Cile: una Chiesa ferita

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«Ferita» e gravata da una «cultura di abusi sessuali e di contraffazioni». Così, chiaro e tondo e senza compromessi, papa Francesco dichiara e denuncia nella lettera scritta alla Chiesa del Cile resa pubblica alla fine dello scorso maggio. È il penultimo degli atti compiuti dal successore di Pietro da quando, nel suo viaggio in questa Chiesa latinoamericana, rispose, in maniera brusca e poco cordiale, a un giornalista che gli chiedeva se avesse qualcosa da dire sul vescovo di Osorno, accusato di coprire gli abusi del sacerdote F. Karadima. Quello che è stato detto finora – ha sostenuto in quell’occasione – è «tutta calunnia». Quando ci saranno prove, riconsidererò la questione. Il cardinale di Boston Sean O’Malley, capo della lotta alla pedofilia, ha dichiarato alla stampa che la risposta del papa non è stata né tempestiva né appropriata: le sue parole sono «sgorgate dal grande dolore» per le vittime degli abusi sessuali.

Dopo quella dichiarazione, c’è stato un cambiamento di 180 gradi nel modo di affrontare gli abusi sessuali nella Chiesa cilena da parte di Francesco. Sull’aereo, nel viaggio di ritorno, egli ha ammesso di non aver dato una risposta adeguata al giornalista, ha chiesto scusa se aveva «ferito le vittime di abusi» e, una volta a Roma, ha inviato in Cile l’arcivescovo maltese Charles J. Scicluna e il sacerdote di Tortosa, ufficiale della Congregazione per la dottrina della fede, Jordi Bertomeu, con la missione di «ascoltare» coloro che avevano espresso la volontà di «fornire elementi» di cui erano in possesso «circa la posizione del vescovo di Osorno, mons J. Barros.

In poche settimane furono acquisiti nuovi dati raccolti in un rapporto di oltre 2.000 pagine consegnato al papa che, pochi giorni dopo, riconosceva di aver «commesso gravi errori di valutazione e di percezione», a causa della «mancanza di un’informazione accurata ed equilibrata»; chiedeva «perdono a tutti coloro» che aveva offeso, sperando di farlo, a breve scadenza, di persona, ad alcuni di loro; riconosceva che la fiducia nella Chiesa cilena era stata «compromessa dai nostri errori e peccati» e convocava i vescovi cileni in Vaticano «per riparare il più possibile lo scandalo e ristabilire la giustizia».

Detto fatto. Non molto tempo dopo, egli incontrava varie «vittime di abusi sessuali, di abuso di potere e di coscienza». Le ascoltava senza fissare limiti di tempo. A questo primo incontro, già nel mese di giugno, faceva seguito un altro incontro con un secondo gruppo al quale si erano aggiunte alcune persone che lo avevano accompagnato in questo viaggio amaro.

Tra i due incontri papa Francesco era in Vaticano con i vescovi cileni che, dopo aver riconosciuto di aver causato dolore per i loro «gravi errori e omissioni», presentavano in massa – cosa inaudita nella storia della Chiesa – le loro dimissioni, perché il papa potesse decidere liberamente «nei confronti di ciascuno» di loro. Alla dimissione generale dei vescovi seguiva la lettera alla Chiesa cilena con cui si apre questo scritto e l’invio di J. Scicluna e J. Bertomeu alla diocesi di Osorno con il compito di «far avanzare il processo di riparazione e di guarigione delle vittime degli abusi».

La situazione sofferta e i successivi passaggi sono unici ed eccezionali. Come lo è la lettera in cui Francesco sostiene che solo ascoltando le vittime e guardando «in faccia il dolore causato» si evita la «perversione» della Chiesa e si attiva una «mistica con gli occhi aperti, che interpella e non addormenta». Non avendo avuto cura nel mantenere questa relazione con le vittime di violenza, né avendole ascoltate correttamente, abbiamo distorto la realtà, nascosto «elementi cruciali per un discernimento sano e chiaro» e abbiamo raggiunto «conclusioni parziali». «Con vergogna, facendo autocritica, devo dire che non abbiamo saputo ascoltare e non abbiamo reagito tempestivamente».

In tutto questo «processo di revisione e di purificazione» il papa dichiara di trovare due fatti positivi: il primo, e più importante, è «lo sforzo e la perseveranza di persone concrete che, anche contro ogni speranza o discredito, non si sono stancate di guardare in faccia la verità»: le vittime e, con loro, chi «in quel momento ha creduto loro e le ha accompagnate». E il secondo: l’evidenza che «una Chiesa con le piaghe non si pone al centro, non crede di essere perfetta, non cerca di nascondere e mimetizzare il suo male». Perciò – conclude – impiega le forze che ancora le rimangono «per comprendere e lasciarsi commuovere dalle ferite del mondo di oggi», per renderle sue in modo che, soffrendo, accompagna e si organizza per cercare la loro guarigione.

Ci sono quelli che criticano Francesco, in altri contesti, per una presunta inclinazione populista o per la sua inefficienza pratica, altrettanto supposta. Non credo che, in questa occasione, potrebbe essere rimproverato di mancanza di autocritica, di lontananza dal dolore delle vittime o di aver trascurato di riparare al dolore causato, nella misura del possibile. Niente di meno.¹


¹ Questo articolo è apparso su “El Diario Vasco” il 17 giugno 2018.

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