Religiosità popolare

di:

devotio

Non v’è dubbio che la religione popolare non può non attribuirsi a un’idea di popolo che trovi riscontro nella realtà sociale che ci circonda e di cui siamo parte, dal momento che, se osserviamo i popoli dell’ecumene, da un lato questi si colgono nei caratteri di omogeneità che la globalizzazione tende a incrementare, dall’altro, si evidenzia la loro persistenza nelle tradizioni – sia dal punto di vista sociologico, antropologico che religioso (talora con più o meno evidenti sbocchi politici) – in resistenza alle erosioni prodotte dal moderno, se non da queste resi ancor più tenaci, al punto da trovare nella violenza uno sbocco inevitabile.

Il conflitto perpetuo tra mondo arabo-islamico e Israele – come Stato e come popolo – che si manifesta di questi tempi, con efferatezze inaudite, ne costituisce, a mio parere, un esempio inquietante, nella misura in cui appare del tutto privo di una via d’uscita.

Se intendiamo riferire al contesto italiano-europeo il concetto di popolo, occorre tener presente che la modernità, nel suo transito al post-moderno, sta pure rendendo sempre più complessa una tematizzazione di tale concetto, in quanto essa è direttamente proporzionale ai processi di differenziazione in corso nella società contemporanea, in particolare a partire dalla svolta del terzo millennio, con eventuali differenze di velocità, ma tutte staccandosi da un’immagine antica e che tuttora permane in zone residuali, la quale fa ancora coincidere il popolo tout court con i ceti subalterni attivi nel mondo agricolo o della fabbrica.

Dunque, anche il concetto di popolare ha seguito il medesimo percorso di cui possiamo identificarne – sulle tracce comparate di alcuni dizionari – le piste linguistico-sociologiche che qui propongo.

  1. Popolo come insieme di tutti i cittadini senza distinzione di classe sociale, con riferimento al “referendum” quale espressione della volontà popolare: per estensione, partito popolare; democrazia e, al limite, repubblica popolare. anche se regime totalitario.
  2. Popolo con riferimento agli strati socialmente ed economicamente più deboli: popolare in quanto abitato o frequentato dagli strati prima indicati, a modo di case popolari, spettacoli popolari, credenze popolari, balli popolari, prezzi popolari (modici), tradizioni popolari (usanze, credenze, costumi basati sulla tradizione orale).
  3. Popolare in quanto largamente noto – se personaggio soprattutto diffuso dalla TV – ovvero uno sport che rende popolari i suoi protagonisti (cf. il caso recente del tennista Sinner); oppure un personaggio politico – oggetto di popolarità in senso positivo o negativo – oppure, ancora, una figura recente come l’influencer che, utilizzando i social, crea un popolo di followers.

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Tali definizioni di popolo/popolare hanno subìto negli ultimi decenni una curvatura politico-ideologica che prende il nome di populismo, un termine che accomuna tutti gli strati sociali, azzerandone le differenze, per farne una massa di manovra da parte di una leadership che aspira o che già ha raggiunto il potere.

Ora, tutte queste modalità di lettura dei termini “popolo” e “popolare” celano più o meno implicitamente una situazione di subalternità anche in una società in cui la differenziazione interna ha raggiunto livelli che la allontanano notevolmente dalla contrapposizione marxiana tra borghesia e masse contadine/operaie.

Non esiste, in sostanza, un popolo/popolare fuori dal campo di forze del potere e dunque non c’è una cultura popolare in sé, ma occorre cercarne le relazioni, assai mobili, tra i gruppi, soprattutto per il fatto che i cosiddetti social creano forme di popolo e di popolare in continua metamorfosi trasversale; oppure cercare relazioni dialettiche tra gruppi che si formano e si disgregano, senza conoscersi, per scopi variabili, anche a breve termine.

Il popolo/popolare è protagonista  – o vittima – di queste dinamiche e dunque naviga senza una meta fissa entro quella società liquida di cui parla Zygmunt Bauman riferendosi ad un tessuto sociale ove il cambiamento è vissuto come l’unica realtà permanente e, quindi, configurabile in quelle situazioni in cui gli individui agiscono prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure stabili: «La vita liquida» ha scritto il sociologo polacco «come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo: viaggiamo privi di strumenti di riferimento, verso una meta che non conosciamo, senza sapere nemmeno quanto durerà il viaggio».

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Ora, la cosiddetta religione popolare non può non partecipare di questa condizione senza precedenti che in Occidente caratterizza il post-moderno. L’esito è quanto meno duplice.

In Italia le ricerche recenti di singoli specialisti e collettivi universitari denunciano un progressivo allineamento del nostro Paese allo standard europeo di vita religiosa, che individuerebbe tra il 10 e il 13% della popolazione (in Francia anche meno), con un decremento di quasi il 20% rispetto agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso.

D’altro canto, è noto come tra gli specialisti degli anni ‘60 si fosse imposto in Europa il paradigma della secolarizzazione irreversibile e si fosse evidenziata, in particolare, una sorta di razionalità scientifico-tecnica combinata con l’affermazione dell’autonomia dell’individuo, con conseguente slittamento dei fenomeni religiosi nella sfera più intima dell’individuo (Thomas Luckmann).

Ma tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ’80 tale paradigma è apparso, malgrado tutto, insufficiente a spiegare il fenomeno, sia per i suoi residui di positivismo, sia perché si andavano ad affacciare all’orizzonte molteplici movimenti religiosi o “para-religiosi” che apparivano quali frutti della stessa modernità in mutamento.

Si è compreso, cioè, che l’indebolirsi di molte istituzioni religiose non andava necessariamente di pari passo con la crisi del “credere”. Stava piuttosto crollando il mito del progresso illimitato, eroso dalla incertezza diffusa all’interno della modernità industriale. Molti cominciarono a rendersi conto del fatto che le religioni erano e sono produttrici di senso, in grado di suscitare movimenti e comunità.

Un sociologo laico come Niklas Luhmann proprio in quegli anni pubblicò un’opera complessa – Funzione della religione (Morcelliana 1991) – in cui assegnava alla religione il compito di «trasformare una complessità indeterminata in una complessità determinata», svolgendo un ruolo di senso il quale «sposta tutto quanto è intenzionalmente afferrato in un orizzonte d’altre e più ampie possibilità» (pp. 31-2). Di qui la ritrosia del sociologo tedesco a proiettarsi in un futuro in cui tale “tecnologia” mentale potesse estinguersi: le figure del senso sono per certi aspetti ineliminabili anche se diacronicamente mutevoli.

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La religione popolare, letta in questa chiave, manifesta due aspetti essenziali.

Il primo è strutturale: essa corrisponde al desiderio umano di allacciare rapporti con un orizzonte di più ampie possibilità, vale a dire con la sfera del divino, che siano più semplici  – riduzione di complessità – più diretti e più immediatamente redditizi (a diversi livelli), manifestando una triplice dimensione anti-intellettualistica, affettiva e pragmatica, nonché un’ostilità istintiva all’oggettivazione sistematico-teorica della fede religiosa, salvo affidarsi a figure carismatiche per questo compito. E sin qui siamo nella tradizione.

Il secondo aspetto è, per così dire, “spaziale”: è un tema su cui rifletto da tempo e che ho, singolarmente, ritrovato in un’intervista rilasciata dalla sociologa francese Danièle Hervieu-Léger all’Avvenire sul finire del 2023. Lascio a lei la parola:

«Non si può mai chiarire nulla completamente. E le scienze sociali, in particolare, gettano luce solo su ciò che decidono di guardare. Personalmente oggi mi appassiona particolarmente la questione della mutazione degli spazi-tempi delle religioni. Se l’iscrizione territoriale e temporale di una forma di religiosità regolare e istituzionale resta in una fase di riflusso, emergono nel contempo nuovi spazi-tempi della religiosità che riguardano ad esempio dei luoghi emblematici come i santuari e i pellegrinaggi, e dei momenti festivi particolarmente importanti per chi vi partecipa [corsivi miei, C.P.]. Si diffonde una certa mobilità territoriale della religiosità, con cicli temporali più intermittenti. Ciò mostra che la scena religiosa non è affatto svuotata e che la vitalità del credere si iscrive in nuove pratiche che gli studiosi sono chiamati a identificare».

Non v’è dubbio, infatti, che i santuari, i pellegrinaggi, le feste patronali – in particolare quelle che coinvolgono la Madre di Gesù – manifestano tuttora presenze di popolo che in quegli spazi e in quei tempi ritrovano le «più ampie possibilità» a cui ha accennato Luhmann ed alle quali le scienze storico-sociali devono «decidere di guardare» con maggior attenzione, osservando le eventuali funzioni e metamorfosi che sono in grado di cogliervi.

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