Alla porta del mistero

di:

buzzati

Il libro Una goccia di Dino Buzzati comincia così: «Una goccia d’acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso a letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic, si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpendicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravità. Questa no: piano piano si innalza lungo la tromba delle scale».

Leggendo riconoscevo tutte le mie domande sul mistero, a cui Buzzati dava cittadinanza in me. Ma che cosa è il mistero?

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Nel mondo antico i misteri (dal greco stare a bocca chiusa) erano riti iniziatici nei quali si entrava in contatto con il divino. Con il cristianesimo, il termine passò a indicare i sacramenti, che segnano l’incontro tra l’uomo e Cristo, il mistero per eccellenza: l’unione tra umano e divino.

Ma il mistero non è solo una realtà religiosa: nel Novecento, Gabriel Marcel ha distinto il problema dal mistero: il primo è ciò che non ha ancora soluzione, ma, se pur a fatica, sarà risolto, come i problemi matematici o pratici; il secondo è un orizzonte di verità, non possiamo risolverlo una volta per tutte, ma approfondirlo dà senso alla vita perché fa crescere l’anima che vogliamo avere, come di fronte al mistero del dolore o della morte.

Rimuovere il mistero o ridurlo a un problema da risolvere è tipico dell’ebbrezza tecnologica (la morte sarà sconfitta, il dolore eliminato…), ma questa illusione ci rende infantili. L’uomo maturo, invece, affronta i problemi e resta di fronte al mistero senza fuggire.

Così fece Buzzati, come scrisse il poeta e amico Eugenio Montale nel suo necrologio:

«Tutta la realtà, la vita stessa, gli oggetti erano per lui segnali dell’altrove, erano una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi. E Dino poteva tranquillamente ostinarsi a bussare. E così fu per lunghi anni». Con la scrittura e la pittura l’autore bellunese continuava ad ascoltare il mistero, come fanno le anime semplici, proprio come accade con la goccia: «Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a segnalarla. Bensì una servetta del primo piano, piccola ignorante creatura. Se ne accorse a ora tarda, quando tutti erano già andati a dormire. Corse a svegliare la padrona. “Signora! C’è una goccia, signora, una goccia che vien su per le scale!”. “Che cosa?”, chiese l’altra sbalordita. “Una goccia che sale i gradini!”, ripeté la servetta. “Va’, va’”, imprecò la padrona. “Sei matta? Torna a letto! Hai bevuto, vergognosa!”».

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Anche oggi, chi segnala e indaga il mistero, cioè tiene viva la domanda su Dio, sul destino, sul senso della vita, viene spesso preso per ingenuo, ubriaco o pazzo. Buzzati non rinunciò a questa indagine sino all’ultimo istante della sua vita, come il protagonista della sua opera più bella, Il deserto dei Tartari (1945), a torto ritenuta tragica da chi vuole ignorare il «misterioso» sorriso finale del protagonista. Infatti di quel libro Buzzati diceva: «È il libro della mia vita, perché quando stavo scrivendo capivo che avrei dovuto scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della mia morte».

Buzzati mi ha insegnato a non temere la paura, perché fuggirla significa perdere i doni «misteriosi» che porta con sé. Chi non ha paura della morte, del dolore, della solitudine, degli eventi inattesi… cioè di tutte «le gocce che salgono» nelle nostre notti interiori? Ma solo affrontando la paura si trova il coraggio, come ha fatto Buzzati che, ricoverato in ospedale, sente che la fine è vicina e chiede alla moglie di fargli la barba: «Voglio che la morte mi trovi in ordine».

Morì baciando un crocifisso, benché non si dicesse credente. Ma chi è il credente, se non colui che, aderendo alla realtà, continua a bussare alla porta del mistero fino all’ultimo istante?

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