
In questi giorni, mi sono imbattuto di nuovo in un testo di Simone Weil,[1] la lettera scritta a padre Jean Couturier OP, pochi mesi prima della sua morte. Una sequenza di domande che, credo, complichi ancora oggi la vita di molti teologi seri. Ma sono le considerazioni di Simone sulla sventura che mi hanno subito invitato alla meditazione e al dialogo.
Di fronte alla sventura
«La misericordia di Dio – scrive Simone Weil – si manifesta nella sventura come nella gioia, allo stesso titolo e forse anche di più, perché sotto questo aspetto non ha nulla di analogo fra gli uomini. La misericordia umana appare soltanto nel dare gioia, oppure nell’infliggere un dolore con l’intento di ottenere effetti esteriori, come la guarigione del corpo o l’educazione. Ma non sono gli effetti esteriori della sventura che testimoniano la misericordia divina.
Gli effetti esteriori della vera sventura sono quasi sempre cattivi e, quando li si vuol dissimulare, si mente. Ma è proprio nella sventura che risplende la misericordia di Dio; nel profondo, nel centro della sua inconsolabile amarezza. Se, perseverando nell’amore, si cade fino al punto in cui l’anima non può più trattenere il grido: Mio Dio, perché mi hai abbandonato? Se si rimane in quel punto senza cessare di amare, si finisce col toccare qualcosa che non è più la sventura, che non è la gioia, ma è l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, cioè l’amore stesso di Dio. …C’è soltanto un’occasione nella quale veramente smarrisco questa certezza: quando incontro la sventura altrui, anche quella di chi mi è indifferente, di chi mi è sconosciuto (e forse persino di più), compresa la sventura dei secoli passati, anche dei più lontani. Questo contatto mi procura un male così atroce, mi trafigge talmente l’anima da parte a parte, che, per qualche tempo, amare Dio mi diventa quasi impossibile. Manca poco che non dica impossibile. Al punto che me ne preoccupo per me stessa. Mi rassicura un poco il ricordo di Cristo che ha pianto nel prevedere gli orrori del saccheggio di Gerusalemme».[2]
Il silenzio di Dio
Mi pare di essere spinto, sempre e con forza, alla convinzione che il silenzio di Dio mi appare sensato solamente quando sono invaso dallo stupore riconoscente di essere vivo e dalla bellezza, verità e bene che la vita ci regala. Ma quando sono obbligato ad accettare la sventura, il lutto, la fragilità, i miei tradimenti, il passato, il limite, la malattia, il dolore, questo silenzio può anche farmi dubitare dell’Amore.
Eppure, è solamente nella durezza di questo silenzio che possiamo far tacere domande che non trovano risposta e silenziosamente abbandonarci alla compagnia di Gesù di Nazareth, il “figlio dell’uomo” che, immerso nell’assenza scandalosa di Abbà, affronta la sventura e beve il calice dell’ira fino in fondo.
E l’unico calice che Gesù ci riserva non è più il calice dell’ira, ma il calice del suo sangue: prendete e bevetene tutti… fate questo in memoria di me. Così anche la sventura estrema non potrà più essere l’evidenza dell’ira di un dio offeso che giudica, condanna e castiga atrocemente, bensì la porta che si apre sulla vita amorosamente riconciliata e risuscitata in Gesù.
Non è per me possibile, però, ridurre la mia vita alle anguste dimensioni della mia interiorità. È infatti inevitabile riconoscere che la storia umana è una sequenza di sventure, che non è certamente possibile affrontare con la stoica accettazione del dolore. Non mi sembra maturità esistenziale la condizione di vivere prigionieri in ambiti individualisti e domestici, che ci assolvono dalle nostre irresponsabilità.
Sapere passivamente e cinicamente che la storia è una successione inevitabile di violenze immutabili e non agire, è narcisismo che chiude il cuore davanti al dolore e alla sofferenza dei poveri, dell’umanità, della Creazione.
La storia umana pare davvero condannata a ripetersi di tragedia in tragedia, e potremmo essere tentati di accettare la sventura senza opporci alla legge ferrea che governa il mondo con la violenza e la guerra. Ci dimenticheremmo del vero, del bello e del bene, che molti fratelli e sorelle si ostinano a seminare, nonostante tutte le smentite.
È la croce la vittoria di Cristo
Se l’integrazione e l’accomodamento al mondo così com’è è l’obiettivo di ogni pedagogia acritica, prima o poi dovremmo ribellarci al progetto alienante, che ci abilita a tradirci, rinunciando alle sfide etiche e politiche, sorretti dallo stupido pensiero che la soluzione starebbe nella capacità di saper vivere al mondo.
In questa prospettiva, l’accettazione della sventura è profondamente legata all’Amore crocefisso di Gesù, che non può – e la Chiesa non avrebbe mai potuto farlo – lottare contro il male, con le armi dei potenti e dei loro troni: Gesù è fragile, impotente e disarmato, davanti ai Sinedri e ai Pilato, ai Templi e agli Imperi di oggi e di ogni stagione della storia.
Gesù sta in silenzio davanti al sommo sacerdote: non un silenzio impotente, non un conformarsi sottomesso, ma un silenzio che sfida e contesta l’autorità assassina.
La Croce è la sua vittoria, che può essere anche nostra, il suo e il nostro risorgere, insistendo nel desiderio indomito di denunciare la violenza e, disarmati, difenderci dalla prepotenza mortifera dei nemici della vita.
[1] Weil Simone, Attesa di Dio, Rusconi, Milano, 1996.
[2] Op.cit. 6. Ultimi pensieri, 26 maggio 1942, da Casablanca.






La riflessione di Simone Weil è molto bella e toccante. Il silenzio di Dio e soprattutto la Sua inerzia è evidente nella vita di ciascuno e nella storia. Si vuole cercare la risposta nella croce ma la croce non è la risposta bensì è e rimane la domanda. Posso dirlo perché ho vissuto la sofferenza nel mio corpo, nella mia mente e nel mio animo e posso dire che la sofferenza non salva da sola e può portare alla disperazione e anche all’ateismo. Dico che se rimane l’amore la sofferenza può avere un senso e comunque rimane l’assenza di Dio. Considerare che la salvezza propria e quella di tante anime è nella sofferenza propria è il rinnegamento della misericordia di Dio. Può dio godere nel vedere soffrire le sue creature. Forse un padre o una madre godono nel vedere soffrire i propri figli e se avviene si dice che è una perversione, allora dio sarebbe un pervertito. Penso che quando si ritiene che la sofferenza sia salvifica è un riflesso della nostra perversione. La domanda imprecatoria di Gesù: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” può trovare risposta solo nella Sua misericordia sulla croce e nella Sua Risurrezione.
Tutto molto bello ma anche molto frustrante perché nulla cambia. Gli uomini usano sempre violenza verso i vari Gesù del mondo che muoiono a volte nemmeno riconosciuti. So che Dio nulla perde di quanto c’è di buono ma il mondo quando migliorerà davvero? Possiamo solo sperare.