Quando il prete cambia parrocchia

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Ci siamo abituati. I preti cambiano. Le comunità accolgono nuovi volti. Le bacheche parrocchiali – soprattutto tra giugno e settembre – annunciano trasferimenti come bollettini ferroviari. Un tempo c’era il “curato d’anime”; oggi c’è il “preposto a servizio”. Un tempo si parlava di “padre”; oggi spesso si tratta di “funzionario spirituale”.

Eppure, nel cuore silenzioso dei presbiteri, talvolta affiora una domanda inquieta, che raramente trova spazio nei documenti pastorali: “Posso davvero amare come Cristo ama la Chiesa, se ogni pochi anni mi viene cambiato il volto della sposa?”.

La continua e spesso incomprensibile mobilità dei presbiteri nelle nostre diocesi non è un mero problema organizzativo o disciplinare, ma una questione di profonda rilevanza ecclesiologica e pastorale, che interpella il cuore stesso della Chiesa e la sua fedeltà al Vangelo.

Il prete e la sua comuità parrocchiale

Questa prassi, lungi dall’essere neutra, genera un trauma persistente nelle comunità, mettendo in discussione i fondamenti stessi di comunione, paternità spirituale e, in ultima analisi, la credibilità del Magistero sulla sinodalità. È tempo di affrontare questa “frattura silenziosa” con un taglio teologico più pregnante, che vada oltre la mera critica per proporre vie di rinnovamento autentico.

Il legame tra il parroco e la sua comunità non è primariamente funzionale o burocratico, ma affonda le sue radici nella teologia sacramentale del presbiterato. Il presbitero, in quanto “cooperatore dell’ordine episcopale per il retto adempimento della missione apostolica affidata da Cristo ai presbiteri” (cf. LG 28), è chiamato a incarnare Cristo Capo e Pastore in una porzione specifica del Popolo di Dio. Non è un semplice dipendente itinerante, ma un pastore di anime, chiamato a conoscere il suo gregge, a guidarlo, a nutrirlo con la Parola e i Sacramenti.

Questa relazione, lungi dall’essere astratta, si concretizza in un vissuto condiviso, nella partecipazione alle gioie e ai dolori, nella celebrazione dei momenti cruciali della vita. Il tempo prolungato in una comunità permette al presbitero di diventare una “memoria incarnata”, un volto familiare che accompagna i fedeli nel loro cammino di fede.

Quando questo legame viene reciso arbitrariamente si produce una lacerazione. La comunità non perde un “funzionario”, ma un pastore che ha seminato, coltivato e talvolta sofferto con essa. Il trauma è tanto più acuto quanto più la decisione appare calata dall’alto, priva di motivazioni chiare e di un processo di discernimento condiviso. La comunità, Popolo di Dio per virtù battesimale, si sente espropriata della sua dimensione di soggetto, ridotta a oggetto di decisioni altrui. Questo non solo genera dolore e sfiducia, ma intacca la percezione della Chiesa come “casa e scuola di comunione” (cf. Novo millennio ineunte, 43).

Per una gestione sinodale del clero diocesano

Il Magistero recente, e in particolare il pontificato di papa Francesco, ha posto la sinodalità al centro della riflessione ecclesiologica. La sinodalità non è una moda passeggera, ma un tratto costitutivo della Chiesa, intesa come Popolo di Dio in cammino. Essa si esprime nella capacità di “camminare insieme” (syn-odos), nell’ascolto reciproco e nel discernimento comunitario.

Come affermava papa Francesco in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, “una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, con la consapevolezza che ascoltare è più che sentire. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito di verità (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli ‘dice alle Chiese’ (Ap 2,7)”.

Eppure, la prassi di molti trasferimenti presbiterali stride violentemente con questo principio teologico. Quando le decisioni vengono comunicate per decreto, senza consultazione, e senza motivazioni trasparenti, la sinodalità viene tradita nel suo aspetto più elementare: l’ascolto del Popolo di Dio. Le comunità si sentono ignorate, le loro esperienze e i loro legami spirituali vengono disattesi in nome di una presunta autorità che non si traduce in paternità, ma in un esercizio burocratico del potere. Questo solleva una domanda critica: come può la Chiesa essere “esperta in umanità” (cf. Paolo VI, Popolorum progressio, 13) se non è capace di gestire con umanità e rispetto le relazioni interne al proprio corpo?

Ina una Chiesa sinodale devono affermarsi sempre più un “ascolto diffuso” e un “tempo dilatato” per accompagnare gli avvicendamenti dei parroci. Queste non sono richieste “democratiche” nel senso politico del termine – la Chiesa non è una democrazia parlamentare – ma espressioni di una profonda esigenza ecclesiale: riconoscere la dignità battesimale di ogni fedele e la sua partecipazione al sensus fidei. Il Popolo di Dio, in virtù del battesimo, è “infallibile in credendo” (cf. Lumen gentium, 12). Se il popolo fedele è “unto” dalla grazia dello Spirito e possiede un sensus fidei, la sua voce, specialmente in questioni che toccano la vita concreta delle comunità, non può essere semplicemente accantonata o ignorata.

La persistenza di queste prassi di mobilità rispecchia una concezione del potere nella Chiesa che fatica a convertirsi allo stile del Vangelo. Il clericalismo, condannato con forza da papa Francesco, trova qui una delle sue espressioni più manifeste. Esso si traduce in una visione piramidale e autoritaria che privilegia la disciplina formale sulla vitalità pastorale, l’obbedienza cieca sul discernimento comunitario. Si assiste a una “clericalizzazione della pastorale” che rende il laico un mero esecutore di direttive, piuttosto che un corresponsabile nella missione evangelizzatrice.

La fedeltà al Vangelo e la coerenza con il Magistero sulla sinodalità impongono un ripensamento radicale della gestione dei trasferimenti presbiterali. Non si tratta di abolire la mobilità, che può essere necessaria per esigenze pastorali reali, ma di trasformarne lo stile e il metodo.

Mobilità, immobilismo, stabilità

La questione della mobilità presbiterale è un banco di prova cruciale per la sinodalità della Chiesa. Se le parole del Magistero sulla sinodalità non si traducono in prassi concrete di ascolto, partecipazione e trasparenza nella vita quotidiana delle diocesi, esse rischiano di rimanere lettera morta.

Nel contesto ecclesiale contemporaneo, le categorie di mobilità, immobilismo e stabilità non sono solo nozioni astratte, ma hanno ricadute profondissime sulla vita delle persone, delle comunità e in particolare sul ministero ordinato. L’intreccio tra queste tre dimensioni può aiutare a leggere criticamente una delle tendenze più controverse e meno discusse della prassi pastorale: la continua mobilitazione del clero, spesso a scapito della stabilità delle comunità e della stessa identità presbiterale.

Tuttavia, questa mobilità, quando diventa sistemica e ripetitiva, perde il suo carattere missionario e si trasforma in nomadismo forzato, in precarietà istituzionalizzata. Le continue trasferte, i cambi di parrocchia o di incarico ogni sei, nove o dodici anni (spesso per esigenze organizzative più che pastorali), minano la possibilità di costruire relazioni profonde, radicate, fedeli. I preti diventano funzionari itineranti, senza tempo per lasciarsi plasmare dal volto del gregge, senza dimora né tempo sufficiente per generare frutti maturi.

Questa mobilità programmata non è più apostolica, ma burocratica: si mobilita per riempire caselle, non per servire le comunità secondo carismi e discernimento. Così, il corpo presbiterale si sfianca, e le comunità si abituano a non investire nei legami, nella corresponsabilità, nella continuità.

Non è l’essere radicati che produce immobilismo: lo genera piuttosto l’assenza di un respiro spirituale, la perdita del dinamismo interiore, la mancanza di ascolto dello Spirito. Anche un cammino stabile può essere animato da un movimento profondo: è il caso di quei preti che, pur restando decenni nella stessa comunità, la rinnovano dall’interno, la fanno crescere, si lasciano rigenerare dalle vite dei fedeli, dagli eventi, dalla Parola. Il vero immobilismo, invece, si trova anche in chi si muove continuamente ma ripete gli stessi schemi, le stesse liturgie stanche, gli stessi linguaggi chiusi.

In questo scenario, la stabilità appare come la virtù da recuperare. Non come fissità, ma come radicamento vitale. È la qualità del pastore che si fa parte della sua gente, che cammina con essa nel tempo lungo della fedeltà, che conosce i volti e le ferite, che cresce insieme al popolo. È la stabilità generativa di cui parlano le grandi tradizioni monastiche: non un restare per paura del nuovo, ma un rimanere per amore.

Questa stabilità permette ai ministri di maturare spiritualmente e umanamente, di diventare padri e non gestori, di sentirsi parte del luogo e non semplici ospiti a tempo determinato. E permette anche alle comunità di non vivere nella precarietà affettiva e spirituale del “prete che passa”, ma di entrare in un processo di mutua trasformazione.

La stabilità presbiterale, se ben accompagnata, non genera attaccamento patologico alla parrocchia, ma radicamento nel servizio. È la condizione per un ministero fecondo e per un’autentica corresponsabilità laicale: perché solo quando il presbitero resta, può mettersi davvero da parte e lasciare spazio al popolo.

Oggi più che mai, la Chiesa ha bisogno di discernere tra la mobilità evangelica e la mobilitazione sistemica, tra la stabilità che genera vita e l’immobilismo che spegne lo Spirito. Bisogna smettere di gestire i preti come pedine e le comunità come contenitori intercambiabili.

Il tempo giusto

Ci sono stagioni per partire e stagioni per restare. Il Vangelo chiede entrambe le cose, ma sempre in obbedienza allo Spirito, non alla logica della scarsità o dell’efficienza. Serve una riflessione ecclesiologica profonda, che restituisca al tempo, alla fedeltà e alla presenza la loro centralità.

Solo così il ministero sarà davvero presenza e non passaggio, e la comunità cristiana sarà casa e non punto di transito.

Il presbitero, nella sua consacrazione, assume un legame nuziale con la Chiesa: egli è chiamato ad amare la comunità che gli è affidata non come un funzionario del sacro, ma come uno sposo che dona la vita per la sua sposa. Ogni parrocchia non è un “incarico”, ma un volto, una storia, un grembo in cui generare vita cristiana.

Quando questo legame viene reciso con troppa frequenza, senza maturazione e senza possibilità di stabilità relazionale e pastorale, il sacerdote rischia di diventare un nomade affettivo, un pastore senza pascolo. Si crea così un paradosso: da una parte, gli si chiede di vivere l’amore fedele e oblativo verso il popolo di Dio; dall’altra, lo si priva della possibilità concreta di stabilire radici profonde, costringendolo a una “pastorale a termine”, dove la progettualità è sempre provvisoria, l’appartenenza è fragile, e la memoria è continuamente rimossa o sacrificata.

La frequenza eccessiva dei trasferimenti può portare il presbitero a vivere una forma di poligamia pastorale imposta: molte comunità amate a metà, relazioni spirituali mai pienamente maturate, frutti lasciati acerbi. Non per infedeltà propria, ma per una struttura ecclesiale che fatica a credere nella dimensione sponsale e generativa del ministero.

Il prete, configurato a Cristo Capo e Sposo, ama la Chiesa come uno sposo ama la sua sposa: con dedizione, fedeltà, intimità e gratuità. È una visione alta e impegnativa, carica di grazia e di responsabilità, che chiede di radicare il ministero non in una serie di mansioni funzionali, ma in un legame vitale con un popolo concreto, con una storia, con un territorio, con volti che si conoscono e si portano nel cuore.

Eppure, questo amore sponsale viene spesso messo alla prova da un fenomeno ricorrente nel governo pastorale delle diocesi: la mobilità sistematica e a tratti compulsiva dei presbiteri. Cambiare parrocchia ogni cinque, sei, sette anni — talvolta anche meno — è diventato prassi consolidata, e raramente contestata. È la normalità. “È così che si fa”.

Dietro questa mobilità si nasconde — troppo spesso — una visione funzionalistica del ministero. Il presbitero è visto come un “addetto al culto”, un amministratore di servizi religiosi, un professionista del sacro da spostare secondo le esigenze logistiche o le urgenze della macchina pastorale.

Ma se il prete è solo un funzionario, non ha bisogno di stabilità affettiva, né di relazioni profonde. Gli si chiede di “funzionare” ovunque, e quindi di adattarsi. Ma così facendo, si scinde il ministero dalla sua radice più evangelica: l’incarnazione dell’amore di Cristo per il suo popolo.

La Chiesa ha sempre saputo che la stabilità è condizione per la fecondità. I monaci lo professano con voto. I vescovi lo vivono come espressione del loro legame indissolubile con la diocesi. Perché, allora, i presbiteri sono trattati come pedine mobili?

La stabilità non è chiusura. È radicamento nell’amore, fedeltà nella prova, pazienza nel cammino. È il terreno su cui può crescere la fiducia, la corresponsabilità, la profondità relazionale.

Ogni comunità ha bisogno di tempo per conoscere e farsi conoscere dal proprio pastore. Ogni pastore ha bisogno di tempo per imparare ad amare quella comunità non per dovere, ma per appartenenza. Dove c’è troppa mobilità, nasce la superficialità. Dove tutto è provvisorio, nulla matura. Dove il prete sa già che andrà via a breve, non si espone fino in fondo.

Discernimento e trasferimento

Non si tratta, evidentemente, di abolire ogni forma di trasferimento. Ma di ripensare le logiche che lo governano, e soprattutto il paradigma sottostante.

Il cuore della questione non è organizzativo, ma teologico e antropologico. È il modo in cui concepiamo il ministero. È la fedeltà a quella immagine nuziale che abbiamo proclamato con forza nel magistero e nella liturgia, ma che rischia di essere contraddetta nella prassi concreta.

C’è un altro livello, più profondo, che rende urgente una riflessione ecclesiologica sulla mobilità del clero: il rischio di conformazione culturale.

In una società sempre più liquida, come l’ha descritta Zygmunt Bauman — segnata da relazioni fragili, identità instabili, mobilità compulsiva — anche la Chiesa, senza accorgersene, rischia di assorbire queste dinamiche, riproducendole nei propri modelli organizzativi.

L’eccessiva rotazione dei preti, la logica delle sostituzioni rapide, il principio implicito secondo cui “nessuno è indispensabile e nessuno resta troppo a lungo” riflettono un orizzonte culturale dove nulla dura, tutto è reversibile, dove il valore della fedeltà è sostituito dall’efficienza della flessibilità.

Così, il prete diventa un operatore spirituale itinerante, simile a un “coach del sacro” piuttosto che a uno “sposo dell’anima di una comunità”.
E la comunità, a sua volta, viene educata a non attaccarsi troppo, a non investire davvero nella relazione pastorale, ad attendere il “prossimo parroco” come si attende il prossimo dirigente.

Una Chiesa che muta i volti troppo in fretta rischia di diventare analfabeta del tempo e incapace di generare appartenenze significative. In altre parole: la mobilità strutturale del clero rischia di diventare un sacramento rovesciato della società liquida, un gesto che predica instabilità invece che fedeltà, che dissolve piuttosto che incarnare.

Non si tratta di demonizzare ogni forma di mobilità. Ci sono momenti in cui il trasferimento è necessario, giusto, persino evangelico. Ma se diventa sistema, se è automatismo, se manca un reale discernimento spirituale, allora diventa un dispositivo di sterilità, non di grazia.

In conclusione, si propongono alcune vie, teologicamente fondate:

  1. Riscoprire la “paternità pastorale” del vescovo: Il vescovo è chiamato a essere padre e pastore della sua diocesi. Una vera paternità non si esercita con l’autoritarismo autoreferenziale, con decisioni autocratiche, ma con l’ascolto attento dei fedeli e dei presbiteri. Essa implica un dialogo sincero, una cura per le relazioni e un discernimento che tenga conto del bene delle persone e delle comunità, non solo di logiche amministrative o di “equilibri” interni. Questo richiede una profonda conversione dall’autoritarismo alla paternità, dal controllo alla fiducia, dalla burocrazia al discernimento spirituale. Urge superare la logica efficientista che trasforma i presbiteri in esecutori intercambiabili.
  2. Valorizzare il sensus fidei e la corresponsabilità battesimale: il popolo di Dio partecipa al triplice munus di Cristo – sacerdotale, profetico e regale. Il sensus fidei è una partecipazione al munus propheticum di Cristo. L’ascolto delle comunità non è una concessione democratica, ma un atto di riconoscimento teologico della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nel Popolo di Dio. Gli organismi di comunione e di partecipazione devono diventare luoghi reali di discernimento e partecipazione, non mere appendici formali.
  3. Il “tempo lungo” della pastorale e la memoria comunitaria: la pastorale efficace richiede il “tempo lungo” della semina, della crescita e del raccolto. Le rotazioni troppo rapide vanificano gli sforzi e impediscono la sedimentazione delle relazioni e dei cammini spirituali. È necessario dare stabilità ai pastori per permettere la fioritura di una pastorale organica. Il nuovo parroco dovrebbe essere introdotto nella “memoria” della comunità, con riti di passaggio e di consegna che valorizzino il vissuto precedente e non lo azzerino.
  4. Trasparenza e accompagnamento fraterno: ogni trasferimento dovrebbe essere accompagnato da una comunicazione trasparente delle motivazioni, non solo per la comunità ma anche per il presbitero interessato. La decisione deve essere vissuta come parte di un discernimento condiviso. È essenziale prevedere un accompagnamento fraterno per il sacerdote che si sposta e per quello che arriva, nonché per la comunità che vive il distacco e l’accoglienza.
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11 Commenti

  1. Lucia 21 agosto 2025
  2. Giuseppe 20 agosto 2025
  3. Angelo Natalicchio 5 agosto 2025
  4. Riz Celestino 29 luglio 2025
  5. Silvano 27 luglio 2025
  6. Fabrizio Iodice 24 luglio 2025
  7. Claudio 23 luglio 2025
  8. Angelo 23 luglio 2025
  9. Gian Paolo Fasola 23 luglio 2025
  10. 68ina felice 23 luglio 2025
  11. Giuseppe 23 luglio 2025

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