Delle cose ultime: “Edipo a Colono”

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Foto di Luca del Pia.

Foto di Luca del Pia.

Il mito è un pensiero che pensa per immagini, avvolgendo e riavvolgendo fili di storie da gomitoli e matasse senza capo e senza fine.

Fili si sbrogliano, fili si aggrovigliano; le storie si sfrangiano in rivoli innumeri, alimentate dal nodo insolubile che perenne ritorna a cantare la parola indicibile, la parola non detta, la parola da non dirsi ora o da dirsi ieri o nel tempo che verrà.

Lo chiamano “mitologema”: è il topos mitologico, il lampo d’idea che in sé ricomprende e condensa un intero universo di visioni e pensieri.

In principio la famiglia, o forse la città

Vengono prima i Labdacidi o prima viene Tebe, la bella città dalle sette porte? Il mito non chiude, non chiude mai; ad ogni svolta percorre a ritroso i fili della storia, su su fino a Cadmo, fino ad Armonia, figlia di Ares e Afrodite, conciliazione di guerra e bellezza, via generativa della composizione degli opposti.

Nel tempo di “prima”, Cadmo, sposo di Armonia, fonda Tebe e genera quattro figlie dai nomi belli come perle di una collana: Semele, Ino, Autonoe, Agave. Alle figlie femmine seguono due figli maschi; di questi, uno è Polidoro, che genera Labdaco, che genera Laio, che genera Edipo.

Il mito rimesta sul fondo, fende la tela, confonde i contorni. Proprio a Tebe, la città che, grazie al numero sette delle sue sette porte, si fa simbolo di compiuta perfezione, proprio a Tebe la colpa prende volto, nome, storia. E sono i volti e le storie dei Labdacidi, stirpe maledetta; sono i nomi di Laio e di Giocasta e di Edipo, di Antigone e Ismene, di Eteocle e di Polinice.

Alle spalle di Edipo, o forse davanti a lui, sempre si staglia Armonia, mysterium coniunctionis delle origini, armonia perennemente disattesa, armonia perennemente anelata.

Trilogie slegate

Sofocle è un uomo anziano, ormai novantenne, quando, nel 406 a.C., si dedica alla composizione della sua ultima tragedia, Edipo a Colono – e ancora una volta sono i Labdacidi, ancora è Edipo a riecheggiare nella sua ispirazione. Mentre la morte si sta avvicinando, il grande tragediografo ritorna a dipanare i fili delle vicende della casa di Cadmo e Armonia, per consegnare alla poesia un’altissima meditatio mortis.

Dopo Antigone, del 442 a.C., ed Edipo re, del 430 a.C. circa, con Edipo a Colono Sofocle suggella una ideale trilogia dedicata alla famiglia di Edipo. Ma l’Edipo dell’Edipo a Colono non è più il fiero sovrano di Tebe, orgoglioso della propria intelligenza, che dominava la scena dell’Edipo re. È un uomo vecchio e stanco, un fuggiasco bandito dalla patria che, supplice, a passi strascicati, si appressa ad Atene, sostenendosi al braccio della figlia.

Emergendo come un fantasma dall’indeterminatezza di un tempo che non è tempo e di un luogo che non è luogo – il tempo dell’errare ramingo e abietto, mutilo della vista, claudicante nell’incedere –, Edipo si ferma alle porte di Atene, nel bosco di Colono, sacro alle dee venerande, supplicando asilo. E proprio lì, a Colono, andrà incontro alla morte.

Il tempo sacro della morte

Lo spazio narrativo, nell’Edipo a Colono, è poca cosa, breve è il tempo dell’azione, ma la poesia tesse, un trimetro dopo l’altro, 1779 versi – la tragedia più lunga fra tutte le tragedie sopravvissute del teatro classico.

Lo spazio è ridotto, conta poco; il tempo non c’è più – una manciata di ore soltanto, prima di attraversare la soglia e andare “di là”. Restano le parole, tante parole. Parole di consolazione e di fiducia, parole di rabbia e di paura; insulti, imprecazioni, suppliche, interrogativi, rivelazioni. Edipo è un randagio, un mendicante che nessuno vuole accogliere; eppure, accolto, conosce il riscatto della pietà.

Di continuo si avvicendano presenze accanto a lui, grovigli di storie lumeggiano. Ma il momento del commiato è consegnato al sublime di una solitudine suprema. Nel tempo sacro della morte siamo soli, e Sofocle lo sa bene.

La morte di Edipo

Un velo di pudore copre la morte di Edipo: il congedo non viene inscenato, ma ne viene affidato il racconto a un messaggero, un anghelos.

Fu lui stesso a condurre le figlie e il sovrano di Atene, Teseo, e la gente tutta di Colono verso il luogo dove doveva morire. Lui che, cieco e barcollante, era stato guidato, fattosi guida, senza l’aiuto di nessuno, giunto alla soglia scoscesa, radicata nella terra con gradini di bronzo, si fermò e sciolse le vesti. Chiese alle figlie di portargli acqua di fonte per aspergersi e, una volta che tutto fu compiuto secondo il rito, stese su di loro le mani e le accarezzò: «Figlie – disse loro –, da oggi non avete più padre. Ma basta una sola parola a disperdere ogni affanno: amore. Nessuno più di me vi ha amato, nessuno più di me vi amerà mai».

Infine, accompagnato dal solo Teseo, raggiunse un angolo nascosto del sacro bosco delle dee venerande. Qui Teseo lo lasciò solo – neanche agli affetti più cari è dato di varcare insieme la soglia – ed ecco, voltandosi, tutti videro che Edipo era scomparso.

La morte ha sciolto dolcemente
il nodo della vita di quell’uomo.
Scende l’ombra buia della notte
sui suoi ciechi occhi senza luce.

Adesso basta, basta, sorelle,
basta lacrime e pianti di dolore:
su tutto regna un ordine, per sempre.

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Un commento

  1. Laura 17 febbraio 2025

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