
«Sta arrivando il vescovo, dove si va a preparare per la celebrazione…?». Gli si indica una stanza nascosta, ben discreta, attigua alla sacrestia. È la festa dell’Assunta.
Con il pensiero corro all’esperienza che, un tempo, mi aveva particolarmente colpito. Accanto alla nostra parrocchia italiana, a Parigi, vi era la chiesa della comunità armena. Quella domenica arrivava il loro vescovo. Anzi, lo trovavo già ritto in piedi, in mezzo al popolo, dove in due o tre rapidamente lo spogliavano. Poi, sotto gli occhi di tutti lo rivestivano, uno a uno di tutti i paramenti sacri fino al copricapo, una luminosa mitra d’oro, ornata di icone e pietre preziose. Uno splendore: pareva lui stesso un’icona. Veniva in mente il commento di sant’Agostino: «Cristiano con voi, vescovo per voi!». Per sottolineare il legame tra il pastore e il suo gregge, pur avendo un ruolo di guida è parte della comunità, di una chiesa sinodale che cammina insieme verso la stessa meta.
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In questo senso, all’estero adoravo vedere dei preti pregare con il popolo orante prima della celebrazione. Poi, qualche istante prima, partire per prepararsi alla liturgia… Invece, da noi spesso vedo apparire il prete solo qualche istante prima, direttamente in sacrestia. Come paracadutato.
L’accoglienza o il saluto finale, personale, del pastore a una celebrazione è cosa preziosa, vitale per una comunità. Osservo padre Vincenzo, quarant’anni, salutare con entusiasmo a uno a uno i fedeli che se ne vanno al termine della messa, stringendo la mano, accarezzando i bambini, incitando gli anziani con un «sempre avanti!», altrettante vitamine per questi dal passo incerto… Senz’altro, uno stile imparato nei suoi anni di Germania. Ma questo modo lo ritrovo in Francia, in Svizzera, perfino in Inghilterra nelle comunità anglicane…
Ricordo, lo stupore di una ragazza italiana all’uscita dal culto, a St. Martin in the Fields (Londra) e trovarsi a dare la mano alla donna-prete che aveva appena celebrato, anzi, sentirsi invitare, essendo straniera, a prendere un caffè insieme. «No, io non davo il saluto finale – mi interrompe nei miei pensieri padre Roberto – nella mia parrocchia davo il benvenuto, davanti al portone della chiesa». E così era l’occasione di sentirsi dire spesso, prima della messa: «Padre può pregare per me… avrò un intervento questa settimana». Oppure l’invito a pregare per qualche altro evento o ammalato in famiglia.
Ricordo, poi, a Marsiglia, quando si attendeva lungamente in sacrestia il vescovo, che non arrivava… Ma poi, qualcuno stupito correva a dirci: «Ma fuori c’ è il vescovo, è lì che accoglie e saluta la gente che arriva…».
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All’estero, il saluto personale ad ognuno, fatto anche sul sagrato antistante, dopo una celebrazione – al posto di rifugiarsi in sacrestia – era sempre occasione di un incoraggiamento, un complimento, un sorriso, un tocco di umanità, un pro-memoria di un incontro… Tanto benefico all’anima, quanto al cuore per la gente.
Anche l’accoglienza in seno alla celebrazione si rivela importante. Ricordo di un gruppo di portoghesi arrivato a Padova, a una messa in parrocchia in italiano, non una parola di benvenuto, tanto meno una nella loro lingua. Alla Basilica, invece, dopo i primi entusiasmi, un sentimento di rabbia. «Ma come! Antonio è nostro, carne della nostra carne, sangue del nostro sangue, niente sulla sua origine… il suo cognome è diventato “da Padova!”».
Invece, un gruppo parrocchiale di giovani italiani in visita a Parigi, li avevo indirizzati alla vicina chiesa francese. Al ritorno, immediatamente: «Padre, non abbiamo capito nulla, era tutto in francese!». Però, poi, raccontandomi, avevano capito molte altre cose. All’inizio, forse, un benvenuto, perché tutta la gente si voltava verso di loro. I momenti forti, poi, non mancavano. Con una voce dolcissima, una ragazza, al microfono, dirigeva con la mano il canto dell’assemblea, facendo pure da voce solista. Al dare la pace, lentamente, guardandovi negli occhi, la gente vi metteva le due mani nelle vostre, sussurrando con un sorriso: «La paix du Christ». Alla fine, si invitava il gruppo davanti a tutti per fare in italiano un canto a Maria. Che successo! Applausi.
Come missionario, è bello vedere e incontrare modi e mondi differenti. «La differenza crea il senso», sentenziava un noto semiologo. Ma, in fondo, mi ricorda quel sociologo che con il suo apprezzamento di ogni cosa interessante incontrata concludeva: «Sono come le api, con tutto ciò che incontro, faccio il mio miele!».






Molto bello il ricordo del vescovo a Marsiglia che accoglieva la gente fuori, rende concreto ciò che Renato Zilio chiama miele fatto di relazioni e gesti semplici.