“Evangelii gaudium”, l’agenda missionaria del pontificato

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papa francesco

Il 24 novembre 2023 si sono celebrati i dieci anni dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Documento programmatico di Francesco che raccoglieva i lavori della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi avente come tema: «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana».

A distanza di un decennio è possibile tracciare un bilancio su questa esortazione che, considerando la sua rilevanza, avrebbe forse meritato maggiori commemorazioni, sebbene non siano mancati eventi che l’hanno ricordata, come quelli della diocesi di Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano; nella sala Quadrivium di Genova con Giuliano Zanchi, direttore della Rivista del Clero Italiano; e l’evento organizzato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.

Eventi celebrativi che avevano tutti come obiettivo quello di riflettere sulla pregnanza che questo documento riveste nel pontificato di Francesco, e, più in generale, sui suoi effetti nella vita della Chiesa. L’impressione è che non tutti, nel mondo cattolico, abbiamo afferrato la portata finanche rivoluzionaria del messaggio contenuto nel testo, che ha riportato l’evangelizzazione al centro della Chiesa e ha rivoluzionato la stessa missiologia.

Un pontificato missionario

Evangelii gaudium ha da subito chiarito quale sia la natura di questo pontificato e quali siano le priorità nell’agenda di papa Francesco. Segnatamente, ha mostrato come la sua intenzione sia quella di operare una trasformazione missionaria della Chiesa che, inevitabilmente, modifica ed ha modificato la stessa missiologia.

In relazione a tali propositi, Francesco sarà indubbiamente ricordato come papa missionario e missiologo, anche per avere ridato attualità a un termine ormai in disuso. In particolare, ha interpretato in modo nuovo la missione e ha indicato le strategie per un’efficace evangelizzazione o ri-evangelizzazione. La teologia, nel suo complesso, non poteva non prendere atto delle indicazioni contenute in un testo così autorevole. Dopo di esso, persino quei teologi di area dogmatica che tendono a marginalizzare la pastorale e la missione, hanno preso atto che la teologia non può più prescindere dal farsi coinvolgere dalle dinamiche di una Chiesa “in uscita”.

Questa esortazione va dunque letta come un segno dei tempi che cerca di rispondere al mandato missionario di Gesù (Mt 28,19-20) prendendo atto che, nel quadro contemporaneo, evangelizzazione e nuova evangelizzazione sono espressione di un’unica necessità pastorale. Con la sua esortazione Francesco ha riattualizzato quanto dice il Concilio Vaticano II rispetto alla natura missionaria della Chiesa, e lo ha fatto parlando non soltanto di Chiesa “in uscita”, ma anche della sua riforma sinodale. Le pagine del documento insistono sul fatto che l’intero corpo ecclesiale è chiamato a evangelizzare, mettendo l’accento sulle motivazioni che devono sorreggere l’impegno missionario, sull’importanza dell’omelia e sulla necessità di includere i poveri coltivando la pace e il dialogo sociale.

Abbracciando sotto l’unico cappello dell’evangelizzazione temi così diversi, Francesco ha di fatto rivoluzionato la missiologia tradizionale. Lo si può affermare perché Evangelii gaudium ha fatto comprendere che la globalizzazione costringe a superare i tradizionali parametri geografici della missione; perché ha inserito nella missiologia tematiche etico-sociali; perché ha associato la missione al dialogo; perché ha dato alla missione una svolta pastorale; e perché ha valorizzato i contesti e il decentramento teologico.

Tra jhad e McMondo

Volendo commentare una per una le inclusioni tematiche menzionate, è necessario riconoscere che la globalizzazione, figlia dell’era digitale e delle migrazioni di massa, ha creato società multietniche e polireligiose.

I suoi effetti sono stati infatti molteplici e di varia natura, perché ad esso si possono ricondurre anche il relativismo morale ed il secolarismo, che a sua volta si manifesta in espressioni tra loro inconiugabili ed opposte, come la crescente indifferenza religiosa, il pluralismo religioso, il sincretismo e le reazioni fondamentaliste.

Come è stato scritto, la globalizzazione è infatti un confronto tra jhad e McMondo. Se da un lato ha avvicinato i popoli, di fatto non li ha uniti e li ha anzi frammentati, creando nuove disuguaglianze economiche. È questo il motivo per il quale, come scrivono i missiologi Bevans e Schroeder, «nell’epoca della globalizzazione, il vangelo deve onorare le culture e i contesti locali e schierarsi con decisione dalla parte della giustizia».

Quando papa Francesco, in Evangelii gaudium, ha parlato dell’economia dell’esclusione, dell’idolatria del denaro, dell’iniquità che genera violenza, della tutela del bene comune, del dialogo come contributo alla pace, ha tratto ispirazione da questa precisa comprensione della missione e l’ha sviluppata ulteriormente. È divenuto palese, in sintesi, che oggi la missione va riprogrammata sugli obiettivi elencati dal papa, assolvendo i quali la missiologia si rende ancor più induttiva e interdisciplinare.

In Evangelii gaudium, il papa argentino ha anche insistentemente parlato di dialogo, sottolineato che il compito primario di una persona che desideri inculturare il vangelo si riconduce alla capacità di costruire relazioni dialogiche. Facendo questa raccomandazione, però, ha semplicemente raccolto l’eredità di Paolo VI, che in Evangelii Nuntiandi aveva già sollecitato tutta la Chiesa a farsi dialogo.

L’imperativo di evangelizzare le culture

Merita segnalare come vari numeri di questo documento missionario siano dedicati al dialogo tra fede e scienza, al dialogo ecumenico, ai rapporti con l’ebraismo, al dialogo interreligioso e persino al diritto alla libertà religiosa.

Con questa Esortazione, in sintesi, Bergoglio ha ridisegnato la missiologia e le ha dato un orientamento pastorale e dialogico. Le sue parole rimarcano infatti come sia necessario passare «da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria», ribadendo che la missione continua ad essere la massima sfida della Chiesa e il paradigma di ogni sua opera.

Il papa definisce «imperioso» il bisogno di evangelizzare non tanto la cultura, al singolare, quanto le culture, al plurale, dimostrandosi così consapevole che le società attuali hanno volti culturali diversi.

Più che un invito, quello di Bergoglio appare dunque essere un appello allarmato, perché, come scrive all’interno dell’esortazione, «non possiamo più rimanere tranquilli, in attesa passiva, dentro le nostre chiese».

In sintesi, è come se Francesco dicesse ad ogni cristiano che non è più data facoltà di nascondersi o procrastinare, invitando così ogni battezzato a riconoscersi in una sorta di “sono missione anch’io”. Nello specifico, Evangelii gaudium differenzia tre livelli di pastorale missionaria: quella ordinaria; quella verso i battezzati che si sono allontanati dalla Chiesa; e quella verso coloro che non conoscono Gesù Cristo.

Raccomandazioni di metodo

Oltre a queste distinzioni programmatiche, Bergoglio ha inserito nel testo anche due raccomandazioni di metodo, sottolineando che la Chiesa «non cresce per proselitismo ma per attrazione» e ribadendo che la dinamica dell’annuncio richiede gioia.

Pur senza parlare di contestualizzazione, il termine “contesto” ritorna molte volte nelle pagine dell’esortazione bergogliana. Già il titolo, rimarcando che il documento magisteriale ha come tema l’evangelizzazione nel “mondo attuale”, sta ad indicare che essa non tratta il tema in astratto, bensì calato nella contemporaneità, ovviamente quella caratterizzata dagli effetti della globalizzazione.

Francesco, però, parla anche di «salutare decentralizzazione», precisazione che si può considerare un sinonimo di contestualizzazione. Fare delle sottolineature di questo tipo, sta ad indicare, essenzialmente, che la missione non può essere esercitata in astratto, ma va sempre esercitata in rapporto alle diverse realtà cui è destinata. Soprattutto nel mondo attuale, quindi, attualizzare non è una mera questione di cortesia, ma la condizione di base affinché la missione abbia successo.

Dichiarare che la missione è sempre e solo contestuale, implica, però, che essa sia la risultante di un incontro e quindi di un dialogo. Quest’ultimo, lungi dall’essere una mera strategia, è in realtà un atteggiamento ontologico che si spiega attraverso le dinamiche dell’antropologia personalista.

Va aggiunto che quando si annuncia il Vangelo in un particolare contesto, quest’ultimo restituirà quello stesso messaggio trasformato e arricchito dal contributo che solo quello specifico ambito culturale può offrire. Ecco perché il dialogo missionario contestuale prende la forma della reciprocità nel dono.

Per una trasformazione della missiologia

Calibrare il messaggio della Chiesa a un determinato contesto – sociale, culturale o religioso che sia –, richiede competenze specifiche. È per questa ragione che esiste la missiologia, la quale non è solo “teologia della missione”, ma una vera è propria facoltà universitaria, a dimostrazione della interdisciplinarietà e della trasversalità di competenze che sono necessarie per mettere in atto un’azione missionaria che sia efficace.

Per meglio dire, ciò che la missiologia aggiunge alla dogmatica, è la sua trasformazione in teologia contestuale. Questa disciplina, infatti, non si limita a “difendere” le verità del cristianesimo – come già fa la teologia fondamentale – ma si incarica altresì di essere “propositiva” e “costruttiva”, soprattutto in ambiti culturali non ancora cristianizzati, ma anche in quelli in cui il cristianesimo ha perso rilevanza. Sotto questo aspetto, la teologia contestuale messa in atto dalla missiologia non è meno concettuale della teologia classica, e si distingue da essa per essere maggiormente pastorale e dialogica.

Nessun’altra branca della teologia sistematica ha vissuto fasi di revisione quanto la teologia della missione, e questo in ragione del fatto che i suoi esperti hanno capito che la missione deve cambiare perché il mondo è cambiato. Chi si occupa della disciplina, ha capito che non ha più senso utilizzare categorie di tipo geografico, ed è più opportuno parlare di ambiti di esperienza umana, a prescindere da dove essi si presentino. Soprattutto, però, quello che è divenuto massimamente evidente in un’epoca di secolarismo e pluralità religiosa, è la necessità che la teologia e la Chiesa abbraccino una complessiva trasformazione “missionaria”.

Con ciò si intende una preoccupazione teologica che metta al centro l’evangelizzazione, e una Chiesa in uscita che si corredi di una pastorale commisurata ai bisogni spirituali del nostro tempo.

Una certa missiologia, del resto, ha fatto il suo tempo e da svariati decenni la missione non è più legata alla salvezza delle anime e nemmeno all’impiantazione di nuove Chiese. L’agire che più la caratterizza attualmente, infatti, è piuttosto l’ascolto. Il missiologo contemporaneo deve “ascoltare” la voce dell’uomo postmoderno e i suoi bisogni esistenziali e spirituali, fornendogli le rassicurazioni e le risposte che cerca.

I poveri, la cultura e le altre religioni

Oltreché sull’ascolto, la missione del nostro tempo deve essere impostata sul dialogo. Quest’ultimo però contempla al suo interno diverse sfaccettature molto diverse tra loro. Il mondo missionario richiede che il dialogo si diriga preferibilmente verso tre ambiti specifici: i poveri, la cultura e le altre religioni.

I due missiologi già citati, Bevans e Schroeder, raccogliendo l’insegnamento di David Bosch, spiegano che «la missione dovrebbe essere caratterizzata innanzitutto come esercizio di dialogo». È il dialogo, infatti, che permette di conoscere le altre religioni non come sistemi astratti, ma come modi di vita vissuti. Attraverso di esso, inoltre, chi crede diversamente può comunque diventare un amico con cui collaborare alla costruzione di un mondo migliore. Va considerato, d’altro canto, che nell’ottica del Regno di Dio il dialogo non è solo un mezzo, ma è già di per sé un fine.

Gli stessi autori, accanto al sostantivo dialogo, sono soliti porre l’aggettivo “profetico”. Entrambi, infatti, insistono sul fatto che la missiologia contemporanea dovrebbe esprimersi attraverso un dialogo profetico, intendendo con ciò l’interpretazione critica dei segni dei tempi. In quanto “profetica”, comunque, una tale azione dialogica non può che essere “attiva”, e spiega, pertanto, come mai la missiologia contemporanea stia vivendo una svolta pastorale.

Aggettivare il dialogo come profetico, inoltre, sta anche ad indicare che la missione deve sempre prendere il volto della riconciliazione, a tutti i livelli: personale, familiare, culturale, politico ed ecclesiale.

Dialogare, però, significa in primo luogo entrare in relazione con le culture e con le religioni. Ciò è diventato tanto più inevitabile in un mondo che, rimpicciolito dalla globalizzazione, ha manifestato tutta la sua varietà religiosa e tutta la sua complessità. Una missione cristiana monotona, espressione di un solo punto di vista, di un solo linguaggio, di una sola prospettiva, di una sola sensibilità, di una sola cultura, non sarebbe in grado di dare agli uomini che abitano un mondo così articolato e complesso quella pienezza di senso che essi cercano.

È questo il motivo per il quale la missiologia attuale critica apertamente la missiologia del passato, che pretendeva di essere universale universalizzando una teologia elaborata solo a livello locale, nel caso specifico nel contesto dell’Europa. Oggi, in presenza di un maggiore rispetto dell’alterità, e con il recente apprezzamento dei valori del dialogo, è nata quasi in modo spontaneo la necessità di creare una teologia interculturale. Senza di essa, del resto, sarà difficile per la Chiesa riuscire a difendersi dall’accusa di neocolonialismo o di cripto razzismo culturale. Si capisce, pertanto, come mai − molto più di altre discipline − la missiologia richieda una miscela di umiltà e audacia, ma anche profonda e autentica spiritualità, perché solo Spirito apre orizzonti insperati e arriva dove la dialettica della ragione non può arrivare.

Una distinzione feconda

Per elaborare una teologia interculturale, e più in generale una nuova teologia della missione, risulta fecondo valorizzare la distinzione proposta da Bernard Lonergan tra cultura classica e cultura empirica. Fino a tempi recentissimi, la teologia si è ancorata a una concezione classicista di cultura. La missiologia contemporanea, invece, sta imparando a coltivare un concetto empirista di cultura, intesa come complesso di significati e valori che informano un modo di vita. È chiaro, rispetto alla distinzione richiamata, che se si concepisce la cultura in modo empirico, anziché classico, il dialogo diventa più facile, perché quel modello, a differenza di quello classico, è ugualitario. Esso non è normativo, non è universale e non considera una determinata cultura una sorta di conquista permanente e immodificabile.

Una missiologia basata sul modello empirista di cultura, risulta dunque maggiormente dinamica e flessibile, oltreché dialogica. Essa rende molto più facile l’inculturazione perché non prende la forma di un’imposizione culturale, ma di un inserimento e di un adattamento alle dinamiche di vita e di senso che sono proprie ad altre società. Rispetto a questo obiettivo, la consapevolezza di massima che sempre deve accompagnare il lavoro missionario, è che il Vangelo non incontra mai un popolo nel vuoto, ed occorre entrare nella cultura di quel popolo come in un giardino.

Come inculturare il Vangelo, quindi, non è un tema periferico o il cliché di un club di teologi progressisti, ma l’orizzonte su cui si decide il destino della Chiesa. Essa è la questione più rilevante dell’evangelizzazione contemporanea, perché dal fallimento o dal successo dell’inculturazione dipende il futuro dello stesso cristianesimo. Tuttavia, come scriveva Giovanni Paolo II riflettendo su queste tematiche, l’inculturazione non è solo un cammino lento, ma è anche un processo difficile che produce sofferenza.

Ciò lo si evince anche dai cambiamenti lessicali. Il termine “in-culturazione”, ad esempio, negli ultimi anni appare viepiù inadeguato ed è oggi in via di superamento. Il prefisso “in”, infatti, risente della preposizione “ad”, e rinvia a un “andare verso” da una determinata posizione, rappresentata ovviamente dal cristianesimo così come si è sviluppato in Occidente. Questa visione, però, al netto del fatto che le basi giudaiche non sono relativizzabili, è saltata sia su un piano teologico sia su un piano storico.

Sul piano teologico, questa prospettiva non regge più da quando il Concilio ha affermato che nelle altre civiltà religiose sono presenti semi del Verbo e raggi della Verità. Sul piano storico, invece, non regge da quando la maggioranza dei cattolici non è più in Europa, e digitalizzazione, globalizzazione e immigrazione hanno mutato tutte le società del globo terrestre. Il termine “ad-gentes” dovrebbe essere sostituito con “inter-gentes”, mentre il termine “in-culturazione” deve essere sostituito con “inter-culturalità”. Quest’ultimo concetto, rende meglio l’idea dello scambio reciproco e del muto beneficio, oltre al fatto che, oggettivamente, nelle società odierne sperimentiamo da tempo un meticciato etnico, linguistico, culturale, religioso e teologico.

Si comprende, dunque, perché la missiologia viva la triplice evoluzione verso il dialogo, la pastorale e l’interculturalità di cui si diceva sopra. È solo attraverso queste tre integrazioni, infatti, che diviene possibile rispondere adeguatamente alle sfide, come direbbe papa Francesco, non di un’epoca di cambiamenti ma di un cambiamento d’epoca. Sono inoltre parimenti queste le ragioni per le quali la missione è oggi diventata una realtà stereofonica che, come spiega Evangelii gaudium, si dispiega in ambiti e contesti tra loro molto diversificati.

Una teologia per l’evangelizzazione

In sintesi, il testo programmatico bergogliano va considerato il punto di partenza per ripensare in modo nuovo la teologia della missione e persino la Chiesa, che essa invita concepire non più in modo centralizzato ma “sinodale”. A partire da questa esortazione, è dunque possibile tornare a riflettere su quale possa essere la migliore teologia per la missiologia contemporanea, ma anche quale sia la più efficace strategia missionaria di una teologia che intenda aprirsi al mondo attuale.

Riflettendo su questi imperativi, è necessario tornare a ribadire che la missione, intesa come continuazione della stessa missione della Trinità; come continuazione della missione di Gesù che annuncia il Regno; come continuazione nella proclamazione dell’annuncio che Cristo è salvatore del mondo, non passerà mai. Ciò nondimeno, però, le forme di pensiero attraverso le quali viene comunicato il Vangelo variano, e devono variare, in base alle culture a cui esso è destinato. Compito precipuo della missiologia, pertanto, diventa lo stabilire che cosa, quanto e come si possano adattare i fondamenti della dottrina alle diverse civiltà umane.

Il missionario, secondo le tre definizioni di missione citate, è colui che rispondendo alla propria vocazione partecipa la stessa vita del Dio trinitario; libera nella misura in cui Cristo è stato liberatore; e salva nella misura in cui testimonia il mistero della croce. Nello svolgere queste attività, però, per il missionario diviene costantemente necessario svolgere un “dialogo contestuale”. È solo attraverso di esso, infatti, che può entrare in una relazione reale con le società che intende evangelizzare. Non c’è pertanto contrapposizione tra missione – intesa come annuncio della Rivelazione –, e dialogo, perché l’essere e l’azione stessa di Dio sono dialogici.

Una relazione di tipo dialogico, anche con religioni molto lontane dalla tradizione cristiana, è sempre teoricamente possibile perché la presenza della grazia salvifica di Dio non è confinata all’interno della Chiesa e a ciascun uomo è dato di potere venire a contatto col mistero pasquale (cf. GS 22). La teologia delle religioni, che negli ultimi anni ha riscoperto la pneumatologia, ha riconosciuto che lo Spirito di Dio è costantemente all’opera in luoghi inaspettati e in modi che sorpassano la comprensione umana. Sotto questo aspetto, uscire verso l’incontro con l’altro può riservare delle sorprese ed aprire ad un nuovo modo di comprendere la profondità e il mistero della propria fede.

In particolare l’uscita missionaria, e quindi il confronto diretto con i molteplici contesti umani, culturali e religiosi, chiede sempre alla teologia della missione di ripensare in modo nuovo le domande centrali che caratterizzano il cristianesimo. Quest’ultimo, infatti, lo si può sintetizzare in alcune nozione di base: il mistero di Cristo, la natura della Chiesa, il futuro dell’uomo secondo le scritture bibliche o la natura della salvezza annunciata dal Vangelo.

Chi si occupa di missiologia, sollecitato dalla sensibilità, dal linguaggio e dalla cultura religiosa o filosofica in cui si trova inviato – spesso diversissime e inconiugabili con la cultura religiosa e filosofica cristiana – ha dunque il compito della “forma”. Per meglio dire, pur rimanendo invariabile la sostanza (della dottrina), egli la deve modellare al fine di dare al messaggio cristiano una presentazione formale che sia significativa e coinvolgente per la cultura in cui sta operando.

Questa rinarrazione dei misteri cristiani, o meglio questa loro esposizione contestualizzata, può essere operata dalla teologia secondo tre diverse sensibilità. Sebbene in duemila anni di storia la chiesa abbia assistito ad una proliferazione di teologie, ci sono sempre state, infatti, tre diverse sensibilità nella trasmissione della dottrina cristiana: una più tradizionalista; una più liberale; ed una più orientata alla liberazione storica.

La preoccupazione della prima era, ed è, di natura prettamente soteriologica, perché da sempre mirata alla comunicazione che Cristo è l’unico e vero salvatore del mondo. L’orientamento della seconda, distinguendosi nettamente dal precedente, è invece proiettato verso il raggiungimento di una verità che non è mai totale e disvelata in modo evidente. Nel porsi tale obiettivo, questa linea teologica recupera, almeno in parte, il potenziale contributo che possono dare le culture e le religioni, nell’ottica, se non di un’evoluzione del dogma, di un necessario e continuo sviluppo della dottrina. La terza prospettiva, invece, ha sempre guardato con maggiore attenzione alla storia, ai suoi drammi e al suo bisogno di liberazione, pace e giustizia, optando così verso un orientamento maggiormente ortopratico.

L’importanza di pensare modelli diversi

Un’evangelizzazione e una missione che operino nel mondo attuale, quindi, dovrebbero chiedersi quale sia il miglior approccio teologico per il nostro tempo e per i suoi vari e variabili contesti. Nessuna di queste tre sensibilità programmatiche, però, può essere totalmente ignorata, ed è anche possibile combinarle tra loro.

Il teologo, quindi, dopo aver analizzato le necessità e le particolarità del contesto, è chiamato a scegliere quali debbano essere le priorità e le strategie del suo agire missionario. L’unico errore che egli deve evitare, è quello di utilizzare un unico modello di missione e di teologia per tutti i contesti, come se tutte le realtà culturali e sociali fossero uguali e ciascuna di esse non richiedesse adeguamenti specifici.

A prescindere, comunque, dalle diverse sensibilità con cui si può approcciare la missione, essa deve conservare sempre quattro imperativi: l’annuncio, il dialogo, la liberazione dei poveri e l’inculturazione. Negli ultimi anni, ciascuno di questi quattro ambiti sono stati oggetto di riflessione teologica, indubbiamente, però, quello che è stato al centro dei ripensamenti più radicali, è stato soprattutto l’ultimo: l’inculturazione.

Sono vari, al riguardo, i modelli di inculturazione che sono stati elaborati. Si possono infatti privilegiare, o enfatizzare, diverse piste di azione, da quella che si concentra sulla traduzione rigida della tradizione dogmatica, all’ortoprassi di chi privilegia la liberazione e i valori del Regno di Dio. È anche possibile scegliere un approccio più antropologico, soprattutto in contesti non strutturati culturalmente, o, all’opposto, assumere un atteggiamento controculturale, adatto soprattutto nei contesti secolarizzati nei quali è necessario vagliare in modo critico, alla luce del Vangelo, talune esasperazioni del relativismo etico e religioso contemporanei. Alcuni missionari possono invece scegliere un posizionamento dialogico o trascendentale, enfatizzando l’incontro e la relazione, mentre altri possono valutare un approccio più sintetico, per stabilire, di volta in volta, quale possa essere l’espressione di cristianesimo più adeguata ad una determinata cultura.

Nessuno di questi modelli è però assoluto, perché la missione richiede flessibilità, creatività, immaginazione e adattabilità al contesto. L’insegnamento dottrinario elaborato dal teologo, va dunque filtrato dal missiologo, che è consapevole di come non esista un modo di evangelizzare che vada bene per tutti i contesti. È questo il compito della missiologia, e la natura ultima che distingue questa disciplina dalla teologia, proprio perché la sua prima mansione è quella di conoscere i diversi ambienti storico-sociali e culturali tarando poi l’annuncio della dottrina su quelle particolari contestualità.

Traghettare la dottrina nel contesto

La teologia ha dunque bisogno della missiologia per farsi missionaria. Senza rivestire questo abito, rimarrebbe monocromatica, monovisuale e monoculturale. Sarebbe come imprigionata in un monologo che non incontra realmente l’altro e non rende comprensibile e significativo il cristianesimo. Senza la missiologia, potremmo dire, la teologia rischierebbe l’irrilevanza storica, né potrebbe confrontarsi al meglio con le domande e le esigenze dell’uomo contemporaneo, a prescindere dalla cultura di appartenenza.

Un annuncio teologico che si limitasse a ripetere una tradizione nata in Occidente e formulata con linguaggio e categorie occidentali, ignorando la diversità degli idiomi, delle culture, delle precomprensioni e delle visioni del mondo, ha poche speranze di mettere radici in civiltà diverse da quella occidentale. Sebbene i fondamenti della dottrina (cattolica) debbano essere custoditi con cura, a nulla servirebbe quel ricco patrimonio dogmatico se risultasse espressione di un particolarismo culturale e di un’autoreferenzialità che non si coinvolge e non dialoga.

Il servizio che la missiologia rende alla teologia e alla Chiesa tutta, è esattamente quello di traghettare la dottrina nel contesto, facendo sì che l’annuncio diventi vitale, credibile e significativo. Tuttavia, proprio perché si incarica di un compito di adattamento, di rilettura e di ripresentazione dei dogmi in base ai contesti, il lavoro del missionario è stato talvolta letto come un attentato “all’identità”.

Dovendo affrontare tale sospetto, la missiologia − più di altre discipline della sistematica − si interroga su che cosa sia l’identità cristiana, in che cosa consista e a che cosa debba essere essenzialmente ancorata. Rispetto a questo interrogativo, nella Chiesa non sono pochi coloro che rivendicano la necessità di mantenere i fondamenti della dottrina nella forma in cui sono stati pensati ed espressi dall’Occidente. Difendere una tale linea, è compito del teologo dogmatico, ma il teologo missionario non sarebbe tale se ignorasse che la dottrina della Chiesa è in realtà espressione di una sola cultura e che, dopo duemila anni, il cristianesimo attende ancora di essere ripensato secondo categorie non-occidentali.

Un’autentica universalizzazione del cristianesimo – nel mondo post coloniale necessaria come non mai –, dovrebbe invece passare attraverso l’appropriazione di altri linguaggi e la riformulazione della fede attraverso la sensibilità di cui sono espressione, come peraltro invitava a fare anche Giovanni Paolo II (cf. FR 72). Va ribadito, infatti, che mentre la Parola di Gesù può essere assolutizzata, così non è per le coordinate e le categorie attraverso le quali la fede in essa è stata trasmessa nei secoli, soprattutto nei paesi occidentali o di colonizzazione occidentale.

Una tale operazione è possibile, ed anzi necessaria, perché il missiologo è sempre chiamato a distinguere tra un nocciolo immutabile – ovviamente il Vangelo – e la forma esterna ed accidentale attraverso la quale è stato pensato nei secoli, soprattutto in determinati domini culturali. Volendolo definire attraverso il suo lavoro concettuale, il missiologo è pertanto colui che si chiede “che cos’è la Tradizione?”; “quanto di essa è fondamentale e quanto di essa è accidentale?”; “che cosa si può modificare o adattare?”; “quali sovrastrutture si sono venute a creare occidentalizzando (o latinizzando) il Vangelo?”.

Avamposto, apripista e profezia

In sintesi, quindi, sebbene la missiologia svolga un servizio delicato e difficile – e a tratti ambiguo – è lei che decide il destino della Chiesa, in termini e funzioni complementari alla missione, che crea le premesse per la sua espansione e la sua crescita futura. Possiamo pertanto dire che la missiologia nasce dalla teologia, ma poi la traghetta in orizzonti a lei sconosciuti.

Il suo pensiero teologico del missiologo è sempre avamposto, apripista e profezia. È chiaro, inoltre, che avendo un ritmo induttivo ed una direzione in uscita, la speculazione di quest’ultimo va come in avanscoperta, esponendosi così a possibili azzardi e insufficienze, talvolta persino errori. Questo è, potremmo dire, l’inevitabile prezzo dell’annuncio, che però non deve frenare l’intraprendenza del missiologo, a cui mai deve fare difetto una grande dose di coraggio. D’altro canto, se l’“adattamento” può essere talvolta “rischioso” per l’identità cristiana, per la Chiesa sarebbe un rischio ancor più grave continuare a ripetere formule che non dicono più nulla all’uomo secolarizzato della contemporaneità e ancor meno a quello che proviene da altre culture religiose.

Una teologia – senza missione – che non “esce”, rischia di diventare espressione di una visione ecclesiale solipsistica, che non “incontra” e non “affronta”. Essa sarebbe espressione di una Chiesa che rischia l’isolamento perché rimane “non capita” e “non progredisce”. In altre parole, un timore eccessivo di smarrire o contaminare la propria identità tradizionale, può avere come conseguenza l’irrilevanza pubblica.

Al contrario, per essere significativa nel contesto attuale, la missione deve passare attraverso un accomodamento che può assumere una duplice e opposta forma: quella dello sviluppo della dottrina, sulla linea dei frequenti richiami di Francesco a Vincenzo di Lerino; oppure quella della semplificazione, sulla scia dei molti missionari che hanno ribadito come una missione efficace richieda un ritorno all’essenza dell’annuncio e al suo riferimento biblico. Cristo e il suo vangelo, infatti, non possono apparire estranei a nessun uomo, ma talune istituzionalizzazioni figlie della cultura romana, o talune formulazioni linguistiche legate alla filosofia occidentale, devono essere modificate per riuscire comprensibili, soprattutto a chi condivide altri universi culturali.

Oltre alla semplificazione, una missione adeguata al nostro tempo richiede però un vero e proprio ripensamento delle strutture della Chiesa e una diversa esposizione delle sue dottrine. Serve oggi una grammatica attualizzata e attualizzante, affinché si creino le condizioni per un autentico sviluppo della dottrina. La guerra al secolarismo, infatti, compreso il confronto odierno con la pluralità religiosa, non si vince con una strategia “da trincea”. Per vincere tale sfida, all’opposto, la Chiesa dovrà “comunicarsi” in modo nuovo, e ancor più “ripensarsi”.

L’attuale cammino sinodale va esattamente in questa direzione, e risulta funzionale alle necessità di un cristianesimo che sta riscoprendo l’importanza della missione per tornare a essere significativo in Occidente e penetrante nei luoghi dove ancora oggi, per vari motivi, non è arrivato.

La trasformazione missionaria auspicata da Francesco in Evangelii gaudium, comunque, non potrà trovare compimento e realizzazione senza un’adeguata spiritualità. Egli stesso, nella sua esortazione, lo evidenzia. Lo Spirito, infatti, crea ponti e dialogo anche là dove la dialettica teologica sembra non trovare appigli. Una consapevole spiritualità missionaria aiuta perché insegna a “lasciar perdere” e a “parlare chiaro”. Attraverso di essa, cioè, diviene possibile abbandonare sovrastrutture ed illusori complessi di superiorità, maturando al contempo fiducia nella forza della semplice evidenza del Vangelo.

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