40 anni fa l’anno dei tre papi

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Ci ha pensato il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, a farne memoria nel duomo di Chioggia con una relazione dal titolo “1978, l’anno dei tre papi e dei tre padri”, tenutasi a fine aprile e pubblicata il 29 (*). Il contenuto di questa significativa rivisitazione è stata l’analisi degli eventi che si sono susseguiti a partire dal 6 agosto 1978 con la morte di Paolo VI: il breve pontificato di Albino Luciani e l’elezione del papa polacco che poi diventerà san Giovanni Paolo II.

Tre grandi padri “spirituali”

«L’anno dei tre papi – precisa subito il card. Parolin – è stato l’anno dei tre padri. Di tre grandi padri spirituali. L’anno in cui la Chiesa cattolica, nel giro di una manciata di settimane, è passata attraverso la morte di Giovanni Battista Montini, l’elezione carica di speranza del suo successore Giovanni Paolo I – il veneto Albino Luciani –, quindi la scomparsa repentina e inaspettata di quest’ultimo e, infine, l’elezione di Giovanni Paolo II, il primo papa slavo. Una prima considerazione, ormai a molti anni di distanza da quegli eventi storici, riguarda la santità di questi tre padri. Il beato Paolo VI sarà proclamato santo il prossimo ottobre a conclusione del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani, come ha preannunciato papa Francesco qualche settimana fa. Per il venerabile Albino Luciani si avvicina la beatificazione, alla quale lo stesso Francesco ha accennato. Mentre Giovanni Paolo II è già santo. Queste scelte compiute dalla Chiesa ci dicono che realmente abbiamo avuto in dono sulla cattedra di Pietro figure eminenti non soltanto per umanità, preparazione, capacità di governo, profezia, sguardo capace di leggere i segni di tempi. Ma anche e soprattutto per santità personale».

Contestualizzando un anno davvero travagliato, il relatore evidenzia: «In quel 1978 l’Italia aveva vissuto, nella prima parte dell’anno, il culmine dell’offensiva terrorista con il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro, e il massacro dei suoi agenti di scorta. Il 22 maggio di quell’anno era stata approvata la legge sull’aborto, che tanto dolore aveva procurato in papa Montini, già duramente provato dall’assassinio di Moro. Infine, non posso non citare, sempre a proposito del contesto internazionale, le speranze di pace di fronte agli accordi di Camp David, firmati dal presidente egiziano Sadat e dal primo ministro israeliano Begin il 17 settembre 1978, dopo dodici giorni di negoziati segreti».

Paolo VI

«Paolo VI, il grande “timoniereˮ del Concilio che aveva condotto con mano ferma quel grande evento e aveva sofferto negli anni successivi per la crisi e la contestazione – prosegue il cardinale – era ormai già anziano e ammalato di una forma di artrosi che gli rendeva doloroso ogni movimento. Era stato profondamente colpito dalla vicenda Moro. Ricordiamo i suoi ripetuti appelli, compreso quello agli “uomini delle Brigate Rosse”. (…) A coloro i quali per odiare e per uccidere dovevano “dimenticareˮ di trovarsi di fronte a un essere umano inerme, papa Paolo ricordava la comune appartenenza al genere umano. Chiamandoli “uominiˮ cercava di parlare ai loro cuori perché non accadesse l’irreparabile».

Quindi il segretario di stato Parolin precisa: «Abbiamo saputo in seguito, grazie alle testimonianze dei collaboratori e di altre persone coinvolte nelle trattative, della disponibilità di papa Montini – padre premuroso – di intervenire per motivi umanitari mettendo a disposizione anche un riscatto in denaro. Ogni tentativo fu però vano. Appena si seppe della morte di Moro, ha scritto monsignor Pasquale Macchi: “Il papa, incredulo di fronte a tanta ferocia, chiede a me di assicurarmi sulla verità della notizia e poi, arrivata la certezza del crudele assassinio, si ritira nella sua cappella in una lunga preghiera. Posso dire che questo fu per Paolo VI un colpo micidiale che segnò la sua persona già indebolita dalla malattia e dall’età avanzata”».

Ed ecco ancora due date molto significative per papa Paolo VI: il 29 giugno, quando in San Pietro ricorda il 15° del suo ministero petrino: in quell’occasione l’omelia che ha preparato «rappresenta un riepilogo del suo pontificato e vale la pena rileggerla. I due capitoli della sua riflessione riguardano la tutela della fede e la difesa della vita umana», temi per i quali si era speso molto. E poi un riferimento che egli richiama: «quella nostra Professione di fede che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come Credo del popolo di Dio, per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti concili ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti».

Quanto alla difesa della vita, c’è la Populorum progressio, in cui si insiste sulla promozione dei popoli in via di sviluppo, e la Humanae vitae, in cui riprendeva la GS che già ammoniva che «la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura».

E come non ricordare – sottolinea il card. Parolin – «l’attualissima esortazione sull’evangelizzazione, la Evangelii nuntiandi, dalla quale papa Francesco ha più volte tratto ispirazione?».

O ancora quanto ha detto rivolgendosi ai membri del Pontificio Seminario lombardo, ricevuti in udienza il 7 dicembre 1968: «Tanti si aspettano dal papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo… Sarà lui a sedare la tempesta… Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera».

Albino Luciani

Ed ecco, il 26 agosto, l’elezione del “papa del sorriso” passato quasi come una meteora, ma «indimenticata. La figura di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, è stata troppo a lungo gravata dai gossip e dalle ipotesi scandalistiche attorno alla sua scomparsa improvvisa. Grazie a Dio, il tempo e la ricerca onesta hanno fatto emergere tutti i documenti necessari per affermare non soltanto l’evidenza di una morte naturale, ma anche di ricostruire i precedenti clinici. E dunque di poter dire una parola definitiva su quel “gialloˮ assolutamente inesistente, come si può leggere nel volume “Papa Luciani. Cronaca di una morteˮ, scritto da Stefania Falasca sulla base dell’inedita documentazione raccolta per la causa di beatificazione… Mi hanno sempre colpito le parole con le quali Luciani da vescovo di Vittorio Veneto, nel dicembre 1958 si presentava ai fedeli. Perché dicono tutto di lui e ci rivelano anche quale sia il grande segreto del cristiano: l’essere umile, il sentirsi bisognoso dell’aiuto del Signore… Credo di poter dire che, prima ancora di diventare papa, è stato un modello di sacerdote e di vescovo. Si è formato negli anni preconciliari, è stato giovane vescovo al Concilio, è stato sempre “pastore con l’odore delle pecoreˮ – per usare un’espressiva formulazione di papa Francesco – e dunque vicino alla gente, ai drammi e alle domande delle persone».

«L’umanità, la semplicità con la quale il nuovo papa si era mostrato, il suo tratto affabile, la sua predicazione comprensibile a tutti, hanno conquistato milioni di credenti e anche non credenti in tutto il mondo. Le attese, le speranze, che aveva acceso quell’elezione avvenuta nell’afa dell’estate 1978 – era il 26 agosto, e un cardinale racconterà di aver violato i sigilli del conclave per far entrare un po’ d’aria dalla finestra – si spegnevano all’improvviso… La Chiesa aveva appena metabolizzato il trauma della morte di un papa e dell’elezione del suo successore, quando ecco l’improvvisa notizia del ritrovamento del pontefice senza vita nel suo letto, la mattina del 29 settembre».

Magis ostensus, quam datus, come hanno commentato in molti.

Karol Wojtyla

Ed ecco la sorpresa del primo papa slavo in duemila anni. «Un papa di appena 58 anni, nel pieno del vigore, con una fede «ferma e incrollabile» che avrebbe portato una ventata nuova (“Aprite le porte a Cristo”) e percorso più volte il mondo intero ad incontrare tutti e gridare forte – lui proveniente dalla Chiesa del silenzio – che solo Cristo è l’unico Salvatore del mondo. Pressoché impossibile – nota il Segretario di Stato Vaticano – riassumere ben 27 anni di pontificato, con tanti record e diverse “prime volte”.

«Papa Wojtyla ci ha donato splendide encicliche, il nuovo Codice di diritto canonico, il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica. Permettetemi però qui di ricordarlo per il suo personale contributo di sofferenza… Quelle sofferenze avevano preparato Wojtyla a ciò che sarebbe accaduto dopo, fino alla storica elezione del conclave che il 16 ottobre 1978 lo elesse vescovo di Roma. Durante il suo pontificato, la Chiesa cattolica ha attraversato un periodo di cambiamenti storici epocali. Undici anni dopo l’elezione del primo papa proveniente dall’Est, da Oltreocortina, era caduto il Muro di Berlino. Il mon­do bipolare era spaccato, il mondo dei blocchi contrapposti e della Guerra fredda, aveva cambiato completamente faccia. Il colosso comunista era imploso, era crollato rovinosamente senza spargimenti di sangue, senza rivoluzioni, senza guerre sanguinose. Karol Wojtyla aveva dato il suo personale contributo a tutto questo: un contributo di sofferenza, innanzitutto. Lui che il 13 maggio 1981, anniversario delle apparizioni della Madonna di Fatima, era stato colpito in Piazza San Pietro e quasi ucciso dai colpi sparati dalla Browning calibro 38 del giovane estremista turco Ali Agça. Nella visione mistica della storia che appartiene a Wojtyla, una mano materna, quella di Maria, aveva deviato il proiettile e fatto sì che il giovane e baldanzoso pontefice, eletto un anno e mezzo prima, si fermasse alle soglie della morte».

Rivelando e rileggendo il terzo segreto di Fatima… «Giovanni Paolo II nell’anno 2000 si era identificato con il protagonista di quella drammatica visione profetica: era lui il vescovo vestito di bianco che, attraversando la città semidistrutta e passando attraverso una distesa di corpi di martiri, veniva lui stesso martirizzato in cima a un monte, colpito dal fuoco… Certo, lui, Wojtyla, non era morto. Ma non era morto grazie alle preghiere, grazie all’intervento della Madre di Dio, sotto la cui protezione lui, orfano di madre fin dalla tenera età, aveva posto tutta la sua vita di sacerdote, di vescovo e di papa, scegliendo come suo motto una frase di Grignion de Montfort, Totus tuus... Quell’attentato, che il papa vedeva inserito nel mistero di Fatima e nel lungo e silenzioso rosario di martiri che aveva attraversato il 900».

«Penso che l’attentato – aveva scritto nel suo ultimo libro, Memoria e identità, pubblicato poche settimane prima della morte – sia stata una delle ultime convulsioni delle ideologie della prepotenza scatenatesi nel ventesimo secolo. La sopraffazione fu praticata dal fascismo e dal nazismo, così come dal comunismo… Aveva atteso la fine della vita, l’anziano pontefice, per dire per la prima volta così esplicitamente da dove credeva fosse venuto l’attentato alla sua vita».

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