Chi ci consolerà?

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Michael Ignatieff, autore di vari lavori nel campo dell’etica, ha scritto un libro (En busca de consuelo) dedicato alla consolazione nei tempi oscuri che la raffinata teologa spagnola Felisa Elizondo[1] presenta qui, giungendo alla conclusione che la vera consolazione per il credente è legata alla speranza di una promessa che non delude e che si compirà in Dio.

In poco tempo, ho potuto constatare che la parola “consolazione”, di evidente radice latina, la quale evoca un auspicabile aiuto per essere sollevati o tranquillizzati quando si è nella sofferenza, suona molto diversamente alle orecchie di alcuni e suscita anche reazioni opposte.

In ascolto di tante voci

In cerca della consolazione è il titolo del testo scritto dal canadese Michael Ignatieff, autore di vari lavori nel campo dell’etica. Il libro si presenta come un possibile aiuto per «vivere con speranza in tempi oscuri», secondo lo stesso sottotitolo. Traguardo al quale l’autore si propone di pervenire presentando un elenco di nomi illustri che hanno cercato di raggiungere quell’obiettivo – senza riuscirci pienamente[2] (ma che meritano di essere ricordati in una rassegna storica).

Ai nostri giorni si può trovare un atteggiamento di totale rifiuto. Alcuni snobbano la questione perché la ritengono inutile e perfino insensata. A proposito di un caso recente, per lanciare con successo un suo libro, una giovane scrittrice ha definito la consolazione come parola «dei perdenti».Si può – giustamente – obiettare che la consolazione è un desiderio naturalissimo che ognuno di noi ha sentito nascere nei momenti di depressione nella propria piccola storia personale. E che offrire sollievo continui ad essere un favore sempre gradito dagli altri, vicini o lontani. Né cessa di essere dignitoso per il credente cercare di consolarsi con la promessa del bene definitivo, che viene dal Dio in cui crede. Anche se non bisogna dimenticare il grave avvertimento che giunge dagli autori “spirituali” e che Simone Weil ha raccolto nel libro L’ombra e la grazia: «La religione come fonte di consolazione costituisce un ostacolo alla vera fede». Solo «in aggiunta» – potremmo tradurre – possiamo aspettarci la consolazione di Dio.

E resta vero che né le “controindicazioni” di chi la considera una debolezza, né quest’ultimo avvertimento, e nemmeno la critica radicale di Marx dell’effetto “oppiaceo” di una religione alienante (che lo stesso Ignatieff commenta in alcune pagine), possono togliere legittimità all’innegabile desiderio di essere consolati, né alla ricerca di sollievo che sentiamo nascere spontaneamente in noi di fronte al fallimento, al dolore o alla tristezza. Basti pensare a cosa succede quando ci colpisce la perdita di una persona cara o nei momenti in cui una delle sofferenze possibili ci piomba addosso all’improvviso.

Il dolore si aggira per il mondo e si adagia a turno ai piedi di ciascuno, avvertiva Eschilo secoli fa nel suo Prometeo. Ci sono desolazioni terribili e spaventose. E nessuno può negare umanità – e bellezza – a quel po’ di sollievo che, con gesti, parole o silenzi, noi esseri umani possiamo offrirci a vicenda alla vista delle lacrime o nei non rari momenti di scoraggiamento.

Un impegno raggiunto solo in parte

Il filosofo Ignatieff confessa, nel prologo, che il suo è un tentativo di dire ai credenti o ai non credenti (egli si colloca tra i secondi) che, in alcuni momenti privilegiati, grazie alla bellezza delle parole e della musica, ha sperimentato l’effetto inspiegabile del dono che chiamiamo consolazione. A partire da quei momenti personali in cui le note musicali applicate ai Salmi hanno esercitato quel ruolo, egli confessa di scrivere seguendo «l’impulso di cercare consiglio nei grandi uomini e donne che vissero in tempi di maggiore costernazione dei nostri e che trovarono conforto in opere artistiche, filosofiche e religiose che restano a nostra disposizione…».

Leggendo questi capitoli, abbiamo l’impressione che quella ricerca equivalga alla stessa che, in altri contesti, si presenta come un interrogativo sul significato della vita. Un altro modo per dire l’inquietudine che ci attraversa. La rassegna, che va da Cicerone a Vaclav Havel – l’attivista ceco che ha dato prova della sua indomabile decisione di «vivere veramente» nelle sue Lettere a Olga –, ripercorre alcune vite segnate da questa ricerca, a volte quasi fallimentare, altre volte errabonda, e alcune vite più testarde o più rassegnate: «Non è difficile rispondere dei nostri successi – è una citazione di colui che divenne presidente del suo Paese dopo aver trascorso anni nella clandestinità e in carcere –, ma assumersi la responsabilità dei propri errori, assumerseli senza riserve come veri e propri fallimenti… questo sì è tremendamente difficile! (…) Solo questa è la strada… verso una rinnovata fiducia nei miei problemi, verso uno sguardo radicalmente nuovo dentro la gravità misteriosa della mia esistenza in quanto compito incerto e, nel suo significato, trascendentale».

Come in altri casi di ricercatori instancabili, quello di Havel è un risultato prezioso. Perché trova conforto nel giudizio della sua coscienza, mai lontana dall’etica.

Ma ci sono altre vite che conoscono solo una rassegnata consolazione dopo ricerche, almeno in parte, stravaganti o fallite. Tuttavia, l’impegno instancabile che si registra nella vita di qualcuno non cessa di impressionarci, perché sembra nascere dal punto più segreto della sua anima. E avvertiamo che la morte costituisce l’ostacolo più difficile da evitare, anche per coloro che avrebbero voluto ignorarla o hanno finalmente raggiunto una certa serenità nella vita dopo aver superato non lievi pericoli.

Nel volume che stiamo commentando – opera di uno studioso non credente – ci sono paragrafi che echeggiano il dolore di Giobbe e altri che descrivono la commozione profonda prodotta dalle dolorose suppliche dei Salmi. Trova spazio anche il «linguaggio vigoroso» sulla consolazione-speranza presente nelle Lettere di Paolo: «Come anziano che si trovava al termine di un lungo viaggio – conclude questa lettura –, Paolo sapeva che non sarebbe vissuto tanto da vedere la seconda venuta del messia. Sapeva di aver servito al limite delle sue forze e sapeva che la prova di ciò che aveva ottenuto stava nell’amore per coloro che avrebbe lasciato dietro di sé. Nel suo amore… aveva ricevuto l’unico segno che gli esseri umani possono avere su come può essere l’amore di Dio» (p. 52).

Seguono pagine che aiutano a considerare l’alto prezzo che dovettero pagare per la rinuncia a una consolazione coloro che accettavano il consiglio ciceroniano: «Se vogliamo essere virtuosi, dobbiamo disprezzare la morte e il dolore: la filosofia ci darà la medicina per disdegnarli» (p. 64). Un consiglio dal tono virile che, però, non riuscì a guarire la solitudine e le paure del pensieroso imperatore Marco Aurelio. Né bastò, trascorsi alcuni secoli, a mettere a tacere le domande filosofiche del cristiano Boezio, alla fine rassegnato all’incomprensibilità degli eventi che segnarono la sua carriera, e soprattutto davanti alla sua stessa morte.

In questo elenco di cercatori si trovano citazioni estese che seguono il filo della ricerca nelle biografie di personaggi entrati nella storia: Condorcet, Lincoln, Marx, Mahler, Weber, Camus… e note più brevi dedicate a nomi del nostro tempo, riuniti dalla profondità della loro testimonianza. I loro gesti sono riusciti a dimostrare che ci sono delle risorse nell’umanità che né l’orrore né le più grandi disgrazie possono rovinare. Sono nomi di persone che, pur trovandosi nell’impossibilità di raggiungere la consolazione desiderata, hanno dato prova che c’è una grandezza indiscutibile nel farsi carico di ciò che è inconsolabile, quando si verifica nella propria vita o in quella degli altri: «Di fronte alla loro morte – confessa Ignatieff – ho imparato che la consolazione è, allo stesso tempo, un processo cosciente, attraverso il quale cerchiamo il significato delle nostre perdite, e un’immersione inconscia nei recessi delle nostre anime, in cui ritroviamo la speranza. È il lavoro più duro, ma anche il più gratificante che facciamo, non possiamo evitarlo. Non possiamo vivere nella speranza senza dover fare i conti con la morte, la perdita e il fallimento» (p. 254).

Già nelle pagine finali, con le parole di un poeta da lui ammirato, l’autore parte dal presupposto che la consolazione resta l’opera di una vita costantemente ricominciata, che vale la pena continuare anche se si può goderla solo in un momento. Coraggio, lucidità e determinazione nel lasciare qualcosa che possa consolarci è il contributo di alcuni uomini e donne che, nei secoli passati o vicino a noi, hanno sperimentato, ciascuno a modo proprio, l’inquietudine del non senso. Più che le dottrine – conclude – ci consolano le persone con la loro presenza, quando dobbiamo affrontare la nostra afflizione o uscire dalla desolazione, che sono tappe vicine tra loro.

La consolazione della speranza

Nello spazio dedicato alla lettura dei Salmi, e partendo da alcune frasi di Paolo – che egli considera nientemeno che «creatore della consolazione cristiana» –, Ignatieff lascia aperta la possibilità di continuare a interrogarsi sul rapporto che la consolazione ha con la speranza, intesa nel suo significato e nella sua portata cristiana. Una questione ben presente nella spiritualità e nella teologia attuali. Infatti, per la tradizione di cui fa parte l’Apostolo, credere in Dio significa trovare la fonte di «una speranza più grande». Una fonte che tracima la nostra profondità umana ma che non toglie nulla allo spirito sereno che – come mostra la storia – alcuni hanno raggiunto a prezzo di grandi fatiche.

Bisogna ricordare questo insieme di speranze perché, nonostante le incomprensioni, quella offerta dalla fede non è una consolazione che ci esime da nuove ricerche, poiché siamo «salvati nella speranza», come dice espressamente il testo biblico. E perché la nostra attesa è un’attesa fiduciosa, un’attesa del compimento con un certo tremore.

La speranza cristiana – si ripete con verità e realismo – non ci libera dalle lacrime e non equivale a un tranquillante che ignora i momenti di sconforto. Già Victor Hugo avvertiva che «l’occhio vede bene Dio solo attraverso le lacrime» e che «la speranza più alta viene dal dolore più profondo». Nel linguaggio stesso di Paolo, in cui risplende la speranza della risurrezione, sono formulati in sequenza: sofferenza-pazienza-virtù provata e speranza.

Tuttavia, sappiamo che, anche se in penombra, chi persevera nell’attesa affronta con serenità la morte, ostacolo che si è rivelato insormontabile anche per i più tenaci ricercatori.

Una speranza consegnata a tutti

La ricerca fiduciosa di una consolazione finale non è caduta in disuso, anche se, nel groviglio delle reti, qualcuno ha scritto in un podcast che «avere speranza ti rende infelice». Ci sono parole antiche che conservano la loro capacità di guarire.

A quanti di noi possono essere tentati di desistere dalla ricerca, o essere portati a pensare – come Macbeth e altri classici – che la vita è solo «un’ombra passeggera», sarà opportuno ricordare che è possibile incontrare una consolazione che viene dall’alto cercando con la nostra stessa fatica.

C’è una grandezza nella ricerca della consolazione e nella speranza duratura che può essere colta nell’esistenza di uomini e donne forti e geniali, che, a volte, sono stati seriamente minacciati dallo sconforto. Hanno il merito di aver fatto affidamento sulla saggezza e sulla fortezza, che è come dire sulle possibilità umane di superare le sventure, anche se avessero da accettare silenziosamente la certezza della morte.

Ma sappiamo anche che esiste una speranza che ha il suo inizio nella fede e che realizzerà davvero la sua audace promessa: «la speranza non delude». La riconosciamo come un dono che ci aiuta nel dispiegamento di altri doni e che ci offre conforto nelle nostre malattie più segrete. Una speranza e consolazione del genere sono un dono che deve passare dalle nostre mani ad altre mani giunte o tremebonde: «Consolatevi a vicenda con le parole della risurrezione», scrive l’Apostolo nella lettera ai Tessalonicesi. Colui che – come ha giustamente intuito Ignatieff – «cominciò a riformulare il messaggio di consolazione per coloro che avevano aspettato abbastanza, avevano perso i propri cari e non erano sicuri che la promessa si sarebbe avverata» (p. 47).

E non dobbiamo dimenticare che la speranza della consolazione definitiva, a cui aneliamo con il sostegno della fede, comprende a sua volta il desiderio che la speranza più grande si compie anche per coloro che non aspettano: «Che tutti abbiano il tuo paradiso», pregava Charles de Foucauld.


[1] Felisa Elizondo è la prima donna dottoressa in teologia e professoressa di teologia sistematica in Spagna.

[2] Le parti sottolineate ed evidenziate nell’articolo sono della traduzione spagnola.

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Un commento

  1. Pino Macaluso 7 maggio 2024

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