
Notre Dame University: The Kroc Institute for International Peace Studies.
La teologia è forse quella disciplina dei saperi che più di ogni altra rischia di trasformarsi in un sistema chiuso – senza sbocchi, senza dialoghi, senza apprendimenti. Una situazione paradossale se si pensa che essa incrocia molti campi della conoscenza: dalla filologia al diritto; dalla storia alla sociologia; dalle scienze politiche a quelle della natura. Nonostante questo, il suo percorso storico è approdato a una sorta di camera stagna, impermeabile e immune.
Questo perché finisce col fagocitare all’interno del suo sistema gli eventuali apporti che incontra provenienti da altri saperi. Lo fa sia per addomesticarli a dovere, per conformarli alla propria antropologia individuale e sociale; ma anche in virtù di un senso di superiorità che genera in lei la sensazione di essere la disciplina più alta e completa possibile.
Poi ci si lamenta che non è ascoltata e nemmeno convocata sulla piazza del dibattito pubblico; che rimane in silenzio davanti ai grandi drammi del mondo; che è oramai spazzata via dalla concorrenza secolare proprio sul terreno del religioso sul piano della comunicazione pubblica.
Ma questo è l’esito inevitabile del suo essere, appunto, un sistema chiuso in sé stesso. Quando va bene produciamo appelli da anime belle, riaffermiamo principi sacrosanti in linea di massima condivisibili da molti, difficilmente però riusciamo a offrire percorsi realistici e viabili di soluzione dei problemi dell’umano e delle nostre società.
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La situazione italiana, che ha privatizzato la teologia come disciplina ecclesiastica impartita all’interno di templi accademici sempre più vuoti, non aiuta certamente a immaginare un futuro diverso per essa. Da noi, ma non solo, sembra che la teologia abbia pensieri che producono parole (spesso incomprensibili ai dialetti del contemporaneo), e abbia smarrito ogni pensiero capace di generare azioni e fatti.
La teologia fatta dalla Chiesa nella Chiesa, come accade in Italia, ma anche quella fatta dentro il perimetro sicuro di facoltà teologiche per quanto inserite all’interno di università pubbliche, come capita in alcune nazioni europee, corre il rischio di diventare il vicolo cieco dell’intelligenza culturale della fede. A furia di piantare lo stesso seme nella stessa terra siamo naturalmente votati alla sterilità. Non c’è solo l’urgenza di pensare altri modelli e approcci, anche perché il tempo è scaduto da un po’; ma soprattutto quella di iniziare a fare teologia in maniera altra. Magari allargando il nostro sguardo non solo epistemico ma anche geografico.
Il primo passo è quindi quello di mettersi in posizione di apprendimento, il che vuol dire anche avviare pratiche di resistenza al sistema teologico così come esso è di fatto oggi. Ossia, smettere di nascondersi dietro la scusa che sarebbe bello fare in altro modo ma non è possibile perché l’istituzione teologica non lo consente. Questo è un ritornello da asilo, non certo da accademia dei saperi.
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Non per cedere al mito americano, ma perché lì si producono cose interessanti – sia sul piano di un pensiero operoso sia su quello dell’organizzazione della ricerca –, potrebbe rappresentare un primo passo di questo percorso di apprendimento per la teologia di casa nostra (e anche per quella continentale). Non entro nel merito della scomposizione del sapere religioso in confessionale (facoltà teologiche e divinity school nelle università private) e generalista (religious studies in quelle pubbliche), su cui molto si sta discutendo negli Stati Uniti (per lo più in chiave di una de-teologizzazione delle teologie confessionali che sarebbero sempre più simili all’indistinzione identitaria dei religious studies).
Anche se credo che sia proprio questa evanescenza dei confini, epistemici e confessionali, a produrre le cose più interessanti, le sensibilità più efficaci, le pratiche di pensiero e docenza più militanti (nel senso di essere orientate all’azione operosa sul campo della vita – e non semplicemente, quando va bene, nella parrocchia dietro l’angolo di casa).
Questa commistione dei generi, questa perdita di presunta purezza teologica, genera una forma mentis et vitae che allarga il campo della coltivazione teologica; ossia, insegna che molta «materia» teologica cresce e si sviluppa in altri campi del sapere e delle pratiche culturali. E che in essi, quella «materia» viene coltivata con competenze del tutto adeguate che non richiedono, in seconda battuta, il soccorso e la tutela del teologo professionista. Anzi, è bene che quest’ultimo le lasci così come sono perché dicono cose, della fede in atto, della religione effettivamente praticata, dei rapporti giuridici istituzionali, dei diritti e dovere dei credenti e dei non credenti, dell’impatto delle comunità religiose sul tessuto sociale (e viceversa), che la teologia in quanto teologia non saprebbe dire.
Senza questo riconoscimento che non è solo la teologia a fare teologia, siamo destinati a rimanere imprigionati nel castello incantato del nostro sapere a sistema chiuso (oramai in cortocircuito). Un secondo percorso di apprendimento riguarda l’approccio metodologico, in senso certo molto grezzo ma a mio avviso anche decisivo. La teologia si è oramai abituata a coltivare il proprio sapere tutto all’interno di sé stessa, per poi leggere le vicende del mondo e della vita attraverso le lenti di quel sapere incapace di relazioni generative.
Uno degli aspetti più interessanti di molta intelligenza delle fedi che possiamo trovare oltre Atlantico riguarda proprio l’inversione di questo rudimentale approccio metodologico. Ossia la durezza, e talvolta il cinismo, dei fatti diventano il principio di una rilettura e nuova interpretazione del sapere dei credo religiosi. E siccome i fatti della vita chiedono risposte concrete, e non vagheggiamenti del pensiero conditi con belle parole, le teologie sono chiamate a misurarsi esattamente sulla loro capacità di innescare prassi, certamente alternative e controfattuali, che rispondano concretamente alle esigenze della vita e alle questioni sociali del vivere umano.
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I fatti della vita non sono mai puri, e coinvolgono – nel bene e nel male – un ampio spetto di appartenenze religiose e di visioni del mondo. Davanti a questo dato di fatto, nessuna teologia può pensarsi a sé stante, da un lato, e la teologia nel suo complesso non può più prodursi solo a partire da sé stessa, dall’altro. L’esperienza americana è portatrice anche di una commistione delle teologie, di un intrigo dei saperi, nel far fronte ai fatti della vita – dove l’ebrea lavora insieme al palestinese; il teologo insieme alla giurista; la filosofa insieme all’economista…
Perché i fatti della vita sono fenomeni complessi, che possono essere compresi adeguatamente solo attraverso letture intrecciate, dove nessuna disciplina o confessione può avanzare un primato epistemico. Ed è solo in questo modo che si rende possibile dare risposte, viabili e realistiche, alle domande del vivere, alle ingiustizie sociali, ai conflitti geopolitici.
L’esistenza, accanto alle tipiche facoltà universitarie, di centri di ricerca ad hoc nei quali lavorano quotidianamente, una insieme all’altra, competenze accademiche diverse e una pluralità di intelligenze culturali delle fedi, rappresenta uno snodo sistemico decisivo per immaginare una teologia altra, finalmente liberata dall’insondabile leggerezza della propria immanenza. Perché questi centri non esistono per fare accademia, ma per offrire soluzioni concrete, per imbastire percorsi viabili, per dare suggerimenti strategici. Sviluppano progetti sul campo, tessono reti di collaborazione internazionali, entrano in medias res per attivare processi di trasformazione.
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Non certo nell’organizzazione istituzionale, ma sul piano dei fatti siamo arrivati alla fine del modello della teologia delle facoltà teologiche – di qualsiasi genere esse siano. Perché il modello non è più efficace, non produce più una teologia che serve al mondo, non riesce nemmeno più a rispondere alle esigenze della fede che vive concretamente nel quotidiano delle nostre società. Questo non vuol dire la fine del sapere teologico, necessariamente; ma indica l’imperativo di una sua dislocazione rispetto al sistema attuale. Rimanere nell’inerzia del sistema significa però diventare complici dell’estinzione del rilievo pubblico dell’intelligenza culturale della fede.
L’urgenza, oggi, è quella di organizzare la convocazione di teologi e teologhe provenienti da diverse aree culturali e linguistiche, non per parlare dei «contenuti» teologici ma per avviare progetti trasversali di organizzazione strutturale del sapere teologico declinato insieme agli altri saperi (non come soluzione cosmetica di un convegno, ma come quadro sistemico di un fare teologia che apprende a essere sé stessa nell’esposizione ai fatti della vita e del mondo come questi vengono letti e interpretati da altre discipline). Credo che quando papa Francesco parlava della teologia come un grande «laboratorio» avesse in mente qualcosa di molto simile a questo.
È vero che in Italia vi è ancora uno strascico secolarista all’interno delle università pubbliche, ma molto più debole che in passato e sicuramente meno diffuso. Ma è altrettanto vero che tutte le nostre facoltà teologiche sono rimaste identiche a sé stesse, avviando al massimo qualche esperimento extra-curricolare, ma lasciando invariata la forma mentis complessiva del corpo teologico nostrano. In questa condizione i teologi (maschi) rimangono in silenzio perché la teologia non ha niente da dire a questo nostro mondo – e nulla o poco fa per uscire da questo stato delle cose.
Ma questo non è un destino inevitabile, e non è neanche una colpa del mondo. È la conseguenza di un adattamento sistemico della teologia italiana al «brodo ecclesiastico» della cultura della nostra Chiesa.






Senza questo riconoscimento che non è solo la teologia a fare teologia, siamo destinati a rimanere imprigionati nel castello incantato del nostro sapere a sistema chiuso (oramai in cortocircuito).
Ottima analisi. Personalmente da anni ho visto sulla mia pelle questi circoli chiusi. Le facoltà teologiche sfirbano teologi laici stop
Poi questi teoli / ghe sono lasciati a se stessi. Nessuno ne domanda conto…insomma non vengono utilizzati ( al massimo qualcuno per insegnare religione) e tutti gli altri? Allora se la chiesa non è interessata ad utilizzarli perché le facoltà teologiche continuano a sfornare teologi laici illudendoli ( imbrogliandoli!)? E questo è solo un piccolo esempio dell’ immobilismo della ” chiesa alta” che non sa collegarsi con “la chiesa bassa” figurarsi con la società civile…
Condivido l’idea di fondo qui esposta. Mi permetto, tuttavia, di far notare come U.S.A. e Italia siano Paesi profondamente diversi, con storie (alle spalle) molto diverse. L’auspicio rimane, il paragone – se così posso dire – non regge. Sarebbe bello che i teologi frequentassero meno temi di nicchia (intra-moenia) perché di temi su cui dire la propria (con competenza, si intende) e discutere ce ne sono e agganci interdisciplinari da frequentare si possono creare (ad esempio come qui https://youtu.be/IaMxc4xoOCA?si=q3xaK-LHlgfYiTnj).
Walther Binni, Teologia 1 che seguo assiduamente è un ottimo esempio
Caro Marcello, condivido quanto scrivi. Constato che la “miseria della teologia” produce una “teologia misera”.
Tu parli di “centri di ricerca ad hoc”. Ecco, questi centri non credo saranno mai una realtà, almeno nel senso che non saranno una “gemmazione” delle nostre istituzioni teologiche. Credo che anche un appello del tipo: “teologi che praticate una teologia impura, unitevi”, senza una qualche base istituzionale, non potrebbe raggiungere risultati soddisfacenti. Bisognerebbe sperare che almeno lo stato italiano proceda quanto prima a costituire Istituti di ricerca (magari con cicli di dottorato, borse di studio) alla stregua della “Section des Sciences religieuses” dell’École Pratique des hautes études o del “Centre d’études en sciences sociales du religieux” dell’École des hautes études en sciences sociales, e magari sperare che questi centri (ma francamente non so come) spulcino nei curricula dei teologi, valutando naturalmente non “quanto” scrivono, ma “cosa” scrivono … e soprattutto non lasciandosi impressionare da appartenenze a poteri ecclesiastici, per invitare qualche teologo a collaborare. Ho inserito troppi “magari”…