Pace a voi

di:

onu

La prima parola che il risorto dice ai discepoli nella pagina del Vangelo di Giovanni (Gv 20,) è “Pace a voi”. La ripete per due volte nella prima scena, ai dieci discepoli riuniti, e poi nella seconda scena a Tommaso, otto giorni dopo. Gesù fa dono della “sua” pace come aveva già detto nel capitolo 14: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14,27).

È la pace di Gesù! E la offre a discepoli e discepole che non stanno propriamente bene, non sono affatto sereni e tranquilli; vivono ancora traumatizzati, sono barricati “a porte chiuse, per paura”, sono prigionieri della paura. La prova che hanno vissuto durante la passione è ancora viva in loro e troppo turbati i loro cuori. Non è così semplice ricevere il dono della pace mentre si è turbati dagli avvenimenti che ci circondano.

Ma proprio questo è il bello dell’annuncio pasquale, e che ci riguarda in prima persona. Perché la pace non è un augurio irenico che sogna che ci siano improvvisamente condizioni pacifiche nel mondo, che terminino le guerre, che si allenti il clima di aggressività che respiriamo ogni giorno. Si tratta di trovare la pace mentre si vive un tempo che non è pacifico, mentre si attraversano tempi difficili e pieni di conflitti.

I conflitti e la pace possibile

In maniera un po’ illusoria ci siamo fatti l’idea che la condizione normale e ideale della vita sia quella che – nell’occidente – per noi è la condizione di benessere e di assenza di conflitti. Ma non è così! Eraclito, filosofo greco antico, sosteneva che “polemos è padre di tutte le cose”: la guerra, il conflitto, il polemos, è la condizione normale della vita. Gli uomini vivono in guerra: per la sopravvivenza, per occupare lo spazio, per lottare contro il tempo, le avversità, i nemici…

In guerra sono i popoli e le nazioni, ma anche gli uomini e le donne, i fratelli e gli amici. Il contrasto e il conflitto è la condizione normale della vita. E proprio in questa condizione il risorto dice: “Pace a voi”. Come fare a essere in pace mentre viviamo nel pieno dei conflitti?

Il testo ci suggerisce alcune piste per immaginare una pace possibile mentre di vive nel pieno dei conflitti. Potremmo dire così: si tratta di una pace che ha a che vedere con le ferite, quelle che il risorto mostra ad ogni sua apparizione; ed è una pace che lo Spirito suscita con il dono e il compito del perdono.

Ma vorrei provare ad approfondire questo dono proprio facendo riferimento ai due conflitti, le due guerre che oggi ci sembrano più a noi vicine, il conflitto trai russi e gli ucraini e il conflitto tra israeliani e palestinesi. Non sono certo le uniche guerre, piuttosto quelle che le cronache ci mostrano più insistentemente e che per questo ci sembrano così vicine. In realtà ce ne sono molte altre, che non dovremmo dimenticarle! In realtà quello che vorrei dire riguarda poi tutte le guerre e tutti i conflitti che viviamo.

La prima osservazione è questa: la guerra non riguarda due realtà estranee l’una all’altra. In questi casi si tratta di conflitti tra fratelli. È evidente nel caso dell’Ucraina e della Russia: sono due popoli e due nazioni che hanno una lunga storia comune, appartengono ad una medesima cultura, e addirittura ad una stessa fede, perfino ad una medesima confessione, quella ortodossa, pur nelle differenze che la guerra ha esacerbato! E proprio questo è il lato scandaloso: sono fratelli che si fanno la guerra! Perché questo è il lato più tremendo della guerra, quella che oppone chi è fratello, come nelle famiglie dove ci si scontra ferocemente per una eredità, per le case per i soldi… è tra fratelli che scoppia la guerra.

E la stessa cosa vale per il conflitto Israele e palestinesi: sono popoli semiti, hanno in comune una medesima radice, e anche in questo caso che ha a che vedere con la fede. Gli ebrei credono nel libro della Torà, ma questo è in qualche modo comune anche ai palestinesi mussulmani e a quelli cristiani. È la stessa radice di Abramo. Abramo ebbe due figli, Ismaele e Isacco; dal primo discende la stirpe degli ismaeliti dalla quale i popoli arabi; dal secondo gli Israeliti dai quali il popolo ebraico. Sono fratelli! È come se ogni volta si riproponesse la stessa scena originaria, quella di Caino e Abele.

Guerra tra fratelli

Ogni conflitto, ogni guerra è tra fratelli. Per questo la prima condizione perché ci sia pace è riconoscere che l’altro, anche quando ti è nemico, non smette di essere fratello! E per questo riconoscere l’altro come fratello chiede di concedergli la possibilità di esistere e di esistere come un fratello diverso da te. Per questo la pace non potrà giungere con l’eliminazione dell’altro. Quando Caino uccide Abele non trova la pace, comincia per lui una vita da esiliato, una vita infernale, esposto ad ogni vendetta – e Dio lo proteggerà per questo: “nessuno tocchi Caino”!

La pace non viene con la sconfitta del nemico: che abbia la forma della annessione, che lo riduce a sé; o della rimozione che lo elimina dalla propria vista. Non si creano le condizioni della pace fino a quando i palestinesi pensano di recuperare la loro terra togliendo la possibilità a Israele di esistere (dovremmo essere più cauti verso certi slogan, “dal Giordano al mare” perché significano negare a Israele la possibilità di esistere). E dall’altra parte non ci sarà pace per Israele se non si riconosce ai palestinesi la possibilità di esistere. Occorre anzitutto riconoscere all’altro lo statuto del fratello, anche quando ti è nemico.

La seconda condizione ha a che vedere con le ferite: c’è una pace che ci raggiunge attraverso le ferite. Lo ricordava con parole profetiche Martini proprio parlando del conflitto tra Israele e i palestinesi. Si riferiva all’esperienza profetica di donne – spesso sono loro a custodire una profezia di pace – di entrambe le provenienze che si incontravano proprio a partire dalla ferita di aver perso un figlio o un marito, o un fratello a causa della guerra. È possibile immaginare percorsi di pace se qualcuno che porta un dolore tremendo, riesce nondimeno a restare sensibile per “sentire il dolore dell’altro”.

Questo chiede di uscire da quella sorte di autismo per cui ciascuno continua a reclamare sui propri torti subiti senza dare spazio a quelli dell’altro. In questo senso la pace viene proprio dalle ferite e ha a che vedere con il perdono. Così ha fatto Gesù, quando dalla croce, nel momento di massima vulnerabilità, quando da innocente pativa una violenza incomprensibile, dona parole di perdono per i propri nemici: “Padre perdona loro”.

Qui il perdono ci appare in tutta la sua radicalità come un atto unilaterale e incondizionato! Non aspetta che l’altro faccia il primo passo ma lo compie a proprio rischio e pericolo. Sembra a noi una cosa impossibile: perdonare proprio chi ti ferisce, “a ferita ancora aperta” potremmo dire. Ma proprio questo coraggio apre la strada ad una possibile pace. Quando Gesù dice ai discepoli, “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,23), mi sembra intenda dire proprio questo: ricevere la pace coincide con l’atto del perdono vicendevole. Se non perdoni il torto, il male rimane, non rimesso e vice l’odio sulla pace. Non c’è pace senza perdono: per questo ricevere il dono della pace coincide con l’atto di perdonare.

La pace e noi

Ma ci sono altre considerazioni che vorrei fare sulla seconda parte della scena che il testo ci offre. Se la prima vede come protagonisti i discepoli e le discepole riuniti insieme, nella seconda entra in campo un personaggio singolo, Tommaso. Nella prima scena potremmo riconoscere la pace come un dono e un compito, un lavoro, che riguarda le comunità: di fede, etniche, culturali, politiche ecc. C’è un lavoro delle comunità nella costruzione della pace. Nel secondo caso abbiamo invece un lavoro più soggettivo e personale.

È il cammino di Tommaso. Anche lui non si da pace! E non gli bastano le parole degli altri, deve compiere il suo percorso per ritrovare la pace. È pieno di domande e di questioni aperte. Riguardano anzitutto Gesù, la speranza posta in lui, la sua identità di Messia messa in dubbio dalla sua fine (è tutto finito?), le cose che di lui dicono le donne e i discepoli su una sua presunta risurrezione… molte cose che non riesce ancora a far sue.

Ma poi ci sono le domande su di sé: perché sa bene che nella prova della passione, lui come tutti i discepoli non è stato innocente. Lui che aveva promesso “andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 1116), al momento decisivo è scappato come tutti gli altri. Questo ci dice che nei conflitti e nelle prove della vita, nessuno di noi è innocente. E bisogna fare pace con i propri errori, i propri sbagli e fallimenti, le proprie ferite. Questa pace passa del “toccare le ferite”!

Toccare le ferite, cosa può voler dire? Noi siamo legati all’immagine plastica del Caravaggio che mostra il dito che entra nel costato di Gesù. Il testo evangelico è più sottile e complesso. Certo Gesù invita Tommaso: “metti il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio costato” (Gv 20,27).

Ma insieme lo invita a non essere incredulo e poi loda chi “pur non avendo visto crederanno” (Gv 20,29). Perché c’è sempre la tentazione di cercare una prova incontrovertibile del perdono ricevuto, il bisogno di un segno che vorremmo possedere. C’è modo e modo di intendere il “toccare le ferite”. Potremmo dire che “toccare le ferite” sta insieme al “noli me tangere” (Gv 20,17) detto a Maria Maddalena. Il risorto insieme si espone con le sue ferite e si sottrae ad ogni presa.

Infatti, il testo, di per sé, non dice se e come poi Tommaso le abbia toccare, ma di come subito abbia risposto con la sua professione di fede: “mio Signore e mio Dio”. Forse potremmo dire che “toccare le ferite” è un atto non materialistico ma da compiere nello Spirito: ovvero compiere una rilettura di quelle ferite, di quel trauma che ha segnato la vita di Tommaso.

Rileggere tutto quello che è accaduto da un nuovo punto di vista e riconoscere che quel Gesù che ai suoi occhi era sembrato un fallimento, non era affatto la fine di tutto. Infatti, Giovanni nel suo racconto della passione non ci presenta affatto un Messia sconfitto ma un Gesù glorioso che nella sua fine vive il compimento della propria vita. La morte di Gesù è quella di chi “ama fino alla fine”: muore dicendo “tutto è compiuto” e dona lo Spirito (Gv 19,30).

Anche il suo corpo inchiodato e morto sulla croce continua dare vita e dal suo costato “subito uscì sangue e acqua” (Gv 19,34): il sangue è la sede della vita che ora è interamente donata a noi, e l’acqua è quella sorgente di vita promessa alla Samaritana (Gv 4) e che coincide con il dono dello Spirito (Gv 7,38-39). Il suo corpo crocefisso è pieno di vita e da inizio ad una vita nuova, un perdono che rigenera, un balsamo per le nostre ferite, come aveva profetizzato Isaia: “dalle sue pieghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).

Perdono e mediazione

Dobbiamo lasciarci perdonare! E solo uomini e donne che nella misericordia di Dio, tramite il cuore ferito di Gesù, hanno fatto pace con la propria storia, con le proprie ferite, con i propri nemici, possono diventare costruttori di pace. Solo riconciliati nel cuore possiamo diventare capaci di trovare le necessarie mediazioni per tessere la pace nel cuore di conflitti.

Perché sempre, in ogni situazione di conflitto ci sono “margini di mediazione” che vanno scoperti e percorsi. Le relazioni non sono mai da leggere fissandole rigidamente in un computo di torti e ragioni proprie. Altrimenti restano bloccate: sia le relazioni personali che i conflitti sociali e politici.

Se uno resta fermo nella recriminazione dei torti subiti senza riconoscere il dolore dell’altro non c’è pace per nessuno. Solo uomini e donne con la pace nel cuore sapranno trovare strade concrete per costruire percorsi di riconciliazione. Solo se ci lasciamo perdonare da Dio sapremo donare il perdono ricevuto.

“Pace a voi”, dice il risorto, e apre così la possibilità di non restare prigionieri della paura e di costruire cammini di pace per un mondo in guerra.

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