
L’Assemblea generale dei religiosi e delle religiose francesi (Corref) si è tenuta a Lourdes tra il 18 e il 22 novembre 2025 ed era dedicata al tema «l’Espérance, un engagement pour la vie religieuse». 350 i partecipanti all’Assemblea aperta dall’intervento della presidente, suor Véronique Margron, che chiudeva il suo secondo e ultimo mandato (cf. qui su SettimanaNews). I lavori sono poi proseguiti con la relazione introduttiva affidata al domenicano fratel Adrien Candiard, priore del Convento de Il Cairo, dove è stato inviato 13 anni fa per lavorare presso l’Istituto Domenicano di Studi Orientali (Idéo), un centro di ricerca per gli studi sull’Islam. Riprendiamo per gentile concessione della Corref la sua relazione (qui l’originale francese).
I più stabili tra voi, o i più inamovibili, ricorderanno forse che sette anni fa suor Véronique Margron mi aveva invitato a rivolgermi a voi per concludere i vostri lavori; ora invece sono chiamato a introdurli.
Misuro il passare del tempo tra questi due inviti e non posso fare a meno di pensare: era proprio un bel periodo! Eppure, coloro che erano presenti nel 2018 si ricordano che l’atmosfera non era affatto festosa. Stavamo entrando a piè pari nella tempesta degli abusi, senza avere ancora i numeri della CIASE, senza sapere nulla di sospetto su Jean Vanier, senza immaginare la metà di ciò che gli anni successivi ci avrebbero insegnato, ma già ben consapevoli che l’onda stava arrivando e che non ci avrebbe lasciati indenni.
All’epoca vi parlavo della libertà e del governo nella vita religiosa, in maniera piuttosto energica, perché vedevo chiaramente che le cose non andavano. Sette anni fa, la situazione non era buona: si abbattevano idoli, si scopriva l’ampiezza dei drammi, si rimettevano in discussione i nostri modi di funzionare, forse si perdeva l’equilibrio, o si aveva la nausea; ma avevamo una cosa: la speranza. I dossier si aprivano, i cuori si aprivano, le cose stavano per cambiare. In mezzo a una Chiesa rimessa in questione, la vita religiosa era più scossa del resto. Ma si intuiva che dallo tsunami potesse emergere una vita religiosa rinnovata, purificata dalle sue tentazioni settarie, dal suo culto della personalità (dei fondatori, dei superiori), dal suo autoritarismo ordinario e dalle umiliazioni accettate, dagli abusi che la sfiguravano.
Non voglio idealizzare nulla: per voi, quel periodo è stato duro, talvolta durissimo; duro, per non dire atroce. Non mi limitavo a fare grandi discorsi profetici per fingere di scuotervi un po’, come se le circostanze non bastassero a scuotere l’intera Chiesa: anche nel mio piccolo, senza nulla di paragonabile a ciò che i superiori di congregazione dovevano affrontare, cominciavo a scoprire situazioni rivoltanti e mi sono trovato a vacillare più di una volta. Ma stavamo costruendo, stavamo liberando, ci muovevamo verso una Chiesa più sicura e, nelle nostre comunità, verso rapporti più veri, più evangelici, senza dominazione.
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Sette anni dopo non si tratta di rimettere in questione il lavoro compiuto — e compiuto molto coraggiosamente in molte congregazioni (sono fiero che la Corref sia stata in prima linea). Ma, come sempre, ci si accorge che la necessaria liberazione della parola non ha prodotto tutti gli effetti sperati. Ci sono, ovviamente, luoghi in cui il vecchio mondo resiste: sarebbe ingenuo pensare che gli abusi appartengano solo al passato della Chiesa, purtroppo. Ma soprattutto, il nuovo mondo non è così idilliaco.
Per voi superiori, è anche un mondo di sospetto, persino di sospetto sistematico nei confronti dell’autorità, sorto talvolta dalle macerie. Sul banco degli imputati, al primo posto: l’obbedienza. È normale, in fondo, perché è stata utilizzata in modo tanto perverso. È logico quindi che, in risposta, la si guardi con prudenza. Ma dobbiamo gettare via il bambino con l’acqua sporca, quando il bambino rischia di essere nientemeno che la vita religiosa stessa?
Voi sapete bene che, senza obbedienza, non resta molto che possa funzionare.
Da noi domenicani, è l’unico dei tre voti che si formula esplicitamente, quindi potete immaginare… Un fratello, riportando le parole di un altro che si esonerava dalla partecipazione alle Lodi per andare a correre, dicendo: «Ritengo di averne il diritto», o «equivale a una preghiera», osservava che una frase che comincia con «Ritengo» non può mai finire bene… Se una richiesta del superiore deve essere valutata con lo psicologo e l’avvocato prima di ricevere risposta, questo cambia un po’ le cose.
Senza arrivare a tanto, vedete bene il rischio di un rapporto con i superiori posto sotto il sospetto di abuso di autorità e la minaccia del ricorso giudiziario: questo complica un poco l’esercizio delle vostre responsabilità, già abbastanza onerose. Naturalmente, se c’è qualcuno da biasimare sono gli abusatori: il dubbio sull’obbedienza è una vittima in più, meno tragica certamente di altre, ma comunque considerevole, delle loro malefatte.
Ma non è solo un problema che riguarda i superiori, un fastidioso granello di sabbia nel buon funzionamento delle nostre istituzioni. Solleva più ampiamente domande vertiginose: ogni atto di autorità può essere letto come abuso? L’obbedienza non è altro che uno strumento al servizio dell’assoggettamento?
Occorre ricordare che se la Rivoluzione francese abolì i voti religiosi non fu anzitutto per accanito anticlericalismo, o per desiderio di mettere le mani sui beni degli ordini religiosi, né — come si disse spesso all’epoca — per liberare dai chiostri infelici che non avevano mai chiesto di entrarvi. Ma fu per coerenza con una concezione molto forte dell’individuo autonomo, che non può alienare la propria libertà, nemmeno volontariamente. Non si può liquidare sbrigativamente questa antropologia definendola «individualista», termine facilmente peggiorativo. Perché è stata proprio questa concezione dell’uomo che ci ha aiutati a identificare e rifiutare gli abusi sulle persone. Abbiamo bisogno di questa attenzione alla libertà di ciascuno.
Ma dobbiamo accettarne tutte le conseguenze di questo beato individualismo? Per dirla diversamente: è ancora possibile proporre la vita religiosa dopo la crisi degli abusi, o il primo abuso, in fondo, è la vita religiosa stessa?
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Mi sembra però che esista un pericolo ancora più grande dell’irruzione del giuridico — e talvolta persino del giudiziario — della legge che protegge e della norma che soffoca lo spirito nella nostra vita religiosa. Un pericolo maggiore ma più impalpabile, impossibile da misurare oggettivamente, che forse percepisco solo attraverso una serie di coincidenze sfortunate che non fanno statistica: giudicherete voi stessi a partire dalla vostra esperienza.
Voglio parlare della crescita di una certa amarezza. Amarezza verso i superiori, o verso la congregazione, improvvisamente personificata, perché non si è ascoltati, incoraggiati, vivificati, considerati. I superiori non capiscono nulla: è persino da questo che li si riconoscerebbe. Ma talvolta, mi sembra che non siano i superiori ad aver deluso, bensì la vita stessa, che non ha mantenuto tutte le sue promesse.
Si parla dei «politecnici» (il termine polytechniciens si riferisce qui a chi ha studiato presso prestigiose istituzioni accademiche − ndr) entrati nella vita religiosa, che talvolta (non sempre, grazie a Dio) portano ostentatamente il lutto del grande avvenire che era stato loro promesso per tutta la giovinezza, e che alla fine non hanno assaporato i successi annunciati senza avervi mai del tutto rinunciato. Se fossero solo loro, sarebbe semplice; ma sono molti di più quelli che hanno sperato di trovare nella vita religiosa la felicità (non era forse stata loro imprudentemente promessa?), intesa come compimento del proprio essere, come attualizzazione di tutto il proprio potenziale (per dirlo con un vocabolario vagamente tomista), o come realizzazione della migliore versione di sé (per dirlo con le parole dello sviluppo personale, che hanno penetrato profondamente il nostro discorso su noi stessi). Conosciamo le parole di Flaubert in una lettera a Louise Colet: «La felicità è un mito inventato dal diavolo per farci disperare».
Certo, prendersi cura della fioritura di ciascuno nelle nostre comunità è una buona idea, migliore comunque che sperare la santificazione dei fratelli e delle sorelle. Ma promettere che il nostro stile di vita condurrà a tale fioritura, come forse desideriamo fare per voltare le spalle a una concezione dolorista sulla quale gli abusi hanno potuto prosperare, significa impegnarci ben oltre ciò che possiamo ragionevolmente fare, ben oltre ciò che propongono le nostre famiglie religiose, ben oltre ciò che Cristo stesso promette a coloro che lo seguono.
Le Beatitudini sono un discorso sulla felicità, certo, ma non sulla felicità attraverso il successo. Il dramma di queste promesse non mantenute — della vita in generale, della vita religiosa in particolare — è che possono generare amarezza. E l’amarezza, lo sappiamo bene, guasta ogni cosa, distrugge tutto alla radice: è ciò che può farci gettare la spugna. Un religioso peccatore, va bene. Un religioso che fatica con la castità, che lotta con la gola, che si lascia dominare dall’impazienza o dalla collera, non è perduto: è un religioso che sa di aver bisogno della grazia, della misericordia di Dio e dei suoi fratelli. E che, forse, saprà meglio comprendere i peccatori. Ma di un religioso amareggiato che cosa se ne può fare? Chiederà perdono, cambierà vita? Le sue stesse mancanze lo renderanno più indulgente? È la catastrofe totale.
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Allora che cosa si fa? Facciamo come al solito quando non sappiamo cos’altro fare: apriamo la Bibbia. E quando siamo pigri, andiamo ai libri brevi. Sette anni fa, con voi, aprii la lettera a Filemone e i suoi venticinque versetti. Oggi penso al libro di Aggeo e ai suoi due capitoli. Non è certo la stella più brillante tra i profeti dell’Antico Testamento, ma c’è davvero molto da leggere e rileggere.
Aggeo, che vive alla fine del VI secolo a.C., non affronta il periodo più tragico della storia sacra — due generazioni prima di lui, gli abitanti di Gerusalemme avevano vissuto un assedio abominevole, seguito dalla distruzione della città e del Tempio, poi dalla deportazione della popolazione a Babilonia.
Ma il periodo di Aggeo, più calmo, non è per questo meno fortemente deprimente. I Babilonesi avevano deportato gran parte della popolazione all’inizio del secolo, ma Dio, per mezzo del profeta Geremia, aveva promesso ai deportati che avrebbero rivisto la terra promessa, che avrebbero ritrovato Gerusalemme. Dopo settant’anni di esilio, grande gioia: i Babilonesi vengono sconfitti dai Persiani, il cui re, Ciro, decide di porre fine all’esilio degli ebrei. È il grande ritorno a casa, nell’entusiasmo: Dio non ci ha dimenticati, e ritroveremo lo splendore dei tempi di Davide e Salomone. Certo, i padroni ora sono i Persiani, ma vedremo quel che vedremo!
E invece non si vede granché… Nessuna catastrofe, no. Semplicemente, tutto è più difficile del previsto. Anzitutto, gli esuli tornati a Gerusalemme si accorgono che c’è già della gente: ebrei rimasti lì all’epoca, perché i Babilonesi non avevano potuto deportare proprio tutti; e popolazioni dei dintorni insediatesi durante quei settant’anni di assenza. Tra quelli che tornano e quelli che sono rimasti, non sarà tutto semplice, nemmeno tra ebrei.
E poi, è molto bello voler ricostruire Gerusalemme, le sue mura, i suoi palazzi, il suo Tempio, ma per tutto ciò serve denaro, e Ciro non ne ha dato, o non abbastanza. Insomma, il grande sogno del ritorno si trasforma non in un incubo, ma in un risveglio cupo in una quotidianità difficile, a fare i conti alla fine del mese, a constatare che nessun problema è risolto. Si è persino smesso di ricostruire il Tempio di Dio, distrutto dai Babilonesi. Ci si era messi al lavoro, pieni di entusiasmo, subito dopo il ritorno dall’esilio, poi, davanti all’ampiezza del compito, si è lasciato perdere. Non definitivamente, ma c’erano cose più urgenti. Bisognava ricostruire tutto. Il tempo del Tempio sarebbe venuto, ma non era il momento. È questa la situazione, sedici anni dopo il ritorno.
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È in questo periodo deprimente, alla fine dell’estate del 520, che un profeta di cui non sappiamo nient’altro, Aggeo, interpella il popolo di Gerusalemme a nome di Dio. Dio si scuserà per questa realtà così deludente? Darà almeno qualche parola di consolazione e dolcezza? Niente affatto. «Riflettete bene sul vostro comportamento!», comincia Dio: guardate anzitutto chi siete e che cosa fate. E se si guarda l’esito è piuttosto deprimente: «Avete seminato molto, ma raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; vi siete vestiti, ma non vi siete riscaldati; l’operaio ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato».
Una descrizione impressionante di una vita meccanica, vissuta in superficie, in cui si fa tutto ciò che si deve fare — si mangia, si beve, ci si veste, si va al lavoro, si vedono persone, si dicono le Lodi e i Vespri, forse si predica, si fanno riunioni — ma nonostante tutto, manca qualcosa, qualcosa di importante, qualcosa che dà senso a tutta questa routine. E su ciò che manca, Aggeo ha un’idea: è il Tempio di Dio, che abbiamo trascurato di ricostruire.
«Così dice il Signore degli eserciti: Riflettete bene sul vostro comportamento! Salite sul monte, portate legname, ricostruite la mia casa. In essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria – dice il Signore. Facevate assegnamento sul molto e venne il poco: ciò che portavate in casa io lo disperdevo. E perché? − oracolo del Signore degli eserciti. Perché la mia casa è in rovina, mentre ognuno di voi si dà premura per la propria casa» (Ag 1,7-9).
Tutti si sono detti: prima faccio la mia vita, la mia casa, le mie cose, e poi mi occuperò di Dio. Ma pensiamo alle cose più urgenti. È per questo, dice Dio, che nulla funziona. Insomma, per dirla con un’immagine del rugby, bisogna rimettere la chiesa al centro del villaggio. Se ci riconosciamo in ciò che Aggeo descrive per il suo tempo — non tragico, ma deludente, amaro e infruttuoso — allora la domanda per noi è: qual è questo tempio che dobbiamo ricostruire a ogni costo? Come seguire la lezione di Aggeo per la vita religiosa del nostro tempo?
Naturalmente, non si tratta di una concezione pagana, magica. Non c’è letteralmente bisogno di un tempio che ci manca (d’altronde, Dio aveva spinto Davide a non costruirglielo: non sei tu che mi costruirai una casa, sono io che costruirò una casa per te). Né di un approccio altrettanto pagano secondo cui non abbiamo dato a Dio la sua parte, e quindi lui fa il broncio e punisce. Un fratello polacco mi disse vent’anni fa: «È normale che in Francia non abbiate più vocazioni: non recitate il rosario, non celebrate la messa». Questo mi irritò un po’: anzitutto perché la messa la celebriamo e anche il rosario lo diciamo; e senza voler essere snob, l’analisi del processo di secolarizzazione era comunque un po’ troppo semplice. Immagino che, vent’anni dopo, l’evoluzione della società polacca l’abbia portato a rivedere il suo giudizio e a capire che il tempio che Dio vuole non è una piccola succursale dove può prelevare la sua parte di torta e dove in cambio si prenderà cura di noi. L’idea del Dio che risolve i nostri problemi e organizza i nostri trionfi, l’immagine del «Dio tappabuchi», è morta sulla croce.
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Allora, cosa significa tutto questo? Non pretendo di esaurire il tema, ma faccio due osservazioni.
Primo: egli rimprovera agli uomini di aver pensato prima a se stessi che a Dio. Non un capriccio, ma un decentramento. La vita battesimale, la vita religiosa ci chiamano con forza a questo. È questo il segreto? La rinuncia, semplicemente? È antica quanto il giovane ricco! Senza dubbio, ma non necessariamente così evidente.
Effetto generazionale: nella mia formazione religiosa, non molti anni fa, non me ne parlarono molto, presentandomi piuttosto la dimensione positiva e realizzante della nostra vita. Questo però è possibile solo se si è rinunciato a sé stessi: non all’essere sé stessi, al pensare, al parlare e difendere il proprio punto di vista, al vivere. Ma a rinunciare precisamente a riuscire: questa è la lezione del giovane ricco, che non vuole fare il male, ma vuole (già!) riuscire nella vita. La pressione della felicità lo ossessiona: è da essa che dovrebbe liberarsi. Prendersi cura del tempio più che della propria casa significa non prendersi troppo sul serio, o più esattamente sapere che ciò che è serio in noi è ciò che Dio compie in noi. Non si tratta più di riuscire nella vita, ma più modestamente di riuscire a vivere: nonostante le occasioni perse, le incomprensioni, le assurdità, non lasciarsi vincere dall’amarezza.
Paul-Dominique, che ha insegnato marxismo per tutta la vita, mentre avrebbe preferito san Paolo: la sua gioia di vecchio fratello, senza un’oncia di amarezza, è riuscire a vivere. Quando invece avrebbe potuto rimuginare, perché non gli è stato permesso di realizzare la sua vita.
Questo interroga la nostra capacità di affrontare la contrarietà e il fallimento, persino il rifiuto ingiusto. Se non sappiamo superare l’umiliazione, seguire Cristo sarà complicato. Che cosa mostriamo alle persone a cui predichiamo? È una linea di cresta: non fare neppure l’elogio dell’umiliazione… Ma in genere, la vita se ne occupa da sé. L’essenziale è non essere disarmati. Il Vangelo ci dà nutrimento a ogni pagina su questo tema!
L’uso abusivo di questa rinuncia cristiana è distorto come una smorfia rispetto a un sorriso. Perché ciò che li separa è l’abisso tra il distruggere e il donare.
Secondo: donare è precisamente ciò a cui serve il Tempio, che è il luogo del sacrificio.
Ora, «il Tempio di Dio siete voi»: la mia vita, per imparare a donarmi nella sequela di Cristo. E finché non avviene questo, c’è la sterilità che Aggeo denuncia. Se la vita religiosa può servire la Chiesa e il mondo, è come scuola del dono di sé. Che non ha nulla a che vedere con l’autodistruzione. Perché una vera concezione del dono di sé non si oppone all’antropologia dell’individuo autonomo: in un certo senso, la presuppone e la supera. Se la nostra vita religiosa non aiuta a diventare sé stessi (non nel successo, non torno su questo), se mi impedisce di esistere come soggetto, allora non posso più donarmi. Per donarmi deve esistere un «io». La croce di Cristo non è il coronamento di una vita di silenzio e santa discrezione, ma il dono generoso e totale, senza amarezza, di una vita piena e vera.
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Tra i drammi dell’abuso, vi è la distruzione, parziale o totale, della mia capacità di donarmi. Ed è proprio questo ciò che ho di più prezioso. La crisi degli abusi ci obbliga a reinterrogare il nostro vocabolario, la nostra teologia. È un’opportunità: riscoprire il vero senso delle nozioni, liberate da usi perversi. Non abbandonare questi termini — rinuncia, sacrificio — perché sono stati talvolta trasformati in strumenti di distruzione. Rileggerli alla luce di questi insegnamenti dolorosi non significa rimettere un coperchio, ma continuare a meditare sulla sequela di Cristo.
Ecco dunque il programma che Aggeo ci propone al nostro ritorno dall’Esilio, quando tanto è da ricostruire nella Chiesa e nelle nostre congregazioni: cominciare col ricostruire il Tempio, lavorare sulla nostra capacità di donarci realmente, liberamente, senza preoccuparci del successo. Se ci riusciremo, non tutto sarà compiuto: resteranno molte cose per i vostri gruppi di lavoro. Ma tutto il resto ci verrà dato in aggiunta.






Provo a riassumere qualche riflessione su questo articolo che ho riletto e forse ne valeva la pena, per prendere in considerazione il fatto che quanto espresso sopra si ritiene rivoto anche a me, che non vivo in una comunità religiosa, e anzi sono assai convinta che non si possa né debba rinunciare alla propria libertà (bene supremo, e nemmeno alla ricerca della felicità). L’ascolto esaustivo delle motivazioni nonché delle finalità che gli altri scelgono e propongono – unica, e forse capziosa, spiegazione della necessità cristiana dell’obbedienza che non mi sia sembrata di per se stessa da escludersi ma anzi del tutto degna di essere perseguita, mi pare che essa trovi la sua negazione al momento che si pretende di trovare un’effettiva pratica adesione nell’esecuzione di una serie di ingiunzioni, di “passaggi all’atto” i quali, ove non avvenissero priverebbero di senso la qualità medesima dell’essere cristiani. Non conosco l’elenco degli abusi da cui anche l’autore dell’intervento al convegno di Lourdes è rimasto scosso, e vorrei solo osservare che, se è sicuramente vero che l’essere responsabili della coesistenza di una collettività in uno spazio ristretto comporta di sobbarcarsi l’imposizione di scelte personali che sicuramente scontentano qualcuno e con ciò anche, a priori, una considerazione prudenziale degli aspetti psicologici e giuridici delle questioni che si pongono, questo non dà il diritto di ritenere doverosa da parte di altri l’accettazione di un’esistenza basata sul valore della rinuncia, ovvero sistematicamente sulla frustrazione di un altro valore classicamente evangelico: la gioia che io vedo connessa con la presenza del e nel creato. La diversa organizzazione (necessariamente) prevista e comunque in relazione ai diversi stati di vita da sola evidenzia quanto nell’esperienza sia diversificato il modularsi dei tre doni battesimali e rende ancora più perplessi sull’esplicito disgusto legato alla mira (bisogno? speranza?) al successo e l’apparentemente conseguente consiglio di fondare la vita sul fallimento che, più di altre concretizzazioni, certamente mortifica.
Molto bello quest’articolo che individua alcuni motivi della perdita di fascino della vita cristiana. Penso proprio che la felicità oggi confusa con il desiderio di apparire, di farsi vedere, di stare sopra gli altri, di aver comunque successo… stia minando dal di dentro la Chiesa: un narcisismo imperante in tutto il mondo, basti considerare: Trump, Putin… Bene quindi l’invito del papa a scomparire per far emergere e mostrare Cristo.
Inoltre negli esempi di questo testo ritrovo quanto è accaduto vicino alla cittadina nella quale vivo: la giovane ex badessa di un monastero di clausura, che vantava di avere alle spalle una famiglia facoltosa e una laurea, con un gruppo di monache ha abbandonato il convento perché non sopportava che la sua leadership venisse messa in discussione. Tra le compagne di quest’avventura anche la priora, con venticinque anni di vita consacrata, e una vita precedente come impiegata delle poste italiane. Indubbiamente avevano cercato la felicità personale e la prosperità del loro convento nelle realtà effimere e nel successo mondano dell’apparire.
Forse prima di lanciare sentenze lapidarie bisognerebbe riflettere e conoscere i contorni della vicenda. Magari hanno subito una grave ingiustizia e non se ne sono andate, ma sono state allontanate da un Decreto….
La rivoluzione francese non era per anticlericalismo o per prendere gli averi della Chiesa? Ma la difendete ancora in Francia? Beh d altra parte i teologi francesi dell ultimo secolo hanno distrutto la chiesa peggio di Robespierre e compari