Infallibilità sulle questioni morali?

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morale magistero

Etica Teologica della Vita (Libreria Editrice Vaticana 2022, pp. 517, euro 30) è il libro pubblicato a cura della Pontificia Accademia per la Vita e riporta un dibattito libero, franco e aperto tra teologi moralisti – a partire da un Testo Base – in cui si affrontano tutti i temi dell’etica della vita.
Del volume, in queste settimane, si è discusso molto, a volte concentrandosi su passaggi particolari, come il dibattito sul rapporto tra amore e generazione, perdendo di vista l’orizzonte più complessivo.
Su questi aspetti, uno degli estensori del Testo Base e tra i partecipanti al convegno, don Maurizio Chiodi, docente a Bergamo, a Milano e a Roma al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, risponde ora ad alcune domande per chiarire il senso del lavoro svolto.

– Don Maurizio, papa Francesco ha detto che non si può fare teologia, anche teologia morale, con dei “no” davanti. È un messaggio chiaro sull’importanza della libertà di discussione e di ricerca accademica in teologia. È giusta questa interpretazione? Perché è necessario ribadirlo? Perché si è creato, nel tempo, un “freno” alla libertà accademica? Certo, il teologo è in rapporto con il magistero nella sua ricerca. Ma qual è l’equilibrio tra la libertà di ricerca e il magistero?

L’affermazione del papa si colloca all’interno di un discorso sullo sviluppo del dogma e della morale, a proposito del quale egli richiama il criterio ermeneutico di Vincenzo di Lérins e, in tale quadro, afferma che non si può fare teologia con un “no” davanti. Da parte mia, direi che la teologia non ha una libertà “assoluta”: la sua norma normans è la Rivelazione, costantemente reinterpretata e attualizzata nella Tradizione.

Per quanto riguarda il rapporto tra teologia e magistero, ricordo che, dopo il periodo patristico, nel quale le figure del pastore/vescovo e del dottore/teologo coincidevano, il compito dei pastori, cum Petro e sub Petro, si è configurato come reciproco, con compiti diversi, rispetto alla teologia.

Il magistero episcopale e pontificio è sempre intervenuto dopo i dibattiti teologici, spesso accesissimi, come nelle grandi questioni cristologiche e trinitarie dei primi secoli. Il magistero ecclesiale, dunque, presuppone la teologia e questa a sua volta ha l’autonomia che le deriva dal suo essere intelligenza della fede, e in tal senso non può ridursi a commentare il magistero, anche se non può prescindere da esso, così come – ambedue – non possono prescindere dal sensus fidei, come dice Lumen gentium 12.

Al magistero ecclesiastico spetta, in ultima istanza, di dichiarare la compatibilità o meno di un’affermazione teologica con la verità del vangelo, ma questo suppone appunto una libera discussione, almeno nella misura in cui una dottrina è affermata dal magistero ordinario e universale in modo “autentico”, ma non in una forma definitoria, definitiva e infallibile.

Ora, è opinione comune tra i teologi che su nessuna questione morale il magistero ecclesiastico sia finora intervenuto in modo infallibile, anche se ovviamente ciò non esclude che possa farlo.

Dibattere nella Chiesa

– Ci sono dei temi su cui non si può discutere? Ad esempio, in questi giorni leggiamo che l’insegnamento di Humanae vitae è “infallibile”. È davvero così?

Un certo numero di teologi da subito ha sostenuto che l’insegnamento di Humanae vitae (HV) era infallibile, mentre molti altri, la gran parte, affermava che la nota teologica – vale a dire l’autorevolezza dell’insegnamento – di un’enciclica non appartiene al magistero infallibile. HV, come ogni enciclica, compresa Veritatis splendor (VS), è un documento autorevole, ma senza pretesa di infallibilità.

Io credo che, dentro l’affermazione del papa ricordata all’inizio, sia possibile leggere questa convinzione. Sull’HV, e sulla precedente presa di posizione di Casti connubii – ancor più forte – siamo nel campo della doctrina reformabilis.

Questo non legittima a sostituire frettolosamente la propria idea con l’insegnamento del magistero, avocando a sé un’infallibilità negata a questo, ma apre la discussione teologica, dentro la Chiesa, e perfino la possibilità di un dissenso, tanto per il singolo credente quanto per il teologo. Tale possibilità, a debite condizioni, non è esclusa nemmeno da VS 113. Entrando ancor più nel merito della domanda, la questione per cui alcuni sostengono l’infallibilità di HV sono gli atti intrinsecamente cattivi (intrinsece mala).

– Cioè? Che cosa si intende per “atti intrinsecamente cattivi”?

Negli anni ’70, nel corso di un aspro dibattito sul modo di “fondare” le norme morali, e cioè sul valore e il significato delle norme, alcuni teologi – poi condannati come proporzionalisti dalla VS – hanno sostenuto che non si possa valutare un’azione proibita da una norma se non a procedere dalla proporzione degli effetti che produce.

Ad esempio, si diceva, se il “dire la verità” a un malato lo porta alla disperazione, è meglio tacere o mentire: l’effetto buono – la speranza del malato – diventa moralmente e proporzionalmente più importante dell’effetto cattivo che ne deriverebbe dicendo la verità.

Contro questi teologi, altri – detti deontologi – hanno sostenuto che ci sono atti che, essendo intrinsecamente cattivi, sono condannati semper et pro semper e che nessuna cosa al mondo, nemmeno il papa, li può rendere buoni.

Ora, la contraccezione è considerata un atto intrinsecamente cattivo, insieme a molti altri, come dice il lungo elenco di VS 80.

– E come dobbiamo valutare queste discussioni?

A me pare che, nel dibattito, siano emerse due istanze che chiedono di essere ambedue accolte, in modo diverso. I teleologi – senza cadere nell’estremo di alcuni relativisti, condannati da VS – esigono di valutare gli effetti e le circostanze, e i secondi difendono la validità incondizionata del bene – evitando però di cadere nell’intellettualismo o nel legalismo di alcuni deontologi –.

Come comporre queste due istanze senza negare né l’una né l’altra, ma pensandole insieme? Questo è difficile. Per parte mia, credo che non si debbano negare gli atti intrinsecamente cattivi, ma che insieme occorra pensare in radice che cos’è un atto, superandone un’interpretazione oggettivata, che cioè prescinda dalle circostanze, dagli effetti e dalle intenzioni inscritte nelle azioni dei soggetti coinvolti.

Occorre dunque una valutazione più complessiva, circostanziata, che non si può dedurre semplicemente dall’affermazione “giuridica” delle norme. Del resto, un atto “intrinsecamente cattivo” come l’uccidere, è sempre stato – giustamente – interpretato nei limiti del “non uccidere l’innocente”, introducendo una distinzione – chi è l’innocente? – che fa appello alle circostanze e alla qualità delle intenzioni inscritte nelle relazioni umane segnate dalla violenza.

Un discorso analogo si potrebbe mostrare per quanto è sottinteso nella prassi pastorale introdotta da AL, secondo la quale la relazione sessuale tra due divorziati risposati non è necessariamente adultera.

La fede davanti al nuovo

– A volte nei riferimenti ai papi si parla di Giovanni Paolo II o di Benedetto XVI, o di entrambi. Come se non ci fossero altri insegnamenti, soprattutto sui temi della bioetica. Quale dev’essere il lavoro del teologo per spiegare, approfondire, insegnare? E il fedele come può orientarsi?

La storia della Chiesa, lo sappiamo, è molto lunga. Non mi pare saggio contrapporre un papa all’altro. Il magistero stesso, nella storia, conosce una riforma senza rotture, e anche alcune “discontinuità”, ma nella fondamentale continuità del riferimento al Vangelo. A volte, su singole questioni etiche, ci possono essere variazioni nel giudizio, quando si è nella doctrina reformabilis. Questo è accaduto recentemente con la pena di morte o per la “guerra giusta” o, nel passato, per il prestito a interesse e altro ancora.

Per quanto riguarda la bioetica, una disciplina recente nata per i molti dilemmi legati alla pratica medico-tecnologica, a mio parere sarebbe bene che, prima di definire a livello di magistero, sia bene approfondire e discutere a livello teologico, senza precipitosi giudizi di valore e tenendo conto del necessario discernimento nelle situazioni da parte della coscienza prsonale. Questo richiederebbe cautela negli interventi del magistero e attenzione critica nella teologia.

Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che, nei dilemmi morali, i cosiddetti “casi di coscienza” – situazioni in cui la differenza tra bene e male non è così netta – dal 1500 al 1700 tra i moralisti ci furono molte opinioni contrastanti e anche contraddittorie. In questo caso, il magistero intervenne solo in un secondo tempo, addirittura su sollecitazione delle Università di Parigi e di Lovanio, appunto per dirimere autorevolmente le controversie teologiche.

Etica Teologica della Vita è un libro di 517 pagine che raccoglie i risultati di un convegno dove diversi teologi discutono un Testo Base. All’interno ci sono tutte le tematiche della vita umana. In che modo orientarsi nella lettura del libro? Quali sono gli aspetti più significativi?

Presentare questo testo in poche battute sarebbe presuntuoso. A me pare che tra il poderoso lavoro del Testo Base, frutto di un impegno di molti intensi mesi, e i tre fruttuosi giorni del Seminario, con gli interventi dei Discussant e dei Respondent, c’è stato un notevole esercizio teologico – com’è stato detto – secondo lo stile della quaestio disputata.

Nel volume troviamo, dunque, un saggio equilibrio tra un testo e la discussione che ne è scaturita, con una pluralità di voci, anche discordanti, ma vivaci e dialetticamente feconde.

Per fermarmi al Testo Base, vorrei sottolineare il suo disegno complessivo sul tema della vita: partendo dalle sollecitazioni di Francesco, si attinge al tesoro delle Scritture, poi si approfondisce l’analisi del tempo presente, in cui vive il destinatario della Rivelazione, e si studia il passato, che ci appartiene, con l’ermeneutica della tradizione teologica e le posizioni del magistero ecclesiastico.

Sullo sfondo di tale cammino, ci si concentra su due questioni radicali: il rapporto circolare tra etica e antropologia e il nesso tra coscienza, norma e discernimento. In tale prospettiva teologico-morale fondamentale, si sviluppano le grandi questioni teologiche legate alla cura della vita e della salute, nella casa comune. La conclusione è dedicata ad un formidabile affresco teologico, che mostra come il compimento evangelico si inscriva nella drammatica della storia.

Solo in questa riflessione sistematica si possono comprendere alcuni nodi che hanno maggiormente attirato le attenzioni e le polemiche, come i temi della generazione responsabile, il fine-vita, la differenza tra etica e diritto, il significato del discernimento.

La vita

– La vita umana è diventata il terreno di scontri ideologici e anche ecclesiali. È difficile far capire che la difesa della vita è la difesa di tutta la vita, di tutte le fasi. Ad esempio, è difficile capire che battersi contro la pena di morte significa difendere la vita. Oppure far comprendere che denunciare i conflitti armati significa difendere la vita. Questo accade perché gli interessi economici e propagandistici hanno afferrato anche temi così cruciali. Qual è la sua opinione?

Più che parlare di “difesa della vita”, perché questo ci mette subito in una logica difensiva, apologetica, sottolineerei che, anzitutto, la vita umana chiede di essere ricevuta, accolta e pensata. Essa non è riducibile a un ambito “regionale”, biologico, psicologico, sociale o politico, economico, ecologico e globale.

I contributi delle scienze umane sono importantissimi e imprescindibili, ma non ci devono far dimenticare che la vita pone una questione radicale. Dalla domanda – che cos’è la vita? – nasce lo stupore, la meraviglia e questo mette in moto il pensiero, l’azione, le emozioni e le relazioni, in inscindibile unità.

La vita è l’esperienza meravigliosa di scoprirsi dati a sé stessi e di scoprire che così è per l’altro e che per questo siamo invitati a prenderci cura l’un l’altro, all’interno della casa comune, che è il mondo in cui viviamo. È evidente che in tale ottica la vita ha un profilo religioso, che rimanda all’Origine e alla sua destinazione: non siamo noi umani a darci la vita e da tale dono siamo sollecitati a rispondere…

Di questa evidenza antropologica noi cristiani siamo chiamati a dare testimonianza: l’unicità e la singolarità della vita umana è un dono prezioso e mortale, che ci chiede di rispondere con impegno grato, a tutti i livelli, che tu hai citato e senza mai dimenticarne nessuno.

– In relazione ad alcuni aspetti di Humanae vitae, qualcuno ha scritto che il papa attuale, da solo, non ha l’autorità di cambiare la dottrina. Eppure noi sappiamo, dagli studi di diversi storici e dalla consultazione degli archivi, che Paolo VI prese posizione contro la contraccezione in completo disaccordo con la Commissione di teologi chiamata a più riprese a studiare il tema e fornire un parere (alla fine la Commissione era formata da 73 esperti!).

Sono ormai ben note le circostanze, realmente complesse, che hanno portato all’enciclica HV. Io ritengo che, al di là dell’importante indagine storica, oggi la teologia abbia maturato una profondità di riflessioni, approfondimenti e concetti, a tutto campo, che ci permettono un passo ulteriore, che non contraddice l’HV, ma ne recepisce lo spirito, senza fermarsi alla lettera di una norma: la generazione è un atto di responsabilità, che si inscrive all’interno della relazione matrimoniale tra uomo e donna. Questo dono reciproco sta all’origine di ogni figlio.

Dinanzi alla grazia del generare i genitori si scoprono recettori e attori, donatari e donatori, passivi e attivi. Questa è l’esperienza meravigliosa che HV chiede di custodire. Come essa si debba declinare nelle condizioni attuali e con le possibilità offerte dalla scienza – non prive di suggestioni e di inganni – questo è ciò su cui abbiamo cercato di riflettere, sia nel Testo Base sia negli interventi seminariali. Il frutto di questo lavoro mi pare un atto teologico sinodale, di grande responsabilità ecclesiale.

Come cristiani siamo chiamati e sollecitati a rispondere al dono e alla benedizione della vita, ricevuta e ri-donata, diventandone testimoni per tutti. La saggezza pratica – la ratio practica di san Tommaso – ci aiuta a discernere come concretamente rispondere al dono di Dio, che è la vita.

Oggi, con lo sviluppo dei social media, chiunque può argomentare qualunque tesi, anche bizzarra e infondata, e trovare seguito. Come si può fare teologia in tale situazione?

La teologia scaturisce dalla fede: non posso credere senza comprendere, così come il mio comprendere approfondisce la fede di tutti. A questo è chiamato ogni credente, in forza del suo battesimo, anche se è evidente che – come in tutte le cose – tale compito richiede dialogo, competenza, passione e dedizione.

Il rischio dei social è che si accentui una tendenza “da tifo sportivo”, nella quale, più che alla profondità del pensiero, si va subito alle conclusioni, con il rischio che queste confermino il pregiudizio.

Insieme a ciò, il difetto è che tutto possa esser detto in un tweet, un cinguettio, dimenticando la fatica e il rigore del pensare, alla ricerca delle forme pratiche – sempre rinnovate – in cui testimoniare la fede nel vangelo di Gesù.

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18 Commenti

  1. Adaequatio rei 29 agosto 2022
  2. Fabrizio Mastrofini 24 agosto 2022
  3. Pietro 20 agosto 2022
    • Anima errante 22 agosto 2022
      • Pietro 22 agosto 2022
        • Anima errante 23 agosto 2022
        • Gian Piero 24 agosto 2022
      • Tobia 22 agosto 2022
        • Pietro 23 agosto 2022
          • Tobia 26 agosto 2022
  4. ioNessuno 19 agosto 2022
    • Lorenzo M. 21 agosto 2022
      • IoNessuno 22 agosto 2022
      • Anima errante 22 agosto 2022
        • Adelmo Li Cauzi 23 agosto 2022
          • Anima errante 23 agosto 2022
          • Pietro 23 agosto 2022
          • Anima errante 25 agosto 2022

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