I sei gatti della Madonna

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presepe

La natura, in questi giorni di dicembre segnati dal buio e dal freddo, si ritrae nell’attesa, e ci diventa maestra: i pomeriggi sono così brevi che all’ora di cena è già notte, e l’oscurità oltre i vetri delle finestre ci invita a gustare il tepore e l’intimità delle case.

Quando avevo i bambini piccoli, i pomeriggi e le sere che precedevano Natale erano un tempo speciale, dedicato ai lavoretti, alle storie e ai canti. Tra le numerose canzoni del nostro repertorio casalingo, una filastrocca tornava di anno in anno ad accompagnare le lunghe sere dicembrine.

Qualche sera fa, con i figli ormai cresciuti e in modo del tutto inatteso, questa filastrocca è riemersa dai ricordi. Con grande, reciproco divertimento abbiamo iniziato a cantarla: Bambino nella culla, la luna e il sol, chi ha creato il mondo è stato il Signor, è stato il Signor.

Tramandata dalla notte dei tempi, chissà come e chissà da chi, forse di origine celtica, forse di origine mediorientale, la filastrocca si snoda secondo un percorso numerico che prende la forma di un efficace compendio teologico: i quattro evangelisti, i cinque precetti, i sette sacramenti, le otto beatitudini, i nove cori angelici, i dieci comandamenti.

Ma Bambino nella culla è, soprattutto, un canto natalizio. I primi tre numeri della filastrocca tratteggiano a rapide pennellate uno scenario da presepe: uno è il Bambino, due sono l’asino e il bue, tre sono i santi tre re Magi. Poi, nel prosieguo del canto, le immagini della tradizione si intrecciano ai contenuti teologici “alti” e fra i cinque precetti e i sette sacramenti si vengono ad inserire, con assoluta naturalezza, i sei gatti della Madonna.

Nella grotta di Betlemme – raccontava la fantasia poetica popolare – non c’erano soltanto un asino e un bue a riscaldare con il loro respiro il Dio bambino: una gatta, che si era accoccolata nella mangiatoia con i suoi cinque gattini, teneva al caldo il bimbo Gesù con il tepore del suo corpo. Maria, per ringraziala di tanta materna premura, le aveva accarezzato la fronte. È per questo che, ancora oggi, fra gli occhi dei gatti soriani la coloritura del pelo disegna, nitida, una “M” – la “M” di Maria.

Bambino nella culla, la luna e il sol… Una filastrocca. Un gioco di parole, un calembour. Un sunto da Biblia Pauperum. Una fiaba da bambini, tutt’al più. Cosa hanno a che spartire con la verità evangelica l’asino, il bue, i re Magi,  – Magi sì, ma non tre e neppure re –, e i gatti della Madonna?

Greccio, nuova Betlemme

Francesco si recò in Egitto durante la quinta crociata, nel 1219, mentre i cristiani tenevano sotto assedio la città di Damietta, uno dei porti strategici più importanti dell’Egitto musulmano. Qui volle incontrare il sultano Al-Malik Al-Kamil, che lo accolse e lo ospitò per diversi giorni, ascoltando rispettosamente le sue parole. Al momento del congedo, il sultano gli offrì un salvacondotto che gli permise di visitare la Terra Santa, stretta nella morsa della guerra.

Rientrato in Italia, all’appressarsi del Natale dell’anno 1223 Francesco chiese all’amico Giovanni Velita, signore di Greccio, di aiutarlo a realizzare un’idea che aveva iniziato a germogliare in lui durante la visita ai Luoghi Santi:

«Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».

Come ha ben spiegato la storica Chiara Frugoni, durante il Medioevo erano già in uso forme di sacre rappresentazioni della Natività, con sacerdoti e ragazzi che si vestivano da Giuseppe e Maria. Ma a Greccio, in quella notte di Natale di ottocento anni fa, Maria e Giuseppe non c’erano: seguendo le indicazioni di Francesco, Giovanni aveva collocato, in una grotta fra i monti reatini, solo una mangiatoia con un po’ di fieno, un asinello e un bove. Francesco, indossando paramenti diaconali, cantò con la sua bella voce il Vangelo e tenne la predicazione, poi il sacerdote celebrò l’eucaristia sulla mangiatoia, mentre una grande gioia si diffondeva fra tutti coloro che erano accorsi a celebrare la Notte Santa. Greccio – scrisse Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco – quella notte divenne una nuova Betlemme.

Per quale motivo Francesco aveva voluto che nella grotta, accanto alla greppia, ci fossero un asino e un bue? Nei vangeli canonici non c’è traccia di questi due animali; se ne parla, invece, nei vangeli apocrifi e in alcuni commenti dei padri della Chiesa, per i quali l’asino e il bue erano figura dei Giudei e dei Gentili accorsi insieme alla mangiatoia del Verbo.

Il tempo di Francesco era un tempo feroce di crociate e di Chiesa in armi. Ma Francesco non condivideva il bellicoso e belligerante spirito del tempo, come dimostra il suo viaggio in Oriente, nato dal desiderio di portare, ai musulmani e al mondo intero, un messaggio di pace.

Il presepio di Greccio raccontava il sogno e il progetto di un ordine nuovo, costruito sulla pace e sul rispetto fra i popoli e le persone: se Greccio è una nuova Betlemme, la Terra Santa può essere ovunque e non c’è più bisogno di indire crociate per conquistare i Luoghi Santi, non c’è più motivo di combattere guerre e di servirsi di armi e violenza.

Come nelle favole

Il simbolo dà a pensare, si sa. Appiattirlo nella bidimensionalità delle semplificazioni allegoriche o ridurlo a rappresentazione pittoresca significa perderlo. L’asino e il bue del presepe francescano non sono solo figura di Gentili ed Ebrei, ma sono anche l’asino e il bue di Isaia, espressione di quella dimensione creaturale della vita che Francesco aveva con insuperata poesia espresso nel suo Cantico della Creature:

«Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (Isaia 1,3)

La volontà razionalizzatrice comprime e reprime il simbolo o lo sperpera nel folklore, così che la tradizione viene o valorizzata e rivendicata solo in quanto custode di radici identitarie esclusive ed escludenti, o rifiutata in blocco perché legata ad un repertorio di idee e immagini inaccettabili per la sensibilità moderna – fatte salve nuove riformulazioni in chiave esclusivamente consumistica e commerciale.

La perdita del simbolico, della sua stratificazione e della sua profondità, è uno dei segni più evidenti e drammatici della crisi di senso che la nostra civiltà sta attraversando. Una civiltà che fa fatica a raccontare fiabe ai bambini e a cantare filastrocche è una civiltà che perde la gioia.

In molti suoi libri Eugen Drewermann ha trattato del potere che le fiabe, i miti e le immagini hanno di parlare alle profondità del nostro inconscio. Secondo il teologo tedesco, il punto di partenza per comprendere l’esperienza religiosa non è tanto la razionalità, quanto il vissuto senza parole e pieno di immagini degli strati più profondi della psiche umana: mentre il metodo della storia delle forme dà priorità alla parola rispetto all’immagine, Drewermann propone, per avvicinarsi al contenuto religioso dei racconti biblici, di capovolgere il punto di osservazione, cioè di cominciare dal sogno, anziché dalla parola.

Canticchio fra me e me Bambino nella culla, mentre si avvicina il momento di cominciare a pensare al presepe. Il presepe, un sogno di pace in cui Dio che si è fatto bambino può addormentarsi serenamente, scaldato dal respiro di un asino e di un bue e dal tepore del corpo di una mamma gatta e dei suoi cinque gattini.

Un sogno di pace che tocca nel profondo le sorgenti della nostra umanità, custodendo come irrinunciabile il desiderio, la speranza e la forza dell’amore.

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Un commento

  1. Laura 11 dicembre 2023

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