
«La congettura è elementare: nelle democrazie contemporanee i movimenti populisti insorgono come forme di azione collettiva nel vuoto generato dall’indebolimento e dal venir meno, a volte lento, graduale e continuo, a volte rapido e discontinuo, del capitale di fiducia nel sistema della rappresentanza politica pluralistica di un regime democratico.
Le ragioni della dissipazione del capitale di fiducia da parte di frazioni più o meno ampie di cittadinanza possono essere differenti fra loro, ma si osservi che l’effetto congiunto della revoca di fiducia nelle istituzioni della rappresentanza politica tende a estendersi, in vari modi, in una revoca di fiducia generalizzata nei confronti di qualsivoglia istituzione e, quindi, nei confronti delle differenti élite che detengono pro tempore una qualche risorsa di autorità e di competenza.
Può trattarsi di autorità epistemica o cognitiva, di autorità negli ambiti della mediazione sociale, di autorità culturale o giurisdizionale ecc.» (Salvatore Veca, Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista, p. 174).
Ecco, io andrei ancora oltre: la revoca di fiducia tende sempre più a coinvolgere le stesse relazioni interpersonali in ogni ambito e la sfera privata dell’esistenza. Fino a divenire, quasi, una condizione di vita abituale e persistente.
Dove possono situarsi le origini remote di un fenomeno del genere? Proverei a pormi in ascolto di uno dei padri della modernità:
«Credo infatti che possiamo sperare con altrettanta ragione di vedere con gli occhi altrui quanto di comprendere con l’intelletto altrui. Nella misura in cui consideriamo e comprendiamo noi stessi la verità e la ragione, possediamo una conoscenza vera e reale. Le opinioni altrui che vengono a galleggiare nel nostro cervello, anche se per caso sono vere, non ci rendono un briciolo più dotti.
Ciò che in loro era scienza in noi non è che ostinatezza se accordiamo il nostro assenso solamente perché si tratta di nomi riveriti e non adoperiamo la nostra ragione, come essi fecero, per comprendere le verità che hanno dato loro rinomanza. […] Nelle scienze ognuno possiede quanto realmente conosce e comprende. Ciò che crede solamente, e accetta sulla fiducia, non sono che brandelli» (John Locke, Saggio sull’intelletto umano, corsivi miei).
Un affondo contro il “principio di autorità”, insomma; un affondo nutrito anche dall’ideale protestante del “libero esame”.
Qui, tuttavia, urge discernere. In ambito teologico e religioso, ad esempio, la fede-fiducia nei testi biblici (per ciò che riguarda il cristianesimo) è fondamentale. Più sfaccettato e complesso è il discorso relativo alle varie discipline scientifiche.
Al fine di superare quella revoca di fiducia che, nelle sue forme più clamorose, approda, poniamo, alle tendenze no-vax, o a credere che la terra sia piatta o che le piramidi siano state costruite dagli alieni e roba del genere, sarebbe decisivo accrescere la conoscenza del metodo scientifico e, più in particolare, del modo di procedere delle tecnoscienze e delle scienze umane.
Idee quali la verificabilità, la falsificabilità, l’approccio statistico nella sperimentazione e nell’elaborazione dei dati, le modalità di confronto fra differenti studi, ricerche, laboratori, autori dovrebbero farsi patrimonio condiviso. Da qui, tra l’altro, l’importanza della formazione, della divulgazione, di forme di apprendimento permanente.
Riguardo, invece, alle opinioni in ambito politico (o politico-culturale in senso lato), il riconoscimento del loro carattere plurale e mutevole andrebbe accompagnato a pratiche di dialogo e di persuasione ragionata; a tentativi di costruire ponti, all’insegna della ragionevolezza (Veca parlerebbe qui di “pluralismo ragionevole”), allo sforzo volto a evitare di chiudersi in nicchie, più o meno virtuali. Insomma: occorrerebbe provare a seguire il “principio dei vasi comunicanti”.
Sullo sfondo, siamo chiamati a perseguire un “reincantamento post-ideologico” – così lo definirebbe Giacomo Marramao – della politica, oltre le crepe e le voragini della delusione e del disincanto.
Gradualmente, così, l’istanza della con-vivenza – l’imperativo del “dobbiamo convivere, pur se diversi” – si affermerebbe anche nella sfera delle relazioni “minute” e private. Sempre nella consapevolezza che la coesione e il conflitto (il Polemos eracliteo) rappresentano i due volti della nostra comune umanità.





