questa assise ecclesiale così lontana nel tempo ci invitano a pensare bene un eventuale congedo dalla democrazia per cercare rifugio nella forza e nella potenza che sfruttano le nostre paure. Forse oggi Nicea ha ancora qualcosa da dirci, a tutti noi essere comunemente umani.
[1] H. Rosa, Demokratie braucht Religion, Kösel 2022.
[2] Ivi, 42-43.
[3] Cf. ivi, 53.
[4] Cf. M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi 1979.
[5] Cf. P. Sequeri, Il grembo di Dio, Cittadella 2023.
[6] Cf. J.P. Meier, A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus, Vol. I-V, Yale University Press 1991-2016.
[7] B. Hook, Choosing the Margin as a Space of Radical Openness, in Framework – The Journal of Cinema and Media 36 (1989) 15-23, qui 22.
[8] Dante, Divina Commedia – Paradiso, Canto XXXIII, vv. 127-132.
[9] L. Mortari-I. Paoletti, La cura, Il Melangolo 2021, 12.
[10] M. Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino 2009, 46.






1.700 anni dopo il grande esempio di Nicea siamo approdati alla sinodalita’, tuttavia il metodo imposto da Roma mostra tutti i suoi difetti, perché permette ancora di marginalizzare il pensiero altrui. La presenza di vescovi e di superiori ecclesiastici superficiali e dalle maniere sbrigative fa il resto. Siamo ben lontani dal generare di divina testimonianza.
Se Dio fosse invisibile allora tutto quello che si vede che cos’è? Perché se fosse invisibile sarebbe dotato di una caratteristica specifica come le altre che gli vengono attribuite e che poi lo rendono parziale perché carente delle altre opposte. Con più umana ragione invece , Dio è Tutto in tutte le cose, sia visibili che invisibili. Dio è anche il caffè con i biscotti nella colazione di stamattina perché al loro interno c’è il sostentamento per la vita. I Longobardi si introdussero in Italia con la credenza ariana, poi con “Il tempo” si convertirono, (mescolandosi indistintamente con il popolo italiano in tre generazioni come osservò Macchiavelli) producendo con i loro discendenti nei secoli i nomi dei massimi esponenti mondiali della teologia italiana dalla Scolastica al Panteismo alla Teologia della Natura etc. Maggiore attuale interesse dovrebbe oggigiorno, almeno per me, rivestire il Concilio di Trento, perché, con uno stesso tempo, molte cause (sia concrete che fittizie) che dilapsarono verso lo scisma agostiniano dei tedeschi sono determinatamente affievolite. Sia la UE politica, ma anche sopravvenuti eventi scientifici come le teorie evoluzionistiche, che accettate, propendono irrefutabili a sostegno del concetto del Libero Arbitrio, poiché il miglioramento si deve volere e scegliere con la propria capacità di giudizio, per progredire, e ben al contrario delle opposte tesi del Servo Arbitrio che propina un uomo statico ed immobile senza buona volontà in un mondo che non ha direzioni.