III Avvento: I segni della guarigione del mondo

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La festa dell’Immacolata ha impedito, purtroppo, il passaggio attraverso la seconda domenica di Avvento. Considerando che le due domeniche sono unite dalla figura di Giovanni Battista che, con Isaia, è la voce più udita in questa stagione liturgica, penso utile ricordare almeno per sommi capi alcuni tema della domenica scorsa.

Gli inviti del Battista

Il profeta (Is 11,1-10) introduce l’affascinate immagine del “germoglio” che, insieme ad altre, come la “fessura” nel muro, la “soglia” che apre una porta, il “seme” nascosto nella terra, senza dimenticare la “brezza leggera” di Elia (1Re 19,11-12), ci educa ad avere attenzione per tutte quelle piccole cose che aprono spiragli di speranza nella nostra visione di un mondo malato. Questo germoglio, infatti, produrrà frutti grandiosi, di quelli che nutrono con le loro immagini emozionanti il sogno di cui si parlava nella prima domenica.

Tutto potrà cambiare in meglio quando «la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare. In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli»: è la stessa visione ascoltata due settimane fa.

Un suggerimento molto utile e pratico ci viene in aiuto dalla seconda Lettura, che ci ricorda un versetto importantissimo per mantenere forte e viva la visione: lasciarci istruire da tutto ciò che è stato scritto, «perché in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture teniamo viva la speranza» (Rm 15,4).

Si è mai pensato che la speranza, proprio perché è la virtù dei poveri e di chi è nella prova (i benestanti, che sono o si credono tali, non hanno neanche l’idea di cosa sia la speranza come virtù teologica!), ha bisogno di “consolazione”, e ancor più di “perseveranza” nell’operare il bene, perché abbia delle basi minimamente concrete e cresca nell’esercizio del bene?

E il bene primo e vitale è la capacità di avere «gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti» che conducono ad «accoglierci gli uni gli altri come Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio». Senza questa base, continuamente rafforzata e ricostruita alla scuola delle Scritture, la grande visione di un mondo riconciliato di cui parla Isaia si volatilizza nel nulla, e il mondo rimane brutto e invivibile. È qui che appare il Battista nel deserto (Mt 3,1-22), che è il mondo, e predica perché esso diventi un giardino: «Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino», non tanto e non solo perché sta per arrivare, ma perché è a portata di mano. Questo regno non è infatti una struttura visibile e gestibile politicamente, tale che ne derivi la possibilità di dire «Siamo figli di Abramo», ma «giustizia, pace e gioia nello Spirito santo» (Rm 14,17). È basandosi su questo criterio che Giovanni può chiamare chi gli si avvicina «Razza di vipere», cioè «figli del diavolo», che hanno bisogno di un battesimo più forte del suo, di “immergersi” cioè nella vita e nei sentimenti di chi verrà dopo di lui, pieno com’è, al dire di Isaia, dello Spirito del Signore.

Una travolgente primavera

Nella terza domenica di Avvento è ancora la voce di Isaia a fare promesse che fanno scendere un fiume di gioia su tutti coloro che patiscono fragilità e infermità di ogni genere. Il testo di Is 35,1-6.8.10 è come l’esplosione di una primavera travolgente che inonda il mondo, che infonde coraggio a tutti coloro che si sentono fiacchi, deboli e vacillanti. L’uomo ritrova il pieno funzionamento di tutti i suoi sensi: vede, ode, grida di gioia, salterà come un cervo uno che era zoppo!

La “salvezza” appare così come la guarigione che ridona all’uomo la sua integrità, a cominciare da quella del suo corpo. E il miracolo finale è che nel deserto si aprirà una «strada», mirabile annuncio per gli «smarriti di cuore».

La profezia si esprime per grandi immagini: su quella strada cammineranno le folle dei «riscattati dal Signore», e pur se oggi non è difficile contemplare liturgie grandiose che materializzano l’immagine alla lettera, non dimentichiamo la logica del “germoglio”, quelle altre folle anonime di volontari che, nel silenzio e nella disattenzione cronica dei grandi mezzi mediatici, continuano i loro servizi di guarigione dell’umanità, alimentando con ciò, forse anche senza che se ne rendano conto, la difficile speranza di un mondo che certi giorni capita di vedere come “tutto nel maligno”.

Elogio della pazienza

L’Avvento – è vero – è tempo di attesa, e nell’attesa di vedere qualche segno tangibile delle grandi promesse di cui parlano i profeti, capita pure di stancarsi. Per questo arriva molto opportuno l’invito di Giacomo: «Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore».

L’invito è ripetuto altre due volte, con l’occhio sulla pazienza del contadino che «aspetta con costanza il prezioso frutto della terra», e con l’invito stesso ripetuto nel «Siate costanti anche voi, perché la venuta del Signore è vicina». I contadini, purtroppo, sono pressoché scomparsi dal nostro orizzonte, e la cultura digitale temo abbia spento in molti la stessa idea di “pazienza”.

Amo i poeti che invitano alla calma, al silenzio, all’indugio, a muoversi camminando, perché solo a questa condizione si ha la possibilità di vedere tante cose che altrimenti ci sfuggirebbero. Tra questi c’è R.S. Thomas, un vicar anglicano, che in una poesia sui magi, li descrive così: «Il primo era a cavallo / il secondo su una moto / il terzo arrivò in aereo. // Dov’era il dio-bambino? / Era nella mangiatoia / Con gli animali, e tutti guardavano / dall’altra parte dove il quarto / era un lento albeggiare perché / La sapienza deve arrivare a piedi!».

L’invito di Giacomo alla costanza si appoggia sulla dichiarazione «perché la venuta del Signore è vicina». Questo non deve creare un’attesa inerte, quasi che tale venuta dovesse cascarci sulla testa a nostra insaputa. È piuttosto un invito all’attenzione e all’azione, perché il senso della frase è che il Signore è vicino, in ogni momento, e tocca a noi accorgerci della sua presenza, e rispondervi in modo adeguato.

È vicino nella sua Parola, alla quale possiamo avere costantemente accesso, è vicino nei gesti di attenzione e di gentilezza che riceviamo e che offriamo, al punto che un caro amico, abate cistercense negli USA ha potuto scrivere in una delle sue conversazioni in capitolo: «C’è chi dice che un giorno trascorso senza un abbraccio, dato o ricevuto, è un giorno in cui manca un po’ di Dio». È vicino in tutti quei germogli di bellezza e di bontà che non mancano mai, se solo abbiamo occhi per vederli e antenne per captarli.

I segni messianici

Il Vangelo ci offre un brano commovente (Mt 11,2-11). Giovanni si trova in carcere, dove probabilmente sa che l’aspetta una brutta fine. Pare viva un momento di crisi: proprio lui, che aveva predicato con forza l’avvento del regno dei cieli, e credeva di averlo visto nel giovane cugino che arrivava da Nazaret per farsi battezzare, ora ha bisogno di essere rassicurato che non si è sbagliato.

Certo, colui che aveva indicato come il Messia, venuto secondo lui a tagliare e a buttare nel fuoco gli alberi sterili, a ripulire l’aia, salvando il grano buono per gettare la paglia nel fuoco, non si comporta così. E forse si sarà anche chiesto perché non avrebbe anche potuto liberarlo dalle mani di Erode.

Gli manda dei discepoli per sincerarsi se sia davvero lui «colui che deve venire», per sapere se la sua attesa era stata ben riposta.

Gesù risponde mostrando i segni che altri profeti avevano indicato come azione del Messia atteso: e sono tutti segni di guarigione come quelli indicati da Isaia, riassunti in quello che li sintetizza e li raccoglie tutti: «ai poveri è annunciato il Vangelo».

Sappiamo che nell’attesa del popolo ebraico c’erano diverse figure di Messia, quella sacerdotale, quella regale e quella profetica. Gesù sceglie quest’ultima perché era la più fluida e la meno connotata, soprattutto la più lontana dall’idea di “potere” che invece era forte e ben presente nelle altre due figure, quella sacrale e quella politica, figure che Gesù respinge con decisione al tempo delle tentazioni. Anzi, in proposito Maurice Bellet ha potuto scrivere che, «nel deserto, Cristo ha conosciuto tre tentazioni: anzitutto, il potere; poi, il potere; in terzo luogo, il potere. Di sesso e di denaro non si è parlato».

Se capisco bene, non è che sesso e denaro non possano essere tentazioni, ma lo sono quando di fatto mascherano una ricerca di potere. Quelli di Gesù sono segni di guarigione e di benevolenza, come è ben riassunto in quel «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo» detto da Pietro al centurione Cornelio (At 10,38).

Sono segni che, guarda caso, liberano da un “potere demoniaco”, tutto diverso dal potere di cui gode Gesù; sono “segni” perché lui non è venuto a risolvere tutti i problemi dell’umanità, ma giusto a offrire dei segnali, dei barlumi di una realtà più grande che esiste e rassicura, anche se ora è solo da “sperare”, e magari da incoraggiare con il nostro impegno mediante il produrre e il ripetere segni altrettanto benefici.

Il brano evangelico conclude in modo sorprendente. Gesù non si è certo offeso davanti a quello che poteva sembrare un dubbio di Giovanni nei suoi confronti! Immagino fosse cosciente di quanto fosse difficile riconoscere in lui l’inviato di Dio, mostrando egli segni di evidente “potenza”, almeno nel senso corrente del termine, insieme ad altri che indirizzavano verso la debolezza: si pensi al primo segno offerto ai pastori e ai magi: un bambino in una stalla!

Il brano termina infatti con un grande elogio di Giovanni, anche se questo non impedisce di indicare con chiarezza la sua funzione di predecessore. Lui non è «la luce», ma colui che deve guidare verso la «vera luce». È la nostra stessa missione.

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