Vita consacrata: quattro istanze di cambiamento

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religiosi

La vita consacrata sta attraversando un tempo che non assomiglia a nessuno dei precedenti.

Non siamo davanti a una semplice stagione di diminuzione numerica o di chiusura di opere: ciò che sta avvenendo è un cambiamento di volto, un passaggio antropologico e spirituale che chiede di essere ascoltato senza paura.

Le categorie con cui abbiamo interpretato il passato non bastano più, perché oggi emergono urgenze nuove, più radicali, che toccano l’umano prima ancora che le strutture. Queste urgenze non sono problemi da risolvere, ma luoghi teologici in cui lo Spirito continua a parlare. Sono soglie: fragili, esigenti, ma generative. E forse proprio qui, dove tutto sembra incerto, può nascere qualcosa di nuovo.

La vulnerabilità come luogo teologico

La prima urgenza è la più nascosta e la più decisiva: la vulnerabilità. Non quella spiritualizzata, né quella negata, ma quella reale, quotidiana, che attraversa comunità e persone consacrate. Fragilità psicologica, solitudini non dette, stanchezza accumulata, burnout spirituale: non sono eccezioni, ma il nuovo contesto umano in cui la vita consacrata è chiamata a vivere (cf. A. Cencini, Fragilità e grazia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2019, pp. 17-41).

Per troppo tempo abbiamo pensato la vita consacrata come luogo di forza, coerenza, stabilità. Oggi scopriamo che è invece luogo di umanità ferita, e che proprio lì può rivelarsi il Vangelo. Un riferimento autorevole e sicuro è H. Nouwen, che mostra come la ferita possa diventare luogo di rivelazione (cf. H. J. M. Nouwen, La forza della fragilità, Queriniana, Brescia 2018, pp. 11-29).

La vulnerabilità non è un ostacolo alla consacrazione: è il suo grembo generativo. È il punto in cui la vita consacrata smette di essere ideale astratto e diventa carne, storia, verità.

La domanda non è come eliminare la fragilità, ma come abitarla senza esserne travolti, lasciando che diventi spazio di incontro e non di vergogna. Per un fondamento antropologico-teologico solido ci si può utilmente rivolgere a P. Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 103-128.

In questo senso, la vulnerabilità diventa un criterio teologico: misura la qualità evangelica delle relazioni, la maturità delle comunità, la verità della missione. Una vita consacrata che non sa attraversare la vulnerabilità rischia di diventare difensiva, rigida, autoreferenziale. Una vita consacrata che la assume, invece, diventa più umana e più evangelica.

La fine del modello opera-centrico

La seconda urgenza è un terremoto silenzioso: la fine del modello opera-centrico.

Per decenni la missione è stata identificata con le opere: scuole, ospedali, case di accoglienza, parrocchie, istituzioni educative. Oggi molte di queste opere chiudono, si trasformano, sono consegnate. Non è un fallimento: è un passaggio necessario (cf. CIVCSVA, Per vino nuovo otri nuovi, LEV, Città del Vaticano 2017, pp. 25-54).

La missione non può più coincidere con ciò che facciamo. È il tempo di passare dalle opere ai processi, dalla gestione alla presenza, dall’efficienza alla prossimità. Un riferimento certo e autorevole sul tema è T. Radcliffe, La missione oggi, EMI, Bologna 2016, pp. 49-86.

La vita consacrata è chiamata a diventare leggera, itinerante, capace di abitare gli interstizi della società, non solo le sue strutture. Questo non significa rinunciare alla missione, ma ritrovarne il nucleo evangelico: la capacità di generare vita senza possederla, di accompagnare senza occupare spazi, di essere presenza che apre possibilità.

In un mondo liquido, dove tutto cambia rapidamente, la vita consacrata è chiamata a una presenza altrettanto flessibile e profetica (cf. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 1-32).

E qui si vede il legame con la vulnerabilità: una vita consacrata meno protetta dalle opere è una vita più esposta, ma anche più libera.

Autorità, potere e libertà: una questione non più rinviabile

La terza urgenza è la più dolorosa e la più necessaria: la questione dell’autorità. Gli abusi spirituali, le dinamiche di controllo, le forme sottili di infantilizzazione non sono casi isolati: sono segnali di un immaginario dell’autorità che deve essere ripensato alla radice. Un riferimento certo e autorevole sul tema è H. Zollner, Abusi sessuali nella Chiesa. Comprendere, prevenire, intervenire, Ancora, Milano 2012, pp. 13-48.

Non basta correggere gli eccessi: serve una conversione dell’autorità. L’autorità evangelica non possiede, non trattiene, non controlla. È generativa, libera, adulta. È capace di accompagnare senza sostituirsi, di guidare senza dominare, di custodire senza soffocare. Un testo sicuro e perfettamente pertinente: A. Cencini, Autorità e obbedienza, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, pp. 69-102.

La vita consacrata non può più permettersi comunità che producono dipendenza invece che libertà. La credibilità passa da qui. Per un quadro ecclesiale autorevole cf. CEI, Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, 2019, pp. 7-26.

Non si tratta solo di prevenire abusi, ma di ripensare la forma stessa della vita fraterna: relazioni non gerarchiche, ma generative; autorità non paternalistiche, ma dialogiche; obbedienza non infantile, ma responsabile (cf. Commissione Pontificia per la Tutela dei Minori, Linee guida per la tutela e la prevenzione, LEV, Città del Vaticano 2020, pp. 5-28).

Anche qui il legame con le altre urgenze è evidente: una vita consacrata vulnerabile e non protetta dalle opere richiede forme di autorità più umane, più adulte, più capaci di generare responsabilità.

La consacrazione nell’era digitale

La quarta urgenza è la più nuova e la più trascurata: la consacrazione nell’era digitale. Il digitale non è un mezzo: è un ambiente antropologico. Cambia il modo di pensare, di relazionarsi, di discernere, di esercitare l’autorità, di vivere la missione (cf. A. Spadaro, Ciberteologia, Vita e Pensiero, Milano 2012, pp. 15-43).

Il digitale modifica la percezione del tempo, la costruzione dell’identità, la qualità delle relazioni. Introduce nuove forme di prossimità e nuove forme di solitudine. Un riferimento certo e contemporaneo: B.-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma 2015, pp. 91-112.

Anche il magistero recente invita a riconoscere il digitale come ambiente di vita e di evangelizzazione (cf. Papa Francesco, Christus vivit, LEV, Città del Vaticano 2019, nn. 86-90).

Il digitale, inoltre, mette alla prova tutte le altre tre urgenze: amplifica la vulnerabilità, chiede nuove forme di autorità, apre spazi di missione non legati alle opere.

Conclusione

Queste quattro urgenze non sono un elenco di problemi, ma un invito alla rigenerazione. La vita consacrata non è finita: sta cambiando volto. Il futuro non sarà delle opere, ma delle presenze libere. Non delle strutture, ma delle relazioni sane. Non dei numeri, ma della credibilità. Non della forza, ma della vulnerabilità abitata.

È un tempo difficile, ma anche un tempo di grazia. Un kairós da non perdere. La vita consacrata può ancora dire una parola profetica alla Chiesa e al mondo, se accetta di attraversare questo passaggio non come una sconfitta, ma come una nascita.

  • Il testo è stato rivisto e corretto in alcuni dei suoi riferimenti bibliografici il 30 dicembre 2025 alle ore 16.45
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3 Commenti

  1. Sergio 30 dicembre 2025
  2. Giuseppe 30 dicembre 2025
  3. Fabio Cittadini 30 dicembre 2025

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