
«Aspirate a cose grandi, alla santità». Il messaggio del papa Leone XIV, pronunciato a Tor Vergata durante il Giubileo dei giovani, è stato riportato dalla maggior parte dei media, giornali e tg, omettendone una parte cruciale: la santità.
Questa omissione è un errore. In un’epoca segnata da un’idea di grandezza ben diversa, in cui i conflitti si nutrono di falsi miti – dalla «Grande Madre Russia» alla «Grande Israele» – e in cui un presidente americano, che aveva incitato all’assalto a Capitol Hill, è tornato alla Casa Bianca anche grazie allo slogan «Make America Great Again», sottolineare la precisazione del pontefice sarebbe stato di importanza fondamentale.
Dove sta la vera grandezza?
Il messaggio era chiaro: la vera grandezza, l’unica a cui aspirare, non risiede nel potere terreno o nella conquista, ma nella santità. Tralasciando questo dettaglio, i media hanno perso l’occasione di veicolare una distinzione cruciale e di proporre un modello alternativo e pacifico di grandezza in netto contrasto con le pericolose ideologie del nostro tempo.
Nei Pensieri, Blaise Pascal distingue tre ordini di grandezza: quello della carne, che si manifesta nella forza, nella bellezza e nella ricchezza, splendori che il tempo consuma; quello dell’ingegno, che si esprime nella cultura, nella scienza e nel genio, lumi che rischiarano ma non salvano; e, infine, il più alto, quello della carità, la bontà che si fa grandezza spirituale.
Pur avendo conosciuto sia la gloria materiale sia l’eccellenza dell’intelletto, Pascal riconosceva come assoluto solo quest’ultimo ordine e ad esso volgeva la sua aspirazione alla santità. Eppure, è la forma di grandezza meno ambìta: non perché irraggiungibile, ma perché invisibile agli occhi del mondo. Forse – come Pascal stesso sembra suggerire –, soltanto chi abbia sperimentato fino in fondo la vanità e il vuoto dei primi due ordini può riconoscerne la superiorità.
Se non che, il nostro comune concetto di grandezza non è solo vano. È anche pericoloso.
In alcune coraggiose pagine di La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano Simone Weil descrive Adolf Hitler come un adolescente sognatore che si aggira solitario per le vie di Vienna, povero, frustrato, affamato di gloria, deciso a entrare nella storia. A ispirare i suoi sogni è la «falsa concezione di grandezza», promossa dalla cultura della società in cui vive, appresa sui banchi di scuola e nelle università, inculcata dalla famiglia attraverso l’educazione, incarnata dai modelli che gli vengono additati come esempi.
Di chi la colpa – si chiede in queste pagine lucidissime la filosofa – se Hitler non ha saputo scorgere un altro genere di grandezza che non fosse quello del delitto?
Con sicurezza Weil punta l’indice contro quella cultura che ha promosso i valori che hanno ispirato le azioni di Hitler, contro quegli storici che nei loro libri sospendono ogni giudizio morale quando si tratta di raccontare le gesta dei vincitori del passato.
A salire per primi sul banco degli imputati di questo processo alla storiografia sono dunque coloro che forniscono al pubblico le idee di grandezza e gli esempi che le illustrano, ovvero gli intellettuali, coloro che – scrive Weil – sanno tenere la penna in mano.
«Da un biografo di Hitler sappiamo come, fra i libri che hanno esercitato una profondissima influenza sulla sua gioventù, vi fosse un’opera di infimo ordine su Silla. Che importa il fatto che fosse di infimo ordine? Essa rifletteva l’atteggiamento della cosiddetta classe dirigente… Se Hitler ha desiderato il genere di grandezza che vedeva glorificato in quel libro e dovunque, non c’è stata colpa da parte sua. Quella è la grandezza, infatti, che ha raggiunto, quella medesima alla quale noi tutti ci inchiniamo quando volgiamo gli occhi al passato».
Il fascino della “grandeur”
Ovviamente, non solo la storiografia, ma anche la letteratura e la filosofia che esaltano quel genere di grandezza sono colpevoli.
Ebbene, se si guarda alle gesta compiute da Hitler dall’angolatura adottata in queste pagine, con le sue azioni egli ha comunque raggiunto il suo scopo. Ha, cioè, ottenuto la grandezza che cercava, ha «fatto la storia».
«Si parla di punire Hitler. Ma non lo si può punire. Voleva una cosa sola e l’ha avuta: essere nella storia. […] Qualunque cosa gli si infligga, si tratterà̀ sempre di una morte storica, di una sofferenza storica; sarà storia. Tutto quel che si vorrà imporre ad Hitler, non gli impedirà di sentirsi una creatura grandiosa. E soprattutto non impedirà, fra venti, cinquanta, cento o duecento anni, a un piccolo ragazzo sognatore e solitario, tedesco o no, di pensare che Hitler è stato un essere grandioso, che ha avuto dal principio alla fine un destino grandioso, e di desiderare con tutta l’anima un eguale destino. In questo caso, guai ai suoi contemporanei».
Nella scena in cui il giovane Hitler vaga per le vie della capitale austriaca, mosso dall’ambizione di conquistarsi un posto da protagonista nella storia, Simone Weil traduce visivamente, con un’immagine di straordinaria forza evocativa che resta impressa nella mente e nel cuore del lettore, il suo giudizio senza appello contro il desiderio di potere e la volontà di conquista. È una condanna netta, ribadita con severità in tutti i suoi ultimi scritti. E la sua conclusione sul movente che avrebbe ispirato la politica aggressiva di Hitler, come di Mussolini o di Stalin, ma anche, per venire alla storia della Francia, di Luigi XIV o di Napoleone, l’idolatrica ricerca della grandeur, l’ambizione di voler «fare la storia» non appare per nulla semplicistica o ingenua, quando si guarda alla vicenda privata di questi personaggi.
Ma attenzione: sarebbe un errore pensare che l’ambizione verso quel genere di grandezza storica condannato da Weil sia radicata soltanto nel cuore dell’uomo dalla forte personalità. Essa abita anche nell’uomo comune – e occorre aggiungere – nell’uomo comune di ieri come di oggi.
Il nostro ideale di grandeur non differisce, infatti, in modo sostanziale da quello che ha ispirato a Hitler le sue azioni, come nota la filosofa con lucidità: «La nostra concezione della grandezza è quella medesima che ha ispirato tutta la vita di Hitler. Quando la denunciamo senza minimamente ravvisarla in noi stessi, certo gli angeli devono piangere o ridere».
Esiste una grandezza non fondata sulla forza?
Durante l’ultima sessione di laurea, lo scorso luglio a Ca’ Foscari, una laureanda sensibile e intelligente ha concluso la discussione della sua tesi su Simone Weil rivolgendo al corpo docente e al pubblico una domanda diretta: Siamo ancora in grado di riconoscere un concetto di grandezza non fondato sulla forza?
Viviamo infatti in società che – forse ancor più che in passato, complice il declino del sentire religioso – esaltano la competizione, in cui si confonde la gentilezza e l’attenzione all’altro con la debolezza, in cui l’unico orizzonte sembra essere l’affermazione di sé e il successo a ogni costo. Dove non si sente parlare d’altro che di carisma del leader, della forza di far valere i propri disegni, in cui si ammirano solo i potenti. In questa situazione è sempre più difficile ricordarsi che esiste anche un’altra tavola di valori, un altro genere di grandezza. La grandezza nella bontà.
Per questo motivo, forse, non omettere il richiamo del papa alla grandezza della santità sarebbe stato importante.
Per me, per la mia vita, per le mie scelte, è stato un utile «memo». In un tempo che idolatra la forza, la santità – come pienezza umana, come capacità di amare – appare quasi una follia. Ma forse è proprio questa «follia» a salvare il mondo, ogni giorno, in silenzio.
E allora sì, vale proprio la pena ricordarsene.






Mettere con matrimonio e verginità consacrata il sacramento dell’ ordine mi sembra un errore teologico.
Perché? Chiedo con curiosità: parlando di vocazione (com’era il contesto), sia il matrimonio sia l’ordine sono due sacramenti. Dov’è mai l’errore?
Il concetto di grandezza ha infestato il pensiero cattolico per secoli.
Io non desidero giovani “santi”, ma giovani SANI.
E’ tanto diverso il concetto alla fine? Santità è sinonimo di vivere bene, in salute non solo meccanicamente fisica ma anche esistenziale.
Sani come giovani animali sani ? Ma non di sola sanita’ fisica vive l’ uomo !
Purtroppo anche un settimanale cattolico in copertina portava il titolo a caratteri cubitali: “Ragazzi aspirate a cose grandi”, omettendo la parola santità! Se il problema era lo spazio, perché non scrivere: “Ragazzi aspirate alla santità”?
Sarebbe interessantissimo, a mio avviso, valutare la ricezione del messaggio del papa presso i giovani, a partire da quelli che si dichiarano cattolici (e magari hanno anche partecipato al giubileo dello scorso luglio). In particolare, penso, sarebbe interessante sapere cosa loro ne pensano del legame tra santità e scelta di uno specifico stato di vita (matrimonio, consacrazione, ordine). Perché questo è in fondo (mi sembra) un messaggio non nuovissimo da parte della Chiesa (l’attuale pontefice semplicemente lo riprende con il suo stile personale). Capire perciò se tale invito/messaggio è davvero capito, accolto e condiviso dai giovani sarebbe importante.
Davvero giusta questa sottolineatura. E per non lasciare nel vago ideale la santità, bisogna aggiungere che il Papa ha (coraggiosamente, mi pare) indicato nell’amicizia con Cristo tre vie di santificazione per una scelta radicale e piena di significato. Matrimonio, ordine, consacrazione religiosa. Bellissimi sproni, non solo per la gioventù…