La crisi di Gaza e la Chiesa australiana

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Foto LaPresse

La crisi umanitaria a Gaza ha dimostrato ancora una volta che i cattolici australiani non dovrebbero guardare alla loro Chiesa per una leadership morale collettiva di alto profilo. Il massimo che ci si può aspettare è una risposta frammentaria. Questa è comunque la mia recente esperienza, iniziata dolorosamente dai rapporti con la Conferenza Episcopale Australiana (ACBC) e conclusasi in modo più positivo con l’impegno di Caritas Australia.

Lo scopo del mio racconto non è quello di puntare il dito, ma di gettare ulteriore luce sull’ecosistema cattolico, ovvero di illustrare quanto sia diversificata e complessa la Chiesa cattolica in Australia, come guida per chi è incline a sollecitare la Chiesa ad agire su qualsiasi causa.

La storia inizia con la creazione di un nuovo gruppo di sostegno, Catholics for Justice and Peace for Palestinians (CJPP). A metà maggio questo nuovo gruppo, promosso da un illustre cattolico, John Menadue, editore di «Pearls and Irritations», ha cercato di invitare i nostri vescovi cattolici ad assumere una posizione più forte a sostegno dei palestinesi. Facendo riferimento ai papi Francesco e Leone, ciò includeva il sostegno a un cessate il fuoco immediato, il rilascio degli ostaggi e dei prigionieri e il riconoscimento di uno Stato palestinese.

Quando il gruppo ha chiesto al segretario generale dell’ACBC i recapiti di ciascun vescovo, gli è stato risposto che non era possibile e che la posizione dell’ACBC era contenuta nella Dichiarazione sulla giustizia sociale dell’anno precedente intitolata «Verità e pace: una parola evangelica in un mondo violento» – un testo generale sulla disinformazione, la violenza e la verità. Questo è stato il primo rifiuto ricevuto.

Abbiamo quindi deciso di scrivere solo al gruppo più ristretto di arcivescovi, chiedendo il loro sostegno e avvisandoli che avremmo reso pubblica la nostra posizione a tempo debito. Abbiamo pensato che fosse la cosa migliore da fare, data la loro maggiore visibilità. Silenzio. Il nostro secondo rifiuto. Temevamo che il nostro approccio fosse fallito.

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Poco dopo, il 20 maggio, la nostra dichiarazione «È tempo che i vescovi cattolici alzino la voce per la Palestina» è stata diffusa ai media e pubblicata su «Pearls and Irritations» – e successivamente dall’Australasian Catholic Coalition for Church Reform (ACCCR), che ha inoltrato la nostra dichiarazione a tutti i vescovi australiani.

Lentamente abbiamo iniziato a ricevere risposte incoraggianti da alcuni vescovi, membri della Commissione episcopale per la giustizia sociale, la missione e il servizio, che ci hanno comunicato che qualcosa era in cantiere. Hanno persino accolto con favore il nostro intervento. Il 3 giugno la Commissione Episcopale ha pubblicato un appello alla pace. Si è unita a papa Leone nel manifestare per la situazione «preoccupante e dolorosa» a Gaza e ha chiesto «l’ingresso di aiuti umanitari dignitosi e la fine delle ostilità». Ha ricordato la Dichiarazione sulla giustizia sociale del 2024 e ha suggerito tre passi positivi: dialogo autentico, verità e formazione.

Si è trattato di una dichiarazione discreta e cauta, in tipico linguaggio ecclesiastico, priva di un senso di urgenza, che ha anche risentito del fatto di non essere stata rilasciata da tutti i vescovi, ma da questa piccola commissione presieduta dal vescovo Timothy Harris di Townsville. Tuttavia, l’abbiamo apprezzata. Alcuni media cattolici diocesani le hanno dato un po’ di risalto, ma sembra che abbia avuto scarso impatto sui media mainstream.

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Nel complesso, il fallimento dell’ACBC, e degli arcivescovi con più esperienza, nel coinvolgere la comunità e la cautela della commissione episcopale potrebbero riflettere la disunione interna dell’episcopato, il loro istinto di preservare l’unità in una comunità cattolica divisa e il timore di coinvolgimenti politici. Ma la loro posizione rischia di erodere ulteriormente l’autorità morale che molti cattolici ancora si aspettano da loro.

Più o meno nello stesso periodo, il 23 maggio è stata pubblicata su «Pearls and Irritations» una dichiarazione molto più forte intitolata «Time to end the silence» (È ora di rompere il silenzio) di Julie Macken, facilitatrice dell’Ufficio Giustizia e Pace dell’arcidiocesi di Sydney. Macken ha affermato che l’ufficio «non può rimanere in silenzio di fronte a una tale normalizzazione della violenza di Stato [da parte di Israele]. Non possiamo permettere che il nostro silenzio sia interpretato come un consenso alla pulizia etnica, alla fame e al genocidio».

Inoltre, «noi dell’Ufficio Giustizia e Pace ci scusiamo per il nostro silenzio. Non abbiamo scuse, ma forse, come milioni di altri australiani, abbiamo continuato ad aspettare che i nostri leader prendessero l’iniziativa, che Israele si ritirasse, che fosse rispettato il cessate il fuoco, che fossero rispettati gli obblighi dei trattati internazionali. Quel giorno non è mai arrivato. Queste non sono scuse. Non ci sono scuse. Ma in assenza di leadership e di rispetto per la nostra comune umanità, diciamo basta».

Macken non ha menzionato specificamente la leadership della sua Chiesa australiana. Ma avrebbe potuto farlo, perché la situazione era la stessa.

Dalla sua sede in un’altra zona di Sydney, Caritas Australia, l’agenzia di aiuto e sviluppo della Chiesa, ha lanciato una vera e propria campagna di emergenza per Gaza dall’ottobre 2023. Collabora con la sua partner, Caritas Gerusalemme. Nel corso del tempo, la sua preoccupazione per la popolazione di Gaza è aumentata. Il 14 maggio di quest’anno, sulla scia delle parole di papa Leone, si è unita alla Catholic Religious Australia (CRA) per chiedere «la fine delle sofferenze umane» e il libero accesso agli aiuti umanitari.

La presidentessa della Caritas, Kirsten Sayers, ha denunciato «il grave livello di sofferenza umana a Gaza» e la direttrice esecutiva della CRA, Anne Walker, ha condannato «l’intensificarsi delle azioni offensive a Gaza». Poi, il 17 luglio, la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, una delle preferite di papa Francesco, ha subito un devastante attacco da parte delle forze israeliane.

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All’improvviso, sono stato contattato dal team della Caritas che mi ha informato che Caritas aveva notato con interesse la dichiarazione di Catholics for Justice and Peace for Palestinians e ci ha invitato a partecipare a una veglia di 24 ore «Voices for Gaza» sul prato del Parlamento a Canberra il 22 luglio, in onore dei 17.000 bambini uccisi a Gaza. Io e mia moglie abbiamo accettato. Caritas ha organizzato questa veglia molto toccante insieme ad altre organizzazioni della società civile, tra cui Oxfam Australia, Save the Children e Medici Senza Frontiere. Tali atti pubblici di testimonianza condivisi con organizzazioni laiche aggiungono una forte energia alle dichiarazioni pubbliche.

I funzionari della Caritas hanno dato seguito all’iniziativa partecipando alla Marcia per l’umanità attraverso il Sydney Harbour Bridge il 3 agosto. Ha organizzato incontri informativi con Caritas Gerusalemme, collaborando con alcuni vescovi e religiosi e pianificando ulteriori azioni collettive. Il nostro gruppo CJPP è stato tra gli invitati a una speciale funzione interreligiosa presso l’Australian Overseas Aid Volunteer Memorial, nel parco dell’Australian Centre for Christianity and Culture di Canberra, organizzata dalla Caritas, tra gli altri, in onore della Giornata mondiale dell’aiuto umanitario il 19 agosto. È stata un’occasione profondamente spirituale, alla quale hanno partecipato rappresentanti di varie comunità religiose, tra cui il cardinale Mykola Bychok di Melbourne.

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La Chiesa cattolica ha molti occhi, orecchie e voci diverse. Come conciliare gli approcci divergenti all’interno di essa? Ci sono silenzi, compartimenti stagni, lavoro dietro le quinte e in pubblico, sostenitori dell’equilibrio, del dialogo e del terreno comune, e una certa volontà di costruire alleanze interreligiose e di uscire allo scoperto.

Mi chiedo quale sia il modo migliore per gli attivisti cattolici di procedere quando è necessaria una leadership morale pubblica. Se la leadership della Chiesa è destinata a seguire o, peggio, a rimanere indietro rispetto alla società civile in tali occasioni, allora altri gruppi, agenzie e individui cattolici devono prendere il testimone. In questo modo contribuiscono a recuperare parte dell’autorità morale perduta dalla Chiesa nel suo complesso.

  • Pubblicato sulla rivista online dei gesuiti australiani Eureka Street (originale inglese, qui).
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