
Nella vita, i doveri talvolta diventano insopportabili se imposti come ingranaggi che schiacciano le coscienze e pretendono obbedienza cieca.
Grazie al card. Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli. Ha avuto il coraggio di chiedere l’intercessione presso Dio a un prete suicida. Che nessun papa dichiarerà santo.
«E io, senza paramenti, se fossi lì oggi, davanti al tuo feretro, non avrei il coraggio di fare un’omelia. Mi inginocchierei in fondo alla chiesa, senza voce, e vorrei solo domandarti perdono».
Una lettera così profonda che ogni singola affermazione risulta direttamente coinvolgente.
E allora perché scrivo? Non un commento, ma alcune considerazioni, partendo dalle affermazioni che maggiormente mi hanno fatto riflettere.
Tu hai sanguinato in silenzio. Tu non sei un mistero. Sei stato un grido…
Incapaci di stare, nessuno ha percepito il tuo star male dentro… Rifugiati nel comodo “Solo Dio conosce i cuori”…
Tu eri figlio di Dio, ma anche nostro fratello e ti abbiamo lasciato nel vuoto delle stanze fredde dei doveri…
Che la tua assenza diventi una profezia. Che non si continui a chiamare “servizio” l’ingranaggio che schiaccia le coscienze, che pretende obbedienze cieche come prova di fede e adulazioni docili come pegno di carriera…
Serve una rivoluzione di umanità…
L’espressione “star male dentro” è piuttosto generica, mai presente nei testi di psicopatologia, ma che descrive efficacemente la fatica del vivere. Che è gioia faticosa.
In genere “lo star male dentro” lo percepiscono le persone dotate di particolare sensibilità umana.
Ai superficiali e ai menefreghisti mancano i presupposti per rendersene conto. Bighellonano nella vita e, molto probabilmente, si permettono anche il giudizio, perché “incapaci di stare”. La capacità di stare, nel silenzio, per riflettere e percepire il valore della fratellanza! Senza, il sentirsi figli di Dio diventa perfetto e inutile astrattismo.
Drammatico “lo star male dentro” vissuto “nel vuoto delle stanze fredde dei doveri”. Nel vivere, i doveri sono tanti e spesso possibili, ma diventano insopportabili se imposti come ingranaggi che schiacciano le coscienze e pretendono obbedienza cieca.
“Il tu devi” con l’occhio inumano che ti guarda! Sguardo ossessivo indotto in modo subdolo dalle istituzioni che ricorrono a motivazioni sublimi o accecano con i bagliori del “sempre qualcosa di più”. Come risultato: terribili sensi di colpa o profonda inadeguatezza nel percepirsi costantemente out.
Sarebbe interessante verificare quante volte si usa la parola “peccato” nelle liturgie e nelle varie relazioni clericali.
Il super-io tiranno annienta e non può essere supportato dalla sublimazione; meccanismo di difesa che Anna Freud definisce il più nobile. Che spesso viene indotto da “motivazioni oltre”, dimenticando la concretezza dei desideri che chiedono di essere legittimamente valorizzati.
Si celebrano i supereroi della fede e si delegittimano i fragili come tutti gli umani.
Quando il dolore dello star male dentro è molto profondo, anche la parola “misericordia” risuona vuota. È la fratellanza che richiama la concretezza del Gesù della Buona Novella. Fratellanza che ognuno esercita secondo il suo ruolo, che risulta efficace solo se guidato dalla consapevolezza che ”lo star male dentro” accomuna e può diventare un capitale. Allora fratellanza è capirsi per capire e viceversa. E che dovrebbe animare la tecnica di ogni conoscenza umana.
Serve una rivoluzione di umanità. Educazione e formazione costante, valorizzando contenuti esistenziali personalizzati!





Si può essere molto soli nella vita e nella Chiesa, affrontando nodi esistenziali quasi insolubili. Non avere chi ti sappia consolare e sostenere. Ma un credente, non dico nemmeno prete, ha la forza della preghiera in Dio, che sa guarire ogni ferita. Certo, occorre essere forti e, perdonate, anche umili. Senza voler giudicare e senza, però farne un eroe dell’incomprensione di tutto il creato, ho l’idea che sia rimasto imbrigliato nel proprio ruolo di presbitero, che deve aiutare più che essere aiutato, amare più che essere amato, dare consigli più che chiederli. Dovremmo forse riflettere sulla condizione umana di un prete, che appunto, è solo un uomo, bisognoso di cura e attenzione come chiunque altra persona.
Peccato che il cardinale non l’abbia scritta quella lettera: avrebbe sicuramente fatto bella figura e sarebbe apparso onesto.
Sulla riflessione nulla da dire. Mi permetto invece di osservare che le citazioni del cardinale Battaglia vanno forse verificate in quanto sembra che la lettera citata sia una fake. (Cfr. https://gazzettadelsud.it/articoli/societa/2025/07/09/suicido-del-vice-parroco-di-cannobio-nessun-testo-diffuso-dal-cardinale-di-napoli-don-mimmo-battaglia-04e59167-f48a-48e3-84eb-f911113de239/)
Mi sembra sia un testo diverso. O almeno Credo
Tengo a precisare che il testo a cui fa riferimento l’autore dell’articolo appartine a una mia lettera pubblicata l’8 luglio 2025 sul profilo Facebook della parrocchia di cui sono parroco (San Ferdinando Re) e successivamente fatta circolare come testo del Card. Battaglia. Poi è seguita una smentita dell’Ufficio Stama della diocesi di Napoli per dire che il testo non era del card. Battaglia. Riporto di seguito il testo della mia lettera postata su facebok:
Lettera a te fratello presbitero Matteo,
nel giorno del tuo funerale
Caro don Matteo,
Da qualche giorno il tuo nome attraversa le navate delle chiese e rimbalza sulle bocche tremanti di fedeli, fratelli presbiteri, giovani, amici. Ma nessuno riesce davvero a pronunciarlo senza sentire dentro una ferita che brucia come brace sotto la cenere.
Matteo, fratello caro, preti si nasce e poi si sanguina. E tu hai sanguinato, in silenzio, dietro il sorriso mite, la disponibilità pronta, la liturgia vissuta con cura, l’oratorio che ti assorbiva come una casa dove però forse non ti sentivi mai davvero figlio.
Il tuo ultimo gesto, quello estremo, ci inchioda alle nostre responsabilità. E io, se fossi lì oggi, davanti al tuo feretro, non avrei il coraggio di fare un’omelia. Mi inginocchierei in fondo alla chiesa, senza paramenti, senza voce, e vorrei solo domandarti perdono.
Perdonaci, Matteo, perché non ti abbiamo visto.
Perdonaci, perché ti abbiamo lasciato solo mentre tutti dicevano che “eri benvoluto”.
Perdonaci, per una Chiesa che parla di missione ma a volte dimentica la compassione.
Perdonaci, per aver ridotto il Vangelo a una prestazione e la fraternità a una riunione di calendario a cui non si deve mai mancare.
Siamo noi, Matteo, noi che abbiamo costruito una Chiesa che a volte sa essere madre ma troppo spesso si comporta da matrigna. Una Chiesa che ti forma in seminario come se avessi trent’anni di certezze, e poi ti manda in parrocchia come se fossi un supereroe della fede. Una Chiesa che in nome dell’obbedienza ti chiede tutto, ma quai mai si accorge di cosa hai dentro.
Tu avevi dentro un inferno. E nessuno ti ha preso sul serio. Ci siamo abituati a vedere i giovani preti come una risposta alla crisi, un cartellone pubblicitario per le vocazioni, non come uomini fragili, amati da Dio prima ancora che ordinati da un vescovo.
E invece tu eri un figlio. Di Dio, sì. Ma anche nostro. Fratello. E noi ti abbiamo lasciato morire in silenzio. Ti abbiamo addobbato di aspettative e poi ti abbiamo lasciato nel vuoto delle stanze fredde dei doveri, degli incarichi, delle messe che si devono celebrare “comunque”, anche quando l’anima è in apnea.
Matteo, non voglio parlare di mistero.
Tu non sei un mistero.
Tu sei stato un grido.
Un grido che nessuno ha voluto o saputo ascoltare.
E adesso tutti a dire che “solo Dio conosce i cuori”. Ma tu lo avevi gridato anche a noi, con gli occhi stanchi, con la discrezione di chi non vuole pesare. E noi, troppo occupati a “gestire”, non abbiamo fatto l’unica cosa che salva: stare.
Stare con te.
Stare nella notte.
Stare senza risposte.
Stare come Maria sotto la croce, che non fa discorsi, ma resta.
E invece ci siamo girati dall’altra parte.
Ora, fratello mio, voglio credere che le tue mani, quelle mani consacrate che benedicevano, ora si sono lasciate andare nelle mani più grandi e misericordiose del Padre. E Lui ti ha accolto con una carezza silenziosa. Senza giudizi, senza processi, senza frasi fatte. Solo l’abbraccio.
Oggi, sulla tua bara, io non depongo fiori, ma una promessa: che la tua morte non resti un’altra omertà clericale, un’altra cartolina incorniciata da formule preconfezionate. No. La tua morte ci scomodi. Ci converta. Ci obblighi a ripensare tutto: la formazione, il ministero,
la fraternità e il cuore.
Perché, vedi, se una Chiesa non si prende cura e non salva i suoi pastori, non può dire di annunciare il Pastore buono. Se una comunità diocesana non sa piangere con verità, non è comunità, è apparato. E se un presbitero muore così, non basta un comunicato stampa. Serve una rivoluzione di umanità.
Caro Matteo, il tuo nome adesso è scritto sul palmo delle mani di Dio.
Non sulle carte della curia, ma nel cuore trafitto del Cristo.
Lì dove ogni lacrima viene asciugata, e ogni grido finalmente ascoltato.
Tu non sei fuggito.
Hai solo ceduto, stanco, sotto il peso di una croce che non potevi più portare da solo.
Ed è anche colpa nostra, che abbiamo smesso di portarla insieme.
Ora riposa, fratello.
E, se puoi, prega per noi.
Che la tua morte ci svegli.
Che la tua assenza diventi profezia.
E che la tua anima, finalmente libera,
trovi il cielo che qui nessuno
è riuscito a darti.
Intercedi, don Matteo,
presso il Dio vivente,
perché nella sua Chiesa i preti non siano più carne da apparato,
spacciata per “missione” quella che è solo manovra,
strategia aziendale travestita da zelo pastorale,
non opera di padri, ma di capiservizio con l’anima algida.
Che non si continui a chiamare “servizio”
l’ingranaggio che schiaccia coscienze,
che pretende obbedienze cieche come prova di fede
e adulazioni docili come pegno di carriera.
Fa’ che si spezzi il silenzio di chi tace per paura,
e che il Vangelo torni ad avere voce di fuoco
anche nelle bocche dei preti stanchi,
ma non domati.
Intercedi perché siano difesi
da quella logica perversa che confonde l’organigramma con il Corpo di Cristo,
l’uniformità con la comunione,
la carriera con la croce.
Intercedi perché non vengano risucchiati
dal sistema aziendalista,
che trasforma i presbiteri in gestori d’ufficio a tempo determinato.
Prega perché non diventino funzionari del sacro,
incastrati tra verbali, firme e rendiconti,
mentre il Vangelo langue in fondo al cassetto,
e le ferite del popolo restano senza olio e senza vino.
Intercedi, perché il loro cuore resti libero,
più vicino alla polvere delle strade
che ai palazzi delle curie,
più pastori con il tanfo delle pecore
che esecutori di direttive.
Intervieni perché il Maestro li scuota,
se necessario.
E faccia perdere loro tutto ciò che
non è Cristo.
e li liberi dalla tentazione di piacere ai superiori e non al Signore crocifisso.
E se devono cadere in disgrazia,
che sia per essere fedeli al Regno.
E allora, don Matteo,
vai.
Cammina tra i campi del Cielo
E se incontrerai lassù il Cristo,
quello vero – non quello dorato delle sacrestie –,
digli che anche noi,
qui sotto,
proviamo ancora a cercarlo.
Come te.
Con fatica.
Con paura.
Ma con il cuore acceso di speranza.
Ti voglio bene, fratello Matteo.
Mimmo, prete inquieto
Ringrazio per queste indispensabili precisazioni. La correttezza aiuta e rafforza le riflessioni su tematiche di fondo. GRAZIE!
Ma che ne sai delle persone che aveva vicino don Matteo? Dell’attenzione che gli hanno riservato? Della cura che hanno avuto per lui? È facile pontificare lanciando accuse senza conoscere la situazione e definire la chiesa matrigna senza sapere quanto gli sia stata vicina. Meno male che il testo non è del card. Battaglia. Meno giudizi, più silenzio e preghiera….