
Ci siamo abituati. I preti cambiano. Le comunità accolgono nuovi volti. Le bacheche parrocchiali – soprattutto tra giugno e settembre – annunciano trasferimenti come bollettini ferroviari. Un tempo c’era il “curato d’anime”; oggi c’è il “preposto a servizio”. Un tempo si parlava di “padre”; oggi spesso si tratta di “funzionario spirituale”.
Eppure, nel cuore silenzioso dei presbiteri, talvolta affiora una domanda inquieta, che raramente trova spazio nei documenti pastorali: “Posso davvero amare come Cristo ama la Chiesa, se ogni pochi anni mi viene cambiato il volto della sposa?”.
La continua e spesso incomprensibile mobilità dei presbiteri nelle nostre diocesi non è un mero problema organizzativo o disciplinare, ma una questione di profonda rilevanza ecclesiologica e pastorale, che interpella il cuore stesso della Chiesa e la sua fedeltà al Vangelo.
Il prete e la sua comuità parrocchiale
Questa prassi, lungi dall’essere neutra, genera un trauma persistente nelle comunità, mettendo in discussione i fondamenti stessi di comunione, paternità spirituale e, in ultima analisi, la credibilità del Magistero sulla sinodalità. È tempo di affrontare questa “frattura silenziosa” con un taglio teologico più pregnante, che vada oltre la mera critica per proporre vie di rinnovamento autentico.
Il legame tra il parroco e la sua comunità non è primariamente funzionale o burocratico, ma affonda le sue radici nella teologia sacramentale del presbiterato. Il presbitero, in quanto “cooperatore dell’ordine episcopale per il retto adempimento della missione apostolica affidata da Cristo ai presbiteri” (cf. LG 28), è chiamato a incarnare Cristo Capo e Pastore in una porzione specifica del Popolo di Dio. Non è un semplice dipendente itinerante, ma un pastore di anime, chiamato a conoscere il suo gregge, a guidarlo, a nutrirlo con la Parola e i Sacramenti.
Questa relazione, lungi dall’essere astratta, si concretizza in un vissuto condiviso, nella partecipazione alle gioie e ai dolori, nella celebrazione dei momenti cruciali della vita. Il tempo prolungato in una comunità permette al presbitero di diventare una “memoria incarnata”, un volto familiare che accompagna i fedeli nel loro cammino di fede.
Quando questo legame viene reciso arbitrariamente si produce una lacerazione. La comunità non perde un “funzionario”, ma un pastore che ha seminato, coltivato e talvolta sofferto con essa. Il trauma è tanto più acuto quanto più la decisione appare calata dall’alto, priva di motivazioni chiare e di un processo di discernimento condiviso. La comunità, Popolo di Dio per virtù battesimale, si sente espropriata della sua dimensione di soggetto, ridotta a oggetto di decisioni altrui. Questo non solo genera dolore e sfiducia, ma intacca la percezione della Chiesa come “casa e scuola di comunione” (cf. Novo millennio ineunte, 43).
Per una gestione sinodale del clero diocesano
Il Magistero recente, e in particolare il pontificato di papa Francesco, ha posto la sinodalità al centro della riflessione ecclesiologica. La sinodalità non è una moda passeggera, ma un tratto costitutivo della Chiesa, intesa come Popolo di Dio in cammino. Essa si esprime nella capacità di “camminare insieme” (syn-odos), nell’ascolto reciproco e nel discernimento comunitario.
Come affermava papa Francesco in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, “una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, con la consapevolezza che ascoltare è più che sentire. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito di verità (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli ‘dice alle Chiese’ (Ap 2,7)”.
Eppure, la prassi di molti trasferimenti presbiterali stride violentemente con questo principio teologico. Quando le decisioni vengono comunicate per decreto, senza consultazione, e senza motivazioni trasparenti, la sinodalità viene tradita nel suo aspetto più elementare: l’ascolto del Popolo di Dio. Le comunità si sentono ignorate, le loro esperienze e i loro legami spirituali vengono disattesi in nome di una presunta autorità che non si traduce in paternità, ma in un esercizio burocratico del potere. Questo solleva una domanda critica: come può la Chiesa essere “esperta in umanità” (cf. Paolo VI, Popolorum progressio, 13) se non è capace di gestire con umanità e rispetto le relazioni interne al proprio corpo?
Ina una Chiesa sinodale devono affermarsi sempre più un “ascolto diffuso” e un “tempo dilatato” per accompagnare gli avvicendamenti dei parroci. Queste non sono richieste “democratiche” nel senso politico del termine – la Chiesa non è una democrazia parlamentare – ma espressioni di una profonda esigenza ecclesiale: riconoscere la dignità battesimale di ogni fedele e la sua partecipazione al sensus fidei. Il Popolo di Dio, in virtù del battesimo, è “infallibile in credendo” (cf. Lumen gentium, 12). Se il popolo fedele è “unto” dalla grazia dello Spirito e possiede un sensus fidei, la sua voce, specialmente in questioni che toccano la vita concreta delle comunità, non può essere semplicemente accantonata o ignorata.
La persistenza di queste prassi di mobilità rispecchia una concezione del potere nella Chiesa che fatica a convertirsi allo stile del Vangelo. Il clericalismo, condannato con forza da papa Francesco, trova qui una delle sue espressioni più manifeste. Esso si traduce in una visione piramidale e autoritaria che privilegia la disciplina formale sulla vitalità pastorale, l’obbedienza cieca sul discernimento comunitario. Si assiste a una “clericalizzazione della pastorale” che rende il laico un mero esecutore di direttive, piuttosto che un corresponsabile nella missione evangelizzatrice.
La fedeltà al Vangelo e la coerenza con il Magistero sulla sinodalità impongono un ripensamento radicale della gestione dei trasferimenti presbiterali. Non si tratta di abolire la mobilità, che può essere necessaria per esigenze pastorali reali, ma di trasformarne lo stile e il metodo.
Mobilità, immobilismo, stabilità
La questione della mobilità presbiterale è un banco di prova cruciale per la sinodalità della Chiesa. Se le parole del Magistero sulla sinodalità non si traducono in prassi concrete di ascolto, partecipazione e trasparenza nella vita quotidiana delle diocesi, esse rischiano di rimanere lettera morta.
Nel contesto ecclesiale contemporaneo, le categorie di mobilità, immobilismo e stabilità non sono solo nozioni astratte, ma hanno ricadute profondissime sulla vita delle persone, delle comunità e in particolare sul ministero ordinato. L’intreccio tra queste tre dimensioni può aiutare a leggere criticamente una delle tendenze più controverse e meno discusse della prassi pastorale: la continua mobilitazione del clero, spesso a scapito della stabilità delle comunità e della stessa identità presbiterale.
Tuttavia, questa mobilità, quando diventa sistemica e ripetitiva, perde il suo carattere missionario e si trasforma in nomadismo forzato, in precarietà istituzionalizzata. Le continue trasferte, i cambi di parrocchia o di incarico ogni sei, nove o dodici anni (spesso per esigenze organizzative più che pastorali), minano la possibilità di costruire relazioni profonde, radicate, fedeli. I preti diventano funzionari itineranti, senza tempo per lasciarsi plasmare dal volto del gregge, senza dimora né tempo sufficiente per generare frutti maturi.
Questa mobilità programmata non è più apostolica, ma burocratica: si mobilita per riempire caselle, non per servire le comunità secondo carismi e discernimento. Così, il corpo presbiterale si sfianca, e le comunità si abituano a non investire nei legami, nella corresponsabilità, nella continuità.
Non è l’essere radicati che produce immobilismo: lo genera piuttosto l’assenza di un respiro spirituale, la perdita del dinamismo interiore, la mancanza di ascolto dello Spirito. Anche un cammino stabile può essere animato da un movimento profondo: è il caso di quei preti che, pur restando decenni nella stessa comunità, la rinnovano dall’interno, la fanno crescere, si lasciano rigenerare dalle vite dei fedeli, dagli eventi, dalla Parola. Il vero immobilismo, invece, si trova anche in chi si muove continuamente ma ripete gli stessi schemi, le stesse liturgie stanche, gli stessi linguaggi chiusi.
In questo scenario, la stabilità appare come la virtù da recuperare. Non come fissità, ma come radicamento vitale. È la qualità del pastore che si fa parte della sua gente, che cammina con essa nel tempo lungo della fedeltà, che conosce i volti e le ferite, che cresce insieme al popolo. È la stabilità generativa di cui parlano le grandi tradizioni monastiche: non un restare per paura del nuovo, ma un rimanere per amore.
Questa stabilità permette ai ministri di maturare spiritualmente e umanamente, di diventare padri e non gestori, di sentirsi parte del luogo e non semplici ospiti a tempo determinato. E permette anche alle comunità di non vivere nella precarietà affettiva e spirituale del “prete che passa”, ma di entrare in un processo di mutua trasformazione.
La stabilità presbiterale, se ben accompagnata, non genera attaccamento patologico alla parrocchia, ma radicamento nel servizio. È la condizione per un ministero fecondo e per un’autentica corresponsabilità laicale: perché solo quando il presbitero resta, può mettersi davvero da parte e lasciare spazio al popolo.
Oggi più che mai, la Chiesa ha bisogno di discernere tra la mobilità evangelica e la mobilitazione sistemica, tra la stabilità che genera vita e l’immobilismo che spegne lo Spirito. Bisogna smettere di gestire i preti come pedine e le comunità come contenitori intercambiabili.
Il tempo giusto
Ci sono stagioni per partire e stagioni per restare. Il Vangelo chiede entrambe le cose, ma sempre in obbedienza allo Spirito, non alla logica della scarsità o dell’efficienza. Serve una riflessione ecclesiologica profonda, che restituisca al tempo, alla fedeltà e alla presenza la loro centralità.
Solo così il ministero sarà davvero presenza e non passaggio, e la comunità cristiana sarà casa e non punto di transito.
Il presbitero, nella sua consacrazione, assume un legame nuziale con la Chiesa: egli è chiamato ad amare la comunità che gli è affidata non come un funzionario del sacro, ma come uno sposo che dona la vita per la sua sposa. Ogni parrocchia non è un “incarico”, ma un volto, una storia, un grembo in cui generare vita cristiana.
Quando questo legame viene reciso con troppa frequenza, senza maturazione e senza possibilità di stabilità relazionale e pastorale, il sacerdote rischia di diventare un nomade affettivo, un pastore senza pascolo. Si crea così un paradosso: da una parte, gli si chiede di vivere l’amore fedele e oblativo verso il popolo di Dio; dall’altra, lo si priva della possibilità concreta di stabilire radici profonde, costringendolo a una “pastorale a termine”, dove la progettualità è sempre provvisoria, l’appartenenza è fragile, e la memoria è continuamente rimossa o sacrificata.
La frequenza eccessiva dei trasferimenti può portare il presbitero a vivere una forma di poligamia pastorale imposta: molte comunità amate a metà, relazioni spirituali mai pienamente maturate, frutti lasciati acerbi. Non per infedeltà propria, ma per una struttura ecclesiale che fatica a credere nella dimensione sponsale e generativa del ministero.
Il prete, configurato a Cristo Capo e Sposo, ama la Chiesa come uno sposo ama la sua sposa: con dedizione, fedeltà, intimità e gratuità. È una visione alta e impegnativa, carica di grazia e di responsabilità, che chiede di radicare il ministero non in una serie di mansioni funzionali, ma in un legame vitale con un popolo concreto, con una storia, con un territorio, con volti che si conoscono e si portano nel cuore.
Eppure, questo amore sponsale viene spesso messo alla prova da un fenomeno ricorrente nel governo pastorale delle diocesi: la mobilità sistematica e a tratti compulsiva dei presbiteri. Cambiare parrocchia ogni cinque, sei, sette anni — talvolta anche meno — è diventato prassi consolidata, e raramente contestata. È la normalità. “È così che si fa”.
Dietro questa mobilità si nasconde — troppo spesso — una visione funzionalistica del ministero. Il presbitero è visto come un “addetto al culto”, un amministratore di servizi religiosi, un professionista del sacro da spostare secondo le esigenze logistiche o le urgenze della macchina pastorale.
Ma se il prete è solo un funzionario, non ha bisogno di stabilità affettiva, né di relazioni profonde. Gli si chiede di “funzionare” ovunque, e quindi di adattarsi. Ma così facendo, si scinde il ministero dalla sua radice più evangelica: l’incarnazione dell’amore di Cristo per il suo popolo.
La Chiesa ha sempre saputo che la stabilità è condizione per la fecondità. I monaci lo professano con voto. I vescovi lo vivono come espressione del loro legame indissolubile con la diocesi. Perché, allora, i presbiteri sono trattati come pedine mobili?
La stabilità non è chiusura. È radicamento nell’amore, fedeltà nella prova, pazienza nel cammino. È il terreno su cui può crescere la fiducia, la corresponsabilità, la profondità relazionale.
Ogni comunità ha bisogno di tempo per conoscere e farsi conoscere dal proprio pastore. Ogni pastore ha bisogno di tempo per imparare ad amare quella comunità non per dovere, ma per appartenenza. Dove c’è troppa mobilità, nasce la superficialità. Dove tutto è provvisorio, nulla matura. Dove il prete sa già che andrà via a breve, non si espone fino in fondo.
Discernimento e trasferimento
Non si tratta, evidentemente, di abolire ogni forma di trasferimento. Ma di ripensare le logiche che lo governano, e soprattutto il paradigma sottostante.
Il cuore della questione non è organizzativo, ma teologico e antropologico. È il modo in cui concepiamo il ministero. È la fedeltà a quella immagine nuziale che abbiamo proclamato con forza nel magistero e nella liturgia, ma che rischia di essere contraddetta nella prassi concreta.
C’è un altro livello, più profondo, che rende urgente una riflessione ecclesiologica sulla mobilità del clero: il rischio di conformazione culturale.
In una società sempre più liquida, come l’ha descritta Zygmunt Bauman — segnata da relazioni fragili, identità instabili, mobilità compulsiva — anche la Chiesa, senza accorgersene, rischia di assorbire queste dinamiche, riproducendole nei propri modelli organizzativi.
L’eccessiva rotazione dei preti, la logica delle sostituzioni rapide, il principio implicito secondo cui “nessuno è indispensabile e nessuno resta troppo a lungo” riflettono un orizzonte culturale dove nulla dura, tutto è reversibile, dove il valore della fedeltà è sostituito dall’efficienza della flessibilità.
Così, il prete diventa un operatore spirituale itinerante, simile a un “coach del sacro” piuttosto che a uno “sposo dell’anima di una comunità”.
E la comunità, a sua volta, viene educata a non attaccarsi troppo, a non investire davvero nella relazione pastorale, ad attendere il “prossimo parroco” come si attende il prossimo dirigente.
Una Chiesa che muta i volti troppo in fretta rischia di diventare analfabeta del tempo e incapace di generare appartenenze significative. In altre parole: la mobilità strutturale del clero rischia di diventare un sacramento rovesciato della società liquida, un gesto che predica instabilità invece che fedeltà, che dissolve piuttosto che incarnare.
Non si tratta di demonizzare ogni forma di mobilità. Ci sono momenti in cui il trasferimento è necessario, giusto, persino evangelico. Ma se diventa sistema, se è automatismo, se manca un reale discernimento spirituale, allora diventa un dispositivo di sterilità, non di grazia.
In conclusione, si propongono alcune vie, teologicamente fondate:
- Riscoprire la “paternità pastorale” del vescovo: Il vescovo è chiamato a essere padre e pastore della sua diocesi. Una vera paternità non si esercita con l’autoritarismo autoreferenziale, con decisioni autocratiche, ma con l’ascolto attento dei fedeli e dei presbiteri. Essa implica un dialogo sincero, una cura per le relazioni e un discernimento che tenga conto del bene delle persone e delle comunità, non solo di logiche amministrative o di “equilibri” interni. Questo richiede una profonda conversione dall’autoritarismo alla paternità, dal controllo alla fiducia, dalla burocrazia al discernimento spirituale. Urge superare la logica efficientista che trasforma i presbiteri in esecutori intercambiabili.
- Valorizzare il sensus fidei e la corresponsabilità battesimale: il popolo di Dio partecipa al triplice munus di Cristo – sacerdotale, profetico e regale. Il sensus fidei è una partecipazione al munus propheticum di Cristo. L’ascolto delle comunità non è una concessione democratica, ma un atto di riconoscimento teologico della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nel Popolo di Dio. Gli organismi di comunione e di partecipazione devono diventare luoghi reali di discernimento e partecipazione, non mere appendici formali.
- Il “tempo lungo” della pastorale e la memoria comunitaria: la pastorale efficace richiede il “tempo lungo” della semina, della crescita e del raccolto. Le rotazioni troppo rapide vanificano gli sforzi e impediscono la sedimentazione delle relazioni e dei cammini spirituali. È necessario dare stabilità ai pastori per permettere la fioritura di una pastorale organica. Il nuovo parroco dovrebbe essere introdotto nella “memoria” della comunità, con riti di passaggio e di consegna che valorizzino il vissuto precedente e non lo azzerino.
- Trasparenza e accompagnamento fraterno: ogni trasferimento dovrebbe essere accompagnato da una comunicazione trasparente delle motivazioni, non solo per la comunità ma anche per il presbitero interessato. La decisione deve essere vissuta come parte di un discernimento condiviso. È essenziale prevedere un accompagnamento fraterno per il sacerdote che si sposta e per quello che arriva, nonché per la comunità che vive il distacco e l’accoglienza.






Articolo molto interessante e fatto con l’ interesse di un vero Pastore che ama il suo gregge. Condivido perfettamente quanto è stato scritto e mi dispiace che non tutti i Vescovi non ne comprendano l’ urgenza.
Oltre a quanto è già stato detto aggiungo che non c’è e non ci sarà vera, pastorale se non basata su relazioni vere e profonde. Come può avvenire questo se i sacerdoti vengono continuamente trasferiti?
Articolo bello, profondo ed intrigante. Le ragioni per il trasferimento di un prete da una parrocchia ad un’altra o ad altro incarico possono essere molteplici, talvolta dipende anche dalla comunità che non si dimostra accogliente del proprio pastore, altre volte pure dal presbitero che -in forza di una profondità spirituale non comune tra i fedeli- si accorge che il suo ministero è infecondo, ostacolato, non gradito e pertanto inutile. Ringraziamo quei vescovi che come padri sono capaci di riconoscere queste incresciose, ma reali e sempre più diffuse situazioni. In fin dei conti se il ministero è vissuto come servizio lo si comprende anche dalla disponibilità dei presbiteri ad essere sostituiti facilmente e dopo poco tempo da una nomina non indovinata e da un’accoglienza non attuata.
Quando il 12 Luglio scorso azzardai una breve riflessione sull’argomento sul gruppo whatsapp di amici, pensai che non fosse un argomento di interesse per i laici: nessuno scrisse un commento, negativo o positivo. Quindi, la riflessione andò nell’indifferenza, come tante. Approfitto per trascrivere su questo blog, sperando di fare qualcosa di utile:
I pastori a tempo molto determinato. Devo confessare che, quando qualche giorno fa, un giovane sacerdote mi ha fatto notare che a settembre il “mio” prof. sarà trasferito in un’altra parrocchia e non farà più il parroco, non sono rimasto indifferente. Prima di tutto mi sono chiesto, perché un sacerdote di Molfetta è andato a curiosare in un sito di una diocesi diversa da cui opera? Poi, è singolare che ci ha tenuto a sottolineare il termine: il “mio” prof, quasi con un senso di particolare interessamento e gioia (perversa?). Sicuramente, mi sbaglio. E’ solo colpa mia. Non nascondo mai quando amo. Esagero. Quel sacerdote curioso forse si è accorto che le sue omelie qualche volta non mi emozionano, non generano scelte dirompenti e provocatorie. Ma, tutto questo, non ha molta importanza. Invece, mi sono messo nei panni di quel gregge che perderà il pastore per “avvicendamento”: I pastori a tempo determinato, appunto. Quasi fosse un semplice lavoro da impiegato come un altro: un turnista (senza offesa per i turnisti), invece di un nocchiero al timone di una barca. Quest’ultimo – ovviamente – non può sbarcare in navigazione. E’ evidente, per chi legge che, in generale, non condivido gli spostamenti dei pastori parrocchiali. E’ vero, non ho nessun titolo per scrivere queste cose; ma, sarò libero di farlo? Anche il pastore avrà un attimo di sofferenza, mi sbaglio? Anche io ho già visto “un prete piangere” per queste ragioni (il titolo di una poesia di don Mimmo Marrone). Soprattutto, non vi sembra naturale che le pecorelle soffrano se perdono il pastore, un padre a cui si sono affezionati? L’arcivescovo di Trani ha quasi giustificato le ragioni del lungo elenco di nuove nomine e spostamenti, affermando: Perché il loro ministero possa rinnovarsi insieme alla vita pastorale delle nostre comunità, è compito del Pastore della Diocesi provvedere periodicamente a nuove nomine. Desidero che esse siano comprese nell’ottica di una comunità viva che fa della sinodalità il cammino che Dio si attende anche dalla nostra Chiesa diocesana come mistero di comunione, partecipazione e missione.
Perché ha la necessità di spiegare e farci comprendere? Perché il loro ministero non si può rinnovare stando anche nella stessa parrocchia? Io non capisco. Non voglio pensare che gli spostamenti periodici siano utilizzati per portare i fedeli a uno stato di indifferenza verso la parrocchia e il parroco. Sarebbe davvero una strada sbagliata che porterebbe a un ulteriore allontanamento dei fedeli. L’indifferenza ti fa perdere il gusto dell’amicizia, il gusto delle relazioni, il gusto della fiducia. Se ci “riconosceranno da come ci ameremo”, come facciamo ad amare se ci separiamo periodicamente? Non so se sono domande lecite. Per essere ottimista, mi piace immaginare che almeno il prof. abbia chiesto spontaneamente al suo arcivescovo di “alleggerire” i suoi impegni per dedicarsi agli studenti, cioè, a noi? In quel caso, grazie.
Articolo molto interessante.
Mi permetto di aggiungere che la questione in realtà trascina con sé un altro aspetto assai più delicato.
Per dirla con un proverbio: “Il difetto sta nel manico”. (Cioè una cosa non funziona o funziona male perché a monte sta il problema).
La questione è come vengono eletti i vescovi, una piaga che Rosmini 180 anni fa già aveva compreso.
Non ho dubbi che la nomina di un vescovo debba essere riservata ad altri vescovi e al Papa ma non necessariamente l’elezione.
Invito l’autore di questo articolo a cimentarsi anche su questa questione.
Ritengo infatti, che difficilmente un vescovo, che è stato nominato in forma totalmente gerarchica e autoritaria, abbia nelle sue corde come naturale una forma sinodale nel provvedere alla nomina dei parroci.
Mons. Domenico Marrone, secondo quanto lui stesso scrive, è parroco da 35 anni a S. Ferdinando di Puglia, suo paese d’origine. Non è quindi prete che ha fatto o sta vivendo l’esperienza nomadica o peripatetica di tanti suoi confratelli che subiscono spostamenti come se fossero pacchi postali. Su questo forse è meglio leggere don Milani, il cui spostamento a Barbiana fu un cinico castigo, almeno nell’intenzione di chi decise di confinarlo fra quelle quattro case sperdute in montagna. Quella sua esperienza autobiografica fu sicuramente riflessa nelle parole ironiche e tragiche della sua nota Lettera ad una professoressa: «Le maestre sono come i preti e le puttane, si innamorano alla svelta delle creature, se poi le perdono, non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. È bello vedere di là dall’uscio della propria casa. Bisogna soltanto essere sicuri di non aver cacciato nessuno con le nostre mani». In queste frasi è condensata tutta la questione: il ruolo del vescovo, la condizione del prete, il destino dei parrocchiani, e non solo per i trasferimenti da una parrocchia all’altra ma per l’insieme delle relazioni gerarchiche che costituiscono l’ossatura del potere della chiesa cattolica. Ci siamo ubriacati per decenni della parola “comunità”, oggi ci droghiamo con la parola “sinodalità”, vocaboli ideologici che poco avevano e hanno a che fare con la realtà ma servono a nasconderla, ossia ad occultare un sistema gerarchico fondato sull’obbedienza dell’inferiore nei confronti del superiore, dispositivo ecclesiastico analogo a quello militare. Questa è la chiesa, anche se non vogliamo ammetterlo, perché pensarla e dirla così ci disturba. Per cambiare questa forma di chiesa non servono teologia legittimante, psicologia d’accompagnamento, auspici ed esortazioni, serve soltanto riconoscere la realtà per quello che è, non ingannarci e non ingannare, chiamare le cose con il loro nome e, tanto per citare ancora don Milani, avere il coraggio di pensare e decidere che “l’obbedienza non è più una virtù”. Allora forse la parola d’ordine che serve è invitare i preti a reagire anziché obbedire, non certo a reagire da soli, perché sarebbero puniti due volte, ma reagire insieme, rivoltandosi contro comportamenti curiali e vescovili che sono incompatibili con la vita cristiana ma anche semplicemente con quella di qualsiasi organizzazione civile capace di darsi una struttura e di funzionare bene. E oggi, anche in Italia, si dovrebbe cominciare a discutere apertamente se i Vescovi sono capaci di governare la chiesa oppure no. Ma anche questo e un argomento-tabù. Riuscirà Settimana News ad avere il coraggio di infrangere questi tabù?
L’introduzione del mandato pastorale limitato nel tempo (in precedenza si era parroci a vita) ha essenzialmente ragioni disciplinari. I meno giovani ricorderanno gli abusi di parroci che dopo trenta o quarant’anni avevano costruito un loro regno e impero impenetrabile, spesso con tutti gli abusi connessi. Un ragionevole avvicendamento dei pastori dovrebbe consentire un migliore servizio pastorale e una stimolante varietà di voci per la comunità. È quanto avviene (o dovrebbe avvenire) per le
parrocchie servite da religiosi. In tal modo è possibile in modo “naturale” e senza tanti drammi sostituire un ministro che non “lega” con una comunità. Tutto questo in teoria e in una Chiesa perfetta…
Certo, dispiace che un buon parroco (magari visto così solo da alcuni) vada via per decisioni calate dall’alto (non invidio i vescovi con un clero scarso e/o problematico a disposizione).
Come potete vedere, ci sono molte prospettive con cui vedere la cosa.
A mio giudizio l’errore di fondo è la marcia per file parallele. Vescovi e “alto clero” non comunicano con il popolo e viceversa, nonostante i richiami alla sinodalità. A volte manca persino un lessico comune. Insieme alle unità pastorali dove c’è ancora abbondanza di clero, questa è un’altra delle questioni non comprese dal popolo di Dio.
Molti la interpretano facendo un parallelo con la banca. Per impedire che l’impiegato faccia l’interesse dei clienti anziché dell’istituto, vengono trasferiti spesso. La stessa cosa, a detta di molti, avviene con il clero. Certo che, se fosse vero, sarebbe triste. Penso piuttosto che i vescovi , con i loro vicari e delegati, abbiano un orizzonte più ampio rispetto ai fedeli di una parrocchia.
Il richiamo alla sinodalità nelle nomine lo condivido e lo applicherei anche a quelle dei vescovi
Articolo intenso e impegnativo, che non si presta a letture superficiali né a conclusioni affrettate. Richiede tempo, attenzione e disponibilità a lasciarsi interrogare. Si tratta di un testo che dà attuazione concreta a molte delle affermazioni che abitano il discorso teologico, la spiritualità e la pastorale del ministero ordinato, restituendo coerenza tra pensiero e prassi.
Particolarmente rilevante è il coraggio con cui si affronta una questione spesso trascurata o gestita in modo opaco: quella degli spostamenti dei presbiteri, troppo frequentemente decisi in maniera autarchica, senza reali processi di discernimento comunitario, senza ascolto né dialogo, in aperto contrasto con l’ideale sinodale più volte proclamato. Bene ha fatto l’autore a mettere il dito in questa piaga, segnalando la distanza tra le dichiarazioni di principio e le dinamiche effettive che regolano la vita ecclesiale.
L’articolo, nel suo insieme, compie un movimento essenziale: non si limita a denunciare, ma propone un attraversamento esigente della realtà, radicato in una visione alta e profonda della vocazione ministeriale. Un contributo prezioso, che merita attenzione e meditazione, soprattutto da parte di chi ha la responsabilità di guidare, accompagnare e riformare.
Le riflessioni che nascono sono tante.
Anzitutto è vero che le scelte dei trasferimenti dei sacerdoti sono calate dall’alto senza coinvolgere minimamente la Comunità cristiana. Come del resto è altrettanto vero che le motivazioni vere dei cambiamenti, rimangono nascoste alla comunità. Anche se ci sono passaggi e momenti difficili nella vita di una comunità, sarebbe corretto e utile alla luce del sole spiegare alla comunità le ragioni che hanno portato a determinate scelte di cambiamento.
In alcuni casi fortunati le comunità si affezionano e si “legano” al sacerdote creando legami belli fecondi e duraturi. E in questi casi, il “distacco” diventa più difficile e non sempre facile da accettare. Nei casi più “sfortunati” la presenza del sacerdote diventa motivo di divisione o di stanchezza e pesantezza per una comunità. E in questo casi non si vede l’ora che il cambiamento arrivi quanto prima. Sono certamente situazioni soggettive e ogni parrocchia ha una storia a sé. Sul discorso della sinodalita’ e del clericalismo c’è davvero tanto da lavorare. Il sacerdote in molti casi si limita soprattutto nella gestione della comunità e nelle scelte, a confrontarsi con poche persone di sua fiducia. La sinodalita’ rimane molto lontana da raggiungere.
Belle riflessioni: grazie!
Ottimo articolo. Sono un laico sposato impegnato sia in parrocchia, assieme a mia moglie viviamo un esperienza quinquennale in un percorso comunitario.