La tentazione etnicista e il collasso della cittadinanza

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etnicismo11

Gaza tiene il mondo con il fiato sospeso per gli scenari temuti. E non c’è solo Gaza. Gli avvenimenti mediorientali, che contemplano purtroppo anche altre violenze tremende lasciano sgomenti.

Eppure a cavallo tra questo secolo e il precedente sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi il processo di pace aveva molti consensi, la Primavera ha chiesto libertà, in Siria appartenenti a diverse comunità lottavano insieme contro il totalitarismo di Assad (ritengo un errore di molti cristiani non averlo fatto anche loro, per influire su sé stessi e sugli altri), in Libano non c’erano confini comunitari nel delimitare il campo che già rifiutava l’egemonismo di Hezbollah e tentava di organizzarsi interconfessionalmente.

La via di Ocalan

Oggi spiccano, in controtendenza, molte voci del dissenso israeliano, che adesso comprendono anche quella del capo dell’esercito. Tra le voci più importanti per immaginare un altro futuro non può essere trascurata, per il discorso che qui si tenta, quella del curdo Abdullah Ocalan – voce trasformatasi da miliziana, o terrorista o combattente o quel che si preferisca scegliere per definirla, in voce di rifiuto totale della lotta armata e della solitudine etnica: voce di fratellanza!

La sua idea è tanto semplice quanto rivoluzionaria: finalmente dopo tanti decenni siamo stati riconosciuti come curdi, dunque ora possiamo impegnarci per costruire con i nostri concittadini una Turchia democratica.

Ai suoi lui ha detto: “Nel corso di una storia lunga oltre 1.000 anni, turchi e curdi hanno mantenuto un’alleanza — prevalentemente basata su una cooperazione volontaria — per preservare la loro convivenza e resistere alle potenze egemoniche. […]Oggi, il nostro dovere fondamentale è riorganizzare questa fragile relazione storica in uno spirito di fratellanza, senza ignorare le fedi”.

Lo stesso ha suggerito ai curdi di Siria: ma dopo sei mesi dal suo discorso il negoziato non decolla e ora si teme che i colloqui siro-curdi già convocati a Parigi possano saltare, per i timori dei turchi sulla non equidistanza francese.

Un altro fallimento si delinea mentre la tragedia di Gaza potrebbe ulteriormente inabissarsi? Così in queste ore terribili altre rotture lungo linee di faglia etnico-confessionali si possono forse temere: rotture che già si accavallano e susseguono, citate o ignorate. Perché?

Le scelte di Israele

Ritengo che tutto questo sia il prodotto di violenze efferate, di traumi, di sabotaggi, di vecchi e nuovi fondamentalismi, ma anche di incomprensioni, di equivoci, di paralisi teologiche, otre che delle difficoltà o delle esitazioni dei “moderati” che hanno perso il momento.

Tre tappe israeliane sono significative. Nel 2008 il premier israeliano, Ehud Olmert, ha presentato il suo piano di pace per la nascita dello Stato palestinese al Presidente palestinese, Mahmoud Abbas. Si è parlato di ultima occasione, persa.

Nel 2018 Israele, che aveva scelto da tempo di essere Stato degli ebrei e democratico, cioè rispettoso della sua minoranza interna, un 20% della popolazione che elegge i suoi deputati, ha varato una legge fondamentale che sposta l’accento sulla natura di Stato degli ebrei.

Giorgio Gomel ha commentato così su Affari Internazionali: “Il dualismo fra ebraico e democratico esiste fin dalla nascita dello Stato di Israele; basti pensare alla Legge del ritorno che consente agli ebrei del mondo di diventare cittadini di Israele immigrando nel paese. Che Israele sia uno stato ebraico, non solo perché luogo di rifugio dalle persecuzioni di un popolo disperso, ma perché l’identità collettiva del paese è impregnata di cultura ebraica (la lingua, le feste, il calendario, i simboli pubblici) è certamente legittimo.

Ma non è accettabile che lo stato favorisca il gruppo ebraico rispetto ad altre etnie. Israele è lo Stato degli ebrei, ma rispettoso dei diritti di tutti i suoi cittadini. La legge ha però codificato una discriminazione. Inoltre, uno Stato che non ha confini certi e riconosciuti come può definirsi? Se i territori palestinesi fossero annessi, come si configurerebbe Israele? Come lo stato-nazione del popolo ebraico? Si giungerebbe così anche formalmente ad uno Stato binazionale, ma non egualitario, non democratico, con diritti pieni solo per ebrei”.

Recentemente quella legge è stata seguita da una raccomandazione parlamentare, non vincolante, che esorta il governo ad annettere Giudea e Samaria, i nomi biblici di ciò che per noi è la Cisgiordania. Se i confini di uno Stato li fissasse la Bibbia saremmo su una strada che si baserebbe sui testi sacri e la loro non discutibilità.

Le posizioni espresse da ministri della destra messianica sono citate quotidianamente dai giornali, come il progetto di Hamas, che ben prima dell’orrore del 7 ottobre mirava a far deragliare ogni processo negoziale. Questo è stato il cuore della lunga stagione dei “kamikaze”, sconosciuti all’Islam prima di Khomeini.

Il lascito della storia

Non si intende certo rifare la storia di conflitti che affondano le loro radici nel Novecento, dimenticandone altri, come quello sudanese, dove proprio ieri l’ONU ha lanciato l’allarme per al Fasher, dove gli aiuti umanitari per i 300mila abitanti sono bloccati da un anno.

È però evidente che dopo il promettente Ottocento qualcosa è cambiato nel Novecento e per gli arabi questo cambiamento è cominciato con il colonialismo. Sulla carta Francia e Inghilterra dovevano preparare i territori arabi post-ottomani a diventare Stati moderni.

Il metodo seguito dai francesi lo ha probabilmente indicato il segretario dell’Alto Commissario francese, generale Henri Gouraud – il diplomatico e visconte Robert de Caix de Saint-Aymour, in uno dei loro primi colloqui, gli disse che avevano solo due opzioni: “costruire una nazione siriana, che non esiste, ammorbidendo le profonde frizioni che la dividono, o coltivarle e mantenere questo fenomeno, che richiede il nostro arbitrato. Devo dirle che la seconda è la sola opzione che mi interessi”.

Oltre a questo metodo, il colonialismo ha dato vita anche alla risposta del cosiddetto islam politico che indicò l’urgenza di combattere i colonialisti, ma a differenza dei panarabisti vide la priorità di combattere la colonizzazione culturale, cioè l’imposizione dello Stato laico, da evitare creando Stati che imponessero la legge della religione degli arabi, l’islam.

Questo ha creato un problema rilevantissimo con i cristiani e i gruppi musulmani considerati eretici. Ma prima che l’islam politico divenisse una forza ci sono stati incomprensioni ed equivoci ad allontanare le parti.

Questa tesi riguarda molti scenari mediorientali e, a mio avviso, trova in Libano un’autorevole conferma nel racconto di un prestigioso leader musulmano, sunnita, l’unico invitato a intervenire a due sinodi della Chiesa cattolica, quello sul Libano e quello sul Medio Oriente.

Lui, Muhammad Sammak, si trovò per caso a fare da traduttore per Pierre Gemayel in occasione di un suo incontro con una delegazione politica canadese poco prima dello scoppio della guerra civile libanese. Erano già tempi tesi per la coesistenza islamo-cristiana in Libano, parliamo degli anni ’70, vigilia della guerra civile libanese – in quell’occasione Sammak tradusse a Gemayel l’idea dei canadesi: gli dissero che se i cristiani libanesi avessero fatto la stessa scelta di Israele determinandosi a costruire uno stato per i cristiani del Libano, loro li avrebbero sostenuti.

Gemayel rispose che non la vedeva così, era Israele che doveva fare come i cristiani del Libano e determinarsi a costruire uno Stato comune con la popolazione musulmana. Pierre Gemayel è presentato molto spesso come il capo della destra cristiana, quella che presto sarebbe giunta a una rivendicazione identitarista che in molti avrebbe puntato proprio all’edificazione dello Stato cristiano, finalmente soli.

Sono stati gli eventi, i fraintendimenti, gli estremismi a cambiare le cose”. Proprio Sammak mi ha detto che in quel tempo la scelta dei musulmani libanesi di sostenere i palestinesi non intendeva mutare la natura multiconfessionale del Libano, era il frutto di una “naturale solidarietà” con chi lottava per i propri diritti, dopo l’espulsione dalle proprie terre. Ma questo, ha proseguito, fu spiegato ai cristiani? Si fu convincenti?

La Siria

Possiamo così soffermarci su quanto di terribile è accaduto in Siria in questi ultimi mesi con i massacri indiscriminati di alawiti, una comunità musulmana considerata eretica”, e di drusi, anche loro comunità massacrata e anche loro comunità musulmana considerata eretica”.

Qui siamo davanti a casi diversi ma analogamente gravi. Nel massacro degli alawiti più che l’eresia c’entra la paura e la vendetta: paura perché Assad era alawita, aveva usato molti aguzzini presi tra io suoi. Lui considerava i sunniti eretici e sudditi infedeli perché maggioranza, quella che lui non aveva, e così li ha discriminati e perseguitati.

Un moto insurrezionale di suoi nostalgici alawiti ha fatto scattare la paura, trasformatasi in sete di vendetta indiscriminata. Ma dietro c’era il problema del controllo delle armi, quello che probabilmente ha spinto il governo a lasciar fare. Ma il governo di Ahmad al-Sharaa viene dal campo dell’islam politico. Ci può essere stato nella catena di comando un pregiudizio verso “gli eretici”.

I drusi invece non sono stati fedeli ad Assad, salvo alcuni ovviamente, che ora sono tra chi controlla la comunità ansiosa di restare da sola dopo essere stata colpita senza ritegno. Sapendosi considerati “eretici” avranno temuto di essere colpiti anche per questo. Damasco voleva di certo il controllo militare di quelle contrade strategiche e ha consentito comportamenti efferati , un’altra strage, anche qui di civili inermi.

Oggi però questi alawiti, questi drusi, ancora costretti a viversi come minoranze, non saranno in realtà o in parte comunità etniche? Quanto conta la devozione?

Tribù statalizzate

Poco prima di diventare primo ministro del nuovo Libano, il giurista di fama mondiale Nawaf Salam, ha ricordato in un suo libro che prima della guerra civile – caratterizzata da una forte polarizzazione confessionale e dove il “fronte musulmano” (non solo tale) era guidato dal druso Jumblatt – un sondaggio dimostrava che tra i giovani sotto i 30 anni solo una percentuale tra il 2 e il 5% partecipava ai riti religiosi in chiesa o in moschea.

Queste “comunità”, governate dalla forza della coesione e dal connesso desiderio di potere, si vedono in chiese divenute anch’esse etniche, ristrette a tribù che si identificano con la fede e quindi con il potere. I cristiani, protagonisti nell’Ottocento del grande movimento del Rinascimento arabo, hanno cominciato a definirsi non arabi nel Novecento, rafforzando un tipo di religione propensa a usare il desiderio di solitudine emerso dalla paura creata di un “altro” con cui sono rari i legami.

Molti cristiani sollevano il problema dell’indisponibilità dell’islam a separare Stato e moschea. Per dettato coranico? Se cosi fosse sarebbe impossibile uno Stato non confessionale e quindi vivibile per i non musulmani o per i musulmani considerati eretici. È un argomento trattato da grandi accademici: da professori, esperti, meno esperti (anzi, direi che è trattato un po’ da tutti).

Quello che è stato definito il Salman Rushdie arabo, Sadik al-Azm, accademico di primissimo piano, i cui libri sulla critica del pensiero religioso vennero proibiti in tanti Paesi arabi, ha scritto al riguardo: «I coltivatori di datteri di Medina si recarono dal Profeta e gli chiesero: dobbiamo fertilizzare i datteri (come facevano di solito) oppure dobbiamo affidarci al volere di Dio”. Sembra che inizialmente il profeta li consigliasse di confidare nel volere divino. Quell’anno non ci furono datteri. Quando i coltivatori si lamentarono col profeta, la sua reazione su simile a quella di Gesù. Conoscete meglio le cose di questo, quindi fate ciò che il mondo vi chiede”, disse loro, con ciò volendo implicare che conosceva le cose dell’altro mondo.»

Nawaf Salam non sottovaluta il problema, lo vede nella sua sussistenza oggettiva, ma è convinto che i musulmani lo hanno a lungo condiviso con altri fondamentalismi religiosi e che i Paesi arabi che hanno proibito i suoi libri hanno condiviso il metodo con altri Paesi, visto che ricorda che i romanzi di Henry Miller erano proibiti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti quando lui vi andava a insegnare.

Il fondamentalismo islamico gli appariva dunque un male, chiarissimo, gravissimo, ma umano, non ontologico, esclusivo, incurabile. Ma i paralleli che tracciava indicavano ricordi lontani o emergenze che tornano, aggravandosi?

Tra confessionalismo americano ed etnicismo europeo

Il post-liberalismo americano propugna un tipo di Stato non molto diverso da quello che propone l’Islam politico. Adrian Vermeule, docente di diritto alla Harvard Law School, propone che lo Stato debba superare la neutralità liberale, e orientarsi deliberatamente verso una visione del bene radicata nella dottrina cattolica.

Secondo questa prospettiva, la democrazia rappresentativa non è più considerata una necessità. Il post-liberalismo è presente nelle teorie di J.D. Vance. Questi postliberali americani si vanno affermando grazie a Donald Trump che non dà prova di credere nello Stato laico quando crea l’ufficio per gli affari religiosi circondato da pastori evangelici adoranti e ai quali promette che riporterà in alto i valori cristiani. Lo fa con la grande deportazione?

Anche in Europa il movimento per la remigrazione oltre che alla paura dell’altro, evidente in chi arriva a proporre di rimandare indietro tutti gli immigrati divenuti cittadini dei Paesi europei nel corso dei tempi, cosa sogna se non la solitudine, questa purezza nella soluzione etnica?

Teorizzata dall’austriaco Martin Seller, la remigrzione è presto arrivata in Germania, dove è entrata nel programma del partito di estrema destra AfD. Ha scritto al riguardo Migrantes Online: “Secondo un’indagine del collettivo investigativo Correctiv, nel novembre 2023 alcuni esponenti di spicco del partito avrebbero partecipato a una riunione riservata alla presenza di Sellner. Al centro della discussione, un piano di remigrazione – ovvero deportazione – di due milioni di individui non assimilabili – tra cui richiedenti asilo, stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini tedeschi con background migratorio.

Il rischio che dalla teoria si passi alla pratica è tutt’altro che remoto. Emblematico, a tal riguardo, quanto accaduto a Karlsruhe, nel gennaio di quest’anno, dove la sezione locale dell’AfD ha distribuito falsi biglietti aerei, completi di istruzioni per il rimpatrio, nei quartieri a maggiore concentrazione di immigrati.

In Francia, nel frattempo, Éric Zemmour, leader del partito di estrema destra Reconquête, ha proposto l’istituzione di un Ministero per la remigrazione. Iniziative che, a prescindere dai seri dubbi di compatibilità con i più basilari principi democratici, non fanno che alimentare allarme sociale, generando paure e tensioni”.

Cittadinanza e fraternità

Davanti ai fondamentalismi di cui si è accennato, al desiderio di solitudine che ingenerano o causano, ritengo che il Documento per la fratellanza firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio del 2019 da papa Francesco e dallimam di al-Azhar e del quale il rabbino Bruce Lustig – fino al 2022 rabbino capo di Washington – è entrato a far parte del comitato attuativo, sia la road map per rifare ormai non solo il Medio Oriente, ma anche il nostro Occidente.

“Il concetto di cittadinanza si basa sulleguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare alluso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dellinferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli”.

Questa è la medicina ai mali tremendi dell’oggi.

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Un commento

  1. Maria Laura Innocenti 12 agosto 2025

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