
Con il suo breve intervento su Nicea Fabrizio Mastrofini lancia una provocazione importante – rivolta certo principalmente alla teologia, ma che coinvolge anche la fede di ogni credente cristiano (cf. Settimananews, qui). E mette il dito nella piaga: limitarsi a ripetere le parole del dogma, farne l’esegesi, impegnarsi in una sua ricostruzione storica, non basta.
Tutto questo, dice con ragione Mastrofini, rimane irrilevante per la fede dei cristiani che vivono nel mondo contemporaneo. La sua proposta, paradossale, afferma la necessità di lasciarsi alle spalle il dogma per fare un passo indietro rispetto a esso – ossia, entrare in un corpo a corpo con le Scritture che sono memoria di Gesù.
Passo dogmaticamente ineccepibile, anche secondo i criteri della teologia di scuola e non solo in ragione del Vaticano II: il dogma, infatti, è rigorosamente normato dall’attestazione della Scrittura – e non viceversa. Più ortodossi di così non si può essere.
Eppure, nel velo di irriverenza del suo contributo, Mastrofini mette in risalto una sorta di aporia della storia del pensiero cristiano e della parola autorevole della Chiesa: al dogma consentiamo molto meno di quello che potrebbe e vorrebbe essere.
Lo abbiamo ridotto a funzione assicurativa, facendone una sorta di limite invalicabile della fede costringendolo a vivere solo della mera ripetizione letterale di sé stesso.
Alla Scrittura, che è parola stessa di Dio, concediamo molto più respiro – permettendole di mettersi alla prova nel confronto con la vita quotidiana della fede nell’oggi della vita del mondo.
Eppure il dogma, e in particolare il testo del Concilio di Nicea, rappresenta la manifestazione di un azzardo culturale della fede che rischia di rimanere senza pari – un gesto di coraggio, di quella libertà della fede richiesta dal senso stesso di Dio iscritto nelle Scritture che consegnano il vissuto di Gesù alla contemporaneità del credere.
Nicea dice proprio questo: la fede non può limitarsi a ripetere, neanche il testo sacro delle Scritture cristiane, ma deve essere all’altezza di inventare una nuova narrazione affinché quelle Scritture possano entrare in contatto diretto con l’ambiente sociale e culturale che non è più quello del gruppo dei primi discepoli e discepole del Signore.
Fosse anche solo per questo, Nicea rimane decisivo anche per l’oggi della nostra fede. Proprio perché ha fatto qualcosa che noi oggi, come comunità ecclesiale, non riusciamo più a fare. E ne pervertiamo il senso quando affermiamo che non lo possiamo fare proprio in ragione del Concilio di Nicea stesso.
La notizia (buona) di Nicea è proprio questa: ci autorizza, anzi ci ingiunge, di avere quell’intelligenza e quella libertà della fede per dire oggi del Dio di Gesù nei variegati contesti dell’umanità contemporanea.
Ma credo che Nicea abbia fatto, e continui a fare, più di questo. Ha osato affermare l’identità e l’identificazione di Dio con il vissuto e i gesti di Gesù di Nazareth.
Rispondendo alla domanda: dove è Dio? Nelle pratiche quotidiane del Crocifisso o nella potenza ammaliante dei Cesari di turno? Con una semplica parola, Nicea sceglie per la prima opzione – e lo fa al cospetto del nuovo Cesare che cerca nella religione cristiana il potere di una nuova coesione sociale a lui indispensabile.
Questa capacità di affermare, davanti alle potenze mondane e alle sirene che vorrebbero ammaliare la fede, che il Dio di Gesù non è dalla loro parte, è di un’attualità sconvolgente per il nostro mondo di oggi – dove, a Oriente e Occidente, il cristianesimo sembra trovarsi più a suo agio con i nuovi epigoni di Cesare anziché con l’uomo della Croce – ultima parola del Dio di Gesù.
Quando Nicea dice che Gesù è della “stessa sostanza del Padre… generato e non creato”, dice che il Dio cristiano è capace di un eccesso di amore e tenerezza di cui “non si può pensare nulla di più grande”. Di un Concilio che afferma che la dedizione e la cura di Dio non hanno limiti, sono letteralmente impensabili, abbiamo fatto una sorta di lucchetto per controllare questo eccesso che è il Dio di Gesù.
Davanti a questo, Mastrofini ha ragione: la storia del dogma, o meglio l’uso ecclesiale del dogma cristiano, ha finito per diventare una sorta di rieducazione ecclesiastica di Dio: siccome Tu sei eccessivo, e quindi ingovernabile, adesso ti diciamo noi come devi essere per poter essere Dio. E non devi sgarrare, perché se esci dal perimetro che noi, uomini maschi di Chiesa, abbiamo pensato per Te ne pagherai le conseguenze.
E noi ci accoderemo con ossequio al servizio dei Cesari di sempre anziché ammirarti nelle pratiche eccessive della dedizione del Figlio.






Leggo solo oggi, con ritardo. Grazie a Marcello Neri, che mostra come si possono proporre ottimi e stimolanti ragionamenti teologici anche nello spazio di poche cartelle.
Oltre ai contributi dell’autore e di F. Mastrofini, importanti le considerazioni di Giuseppe Guglielmi sul concetto di dogma (fondamentale la precisazione al punto 2). Il credo di Nicea oggi viene troppo spesso ipostatizzato (non è così per i vangeli, per esempio). Spesso certi testi vengono più venerati che conosciuti nella loro genesi storica e questo espone al rischio di considerarli intoccabili, indiscutibili. Il testo del credo doveva invece servire come punto d’incontro e base teologica più o meno condivisa. Non era un testo intoccabile: questo fatto era chiaro nel IV secolo. La prova? A Costantinopoli I non si è esitato a intervenire anche pesantemente sul credo niceno. Appunto perché non lo si ipostatizzava.
P.s.: mi fa piacere segnalare un recente volume di S. Fernandez, “Le fonti antiche sul Concilio di Nicea” (Roma 2025), con traduzione italiana delle fonti a cura di S. Contini. Il volume è apparso nella collana “Nuovi testi patristici” condiretta da E. Prinzivalli e da me. Il volume è uno strumento preziosissimo per lo studio di Nicea.
Grazie
Il carattere specifico del Vangelo , è la buona Notizia che il Male e la Morte non hanno la ultima parola,ma possono essere vinti anche con la partecipazuone umana capace di ordinare a Giustizia l’immanente ,Giustizia conditio sine qua non della Salvezza dalla Mortr cioe dal Male che sarebbe inevitabile.
Come scrisse Tommaso:Gratia naturam non tollit,sed perfecit;!
Avanti insieme per il.Regno della Trinità Teandrica!
Sono molto molto d’accordo con Neri e Mastrofini. In quella direzione mi sono espresso in un mio recente saggio.
La domanda sul servizio del niceno primo alla nostra odierna realtà è un interrogativo provocatorio, primariamente perché è proprio l’attuale società occidentale, imperniata sull’economia e sul ommercio, che si chiede a cosa è utile la fede -ammesso che sia una questione che ha a che vedere col fatto religioso-; in secondo luogo, perché spinge i credenti a trovare una risposta, come Lei ha cercato di fare con il suo articolo.
Sarei comunque più accorto nell’identificare la parola di Dio con la sacra scrittura, perché quest’ultima è il mezzo di cui la Parola si è servita per non scomparire dalla faccia della terra.
Il ragionamento di Mastrofini ha senso fino ad un certo punto. È a partire dall’ultimo dogma che si impone quella rieducazione ecclesiale. A mio modo di vedere c’e ancora tanta teologia da elaborare rimanendo nel perimetro del dogma, stando dentro e scavando. Cosa vuol dire per l’oggi che c’è un umano che sa di divino (Cristo vero Dio e vero uomo per fare un esempio)? C’e ancora tanto da esplorare teologicamente dentro il dogma!
1. Quando si riflette (e in teologia si dovrebbe fare ciò) il “perimetro” è la ragione, non il dogma…
2. Se il dogma è inteso come modalità di annuncio del vangelo nella propria cultura, se cioè si ammettono i presupposti culturali del dogma, allora il dogma non ha il senso del “perimetro” o, per dirla con l’Autore dell’articolo, del “lucchetto”.
3. Se per dogma intendiamo tutti gli enunciati che, pur avendo avuto una “occasione” storica, una volta pronunciati non sono più rivedibili, allora dobbiamo ammettere che le vicende storiche successive (la modernità) sono sfortunate… devono essere ridotte entro il dispositivo dogmatico classico. Vanno allora bene lucchetti, chiavistelli, password, percorsi a senso unico, velati entro l’artificio retorico dell’ “approfondimento”
La teologia ha come fonti, credo lei lo sappia, la Scrittura è la Tradizione (e quindi anche i dogmi). La ragione serve, come in ogni scienza, a rendere ragionevole il discorso quanto viene affermato e, quindi, discutibile, per certi versi confutabile. Pertanto dal dogma si può partire per fare teologia ed è questo il bello della teologia.
Io tendo sempre a paragonare il dogma ad un postulato. Sei in grado di disegnare le infinite rette che passano per un punto? Oppure puoi dimostrare che veramente si risorge? Sono appunto enunciati che prendi per veri, attraverso una volontà intellettuale che li riconosce come tali (cioè indimostrabili) e da lì costruisce tutto l’edificio.
Se cambi dogma (o postulati) cambi tutto l’edificio successivo. (ad esempio la geometria euclidea si chiama così proprio perchè va al di là dei classici postulati di Euclide.)
Detto ciò in questo particolare momento storico il significato più interessante di Nicea è ecumenico: è uno dei concili più antichi che tutte le Chiese ancora riconoscono.
La metafora geometrica non tiene perché per arrivare al dogma i padri conciliari hanno usato la ragione che sotto l’azione dello Spirito Santo li ha portati a formulare il dogma.
Anche i postulati matematici hanno una qualche influenza “platonica”. Almeno secondo alcuni matematici come Penrose, la ragione li “riconosce” più che crearli ex novo.
In ogni caso sono dogmi di fede, e richiedono un atto di fiducia, o come disse Ratzinger in un dialogo con Odifreddi, un anticipo di simpatia. Se fossero del tutto certi e dimostrabili non servirebbe la fede.