È entrata in vigore lo scorso 9 gennaio la nuova Ratio Nationalis Institutionis Sacerdotalis per l’Italia, approvata ad experimentum per 3 anni dal Dicastero per il Clero l’8 dicembre 2024. Non si può certo dire che la cosa sia passata inosservata, vista l’attenzione che la stampa (laica) le ha riservato, anche se attenzione molto parziale, non al testo in sé, ma a una sua parte precisa, anche molto ridotta (due numeri su un totale di circa 120), quella riguardante chi si accosta ai Seminari con orientamento omosessuale. Ma ne parleremo più avanti (per non ripetere lo stesso errore), non senza aver prima tentato di vedere nel suo insieme senso e messaggio di questo documento nel momento storico che stiamo vivendo.
Tempo critico
Ratio vuol dire regola, progetto definitivo, indicazione vincolante… Non è facile in un tempo come il nostro parlare in questi termini, per di più in relazione a un’istituzione che sta conoscendo una fase piuttosto problematica, e a una figura che ne è al centro (sia dell’istituzione che della crisi), come quella del prete. Il presente documento corre il rischio di farlo, senza pretendere di rispondere a ogni dubbio o di definire proprio tutto né di proporre chissà quali novità, ma ricordando che questo testo è solo e comunque un punto di riferimento per il progetto che ogni Chiesa locale dovrà pensare, discernere e porre in atto. E un domani condividere, in una Chiesa sinodale.
Ma c’è una domanda, neanche tanto nascosta anche se non appare nell’indice, che fa da punto di partenza dell’analisi e poi di confronto d’ogni proposta qui contenuta: quale prete e per quale Chiesa?
Missione come orizzonte formativo
Si dirà che non è proprio una novità, e invece forse non tutti ammettono fino in fondo che oggi la nostra Italia è terra di missione, né più né meno.
In terra di missione
Terra di missione suppone preti missionari. Che non mirano alla conservazione della fede, ma al suo annuncio; che non rimpiangono il passato sprecando energie per riesumarlo (anche perché sanno bene che non tornerà e che è un bene che non torni), ma godono di vivere in un tempo che sarà anche critico, certo, ma è più vero, in cui “cristiani non si nasce, ma si diventa” (Tertulliano); preti che non si lasciano incantare dal mito dei numeri o delle chiese piene, ma che cercano d’accompagnare il cammino di crescita del singolo credente, perché il suo atto di fede sia libero e responsabile; che non s’accontentano del consenso a basso prezzo nel gruppo chiuso dei fedeli, ma che si sentono inviati anche a chi non crede o crede poco, pastori soprattutto della “Parrocchia dei non credenti”, che è molto numerosa, e la cui “frequentazione” diventerebbe per ogni prete enorme grazia, provocazione per la sua conversione e la crescita nella sua poca fede, monito a non sentirsi superiore a nessuno, attenzione ad annunciare il volto autentico del Padre!
Dall’orizzonte (pastorale) all’identità (presbiterale) alla pedagogia (formativa)
È chiaro che, se questo è l’orizzonte o la prospettiva di lavoro, tutto il cammino di formazione iniziale, in ogni suo àmbito, è orientato a plasmare uno che sappia muoversi in quel contesto, che si liberi da aspettative clerical-narcisistico-pagane o da sogni pericolosi di potere (ne sappiamo qualcosa oggi!), che studi e s’appassioni per una teologia che si può tradurre in parole semplici e ricche di vita e di senso per tutti; che viva lui per primo una fede che lo rende capace di dare ragione della speranza che è in lui, e una spiritualità tutt’altro che intimistica ma che può esser condivisa regalando beatitudine, gusto di vivere e di credere; che impari a celebrare una liturgia che… celebra il gesto salvifico di Dio, non l’esibizione vana e patetica del suo io; che diventi in particolare uomo di relazione, che rispetta il mistero dell’altro e non s’approfitta della sua vulnerabilità, che sa voler bene senza possedere e lasciarsi possedere, sa esser amico senza abusare di nessun affetto, sa metter Dio al centro d’ogni relazione, non solo perché il centro spetta all’Eterno, ma perché questo è il senso del suo celibato…[1]
In altre parole è l’orizzonte pastorale a tracciare il senso dell’identità presbiterale e a indicare la corrispondente pedagogia o cammino educativo che conduce in quella direzione, nella formazione iniziale e permanente. È il principio che anima anche la Ratio, che forse avrebbe potuto esser ancor più esplicitato e concretamente declinato, ma che è comunque indicato come ciò che ispira anche ogni progetto educativo in questo momento della vita ecclesiale.
Missione, locus theologicus della formazione
In perfetta coerenza con quanto appena detto, la Ratio fa una proposta precisa sul piano dei tempi e dei luoghi di formazione.
Tempo di formazione in missione
La proposta è quella d’un tempo di formazione fuori del Seminario, di fatto collocato tra la conclusione del biennio discepolare, come esperienza pastorale, caritativa e missionaria. Si tratta d’una sorta di “iniziazione alla Chiesa e al mondo”, attraverso una conoscenza diretta e immediata della comunità cristiana nelle modalità che formatori e vescovi sapranno individuare. Ma non solo per acquisire informazioni utili per una sorta di “intelligenza artificiale pastorale” o per “far pratica” e “esperienza”, bensì e soprattutto con la disponibilità interiore di lasciarsi formare dalla missione, dal contesto ministeriale, dal vangelo che si annuncia, ma pure dai rapporti umani, dalla fede della gente, dall’accompagnamento di chi non è ancora giunto all’atto credente, dalle critiche di chi lascia la Chiesa, dei giovani che non si sentono capiti da una chiesa “vecchia e chiusa, lontana e ripetitiva, triste e fissata sulla morale”[2], ma pure dalle sofferenze, dai dubbi, dalle provocazioni degli eventi, della storia, della cultura…
D’altronde, se la missione è l’orizzonte formativo è del tutto naturale che sia già in qualche modo il luogo ove si fa formazione vera e propria e ove possa nascere e svilupparsi una sensibilità davvero presbiterale, o che vi siano anche altri agenti formativi oltre quelli classici e istituzionali, altre mediazioni educative legate alla vita e a quella che sarà poi la vita normale del futuro presbitero.
È la vita che forma (non il seminario)
C’è un dato che credo tutti potremmo sottoscrivere: mai un seminario ha formato nel senso pieno dell’espressione un sacerdote, è la vita che forma il discepolo di Gesù e il pescatore di uomini! La vita con tutte le sue intemperie e complessità, ma pur sempre quale mediazione misteriosa dell’azione del Padre, il nostro unico “Padre maestro”, che forma in ciascuno il cuore del Figlio attraverso l’azione dello Spirito. Ma sempre dentro e attraverso la vita stessa, fino al momento della morte, ove la formazione raggiungerà il suo vertice più alto.
È, in fondo, l’idea teologica e la vera motivazione della formazione permanente, che giustamente la Ratio considera come il paradigma di tutto il cammino formativo, e di cui quella iniziale rappresenta solo il primo momento. Ma che è essenziale, perché mette o dovrebbe metter il soggetto in condizione di lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita, o di imparare costantemente da essa, dagli altri, santi e peccatori, dai successi e dai fallimenti, in ogni età e ambiente… Ben sapendo che essa è “piena di grazia”, o che “tutto è grazia” (Bernanos).
Docibilitas, non solo docilitas
Questa disponibilità umile e intelligente è, in effetti, la condizione della docibilitas, sottolineata dal documento[3], che suppone un cammino di liberazione da paure e resistenze, rigidità e chiusure nei confronti della realtà in genere, delle relazioni e degli altri, persino di Dio e della sua parola. È proprio tale libertà che rende la persona docibilis, prete che ha imparato a imparare, da tutto e da tutti, a lasciarsi toccare e provocare e metter in crisi dalla vita. Dunque, anche creativamente fedele alla propria scelta e capace di rimotivarla, non solo di non trasgredirla, come tende a fare chi è solo docile.
Rigorosamente parlando, solo una persona docibilis (non solo docilis), sul piano psicologico e spirituale, potrebbe esser ordinata presbitero, perché libera da ogni presunzione d’esser già arrivato, d’aver solo da insegnare agli altri e di non aver nulla da imparare dalla vita e dalle relazioni (perché in realtà non ha mai imparato a imparare). La libertà da queste presunzioni rovinose consente di farsi leggero compagno di viaggio in una Chiesa sinodale e solidale col cammino d’ogni uomo e d’ogni donna.
Se il presbitero è questo compagno di viaggio, che condivide fatiche e gioie di questo percorso, allora questo tempo di esperienza pastorale extra moenia proposto dalla Ratio è davvero significativo e importante. Probabilmente potrebbe avere un ruolo formativo anche più rilevante e occupare uno spazio di tempo più congruo. Qualcuno giunge a dire che tutto o quasi il cammino formativo presbiterale iniziale dovrebbe avvenire in questo tipo di contesto missionario, e non nel seminario che rappresenta una situazione di vita in qualche modo artificiale, o che poi chi diventa prete non vivrà più.
Come già detto, il documento lascia alle singole Chiese locali la libertà di muoversi con creatività e attenzione alle diverse situazioni territoriali. Perché tutto il cammino faccia crescere sempre più un presbitero missionario, con in cuore la passione della missione!
Missione come criterio di discernimento
Infine, farei ancora riferimento alla missione e al senso della missione per affrontare anche la questione che ha motivato una certa discussione nella stesura di questo testo, a quanto se ne sa, quella delle persone con orientamento omosessuale.
Il testo ne parla in due numeri (43-44), nei quali s’intravvede forse una duplice linea interpretativa. Da un lato, l’incipit del n. 44, ove si riporta la Ratio Fundamentalis del 2016[4], con i 3 criteri già proposti, a loro volta, dall’Istruzione del 2005. E che vietano l’ammissione al Seminario e agli Ordini sacri di “coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay”[5]. Criteri precisi, a livello prevalente della condotta, ma che necessiterebbero quanto meno d’una certa riformulazione, e che almeno all’apparenza non trovano un seguito nel resto dello stesso numero. Ove il discorso si apre a una lettura più ampia e articolata, e a criteri più direttamente connessi con l’identità della vocazione e missione presbiterale e con la totalità della persona.
Criterio dell’integrazione
La Ratio chiede di verificare che il giovane sia in grado di “integrare”[6] il proprio orientamento sessuale, ovvero non solo di riconoscerlo come parte di sé, ma di viverlo e gestirlo “coerentemente con la natura e gli obiettivi propri della vocazione presbiterale. È essa a ispirare vita e stile relazionale del sacerdote celibe e casto” (43).
Mi pare un’affermazione importante. Che sta a dire che esiste nella vita del chiamato un punto di riferimento prioritario e finale, costituito dalla sua identità e missione, che è come una naturale regola di vita: gli indica come vivere la propria affettività e ispira il suo stile relazionale, dunque anche il proprio orientamento, in funzione e al servizio del ministero che ha scelto. E sprona dunque a vivere l’orientamento stesso non come ostacolo, ma come potenzialità, con la creatività di chi vuol esser fedele alla chiamata, nell’amicizia, nella relazione d’una certa intensità, nel coinvolgimento emotivo, nella libertà di voler bene e di lasciarsi voler bene.
Castità come garanzia del dono di sé
La castità diventa allora la cifra del modo d’amare e di vivere le relazioni tipiche del celibe e del prete celibe, chiamato a vivere molte relazioni ma senza possedere alcuno. La castità è il contrario del possesso in tutti gli ambiti della vita.
Questo non significa solo controllare i propri impulsi sessuali, ma crescere nella qualità di relazioni evangeliche libere da ogni forma di potere sull’altro e d’autoreferenzialità, e capaci di custodire con rispetto i confini della propria e altrui intimità, ovvero il mistero dell’io e del tu. “Esser consapevole di ciò è fondamentale e indispensabile per realizzare l’impegno e la vocazione presbiterale” (44).
Scelta libera e responsabile
Una scelta è libera quando non è motivata da paura o calcolo, ma dall’attrazione per un valore/ideale che il chiamato ha scoperto e sente importante e prezioso, qualcosa di vero-bello-buono in sé e che rende vera-bella-buona la sua vita, e non solo per sé, ma anche per gli altri, nella Chiesa[7].
La scelta è responsabile quando il soggetto è in condizione di vivere quella opzione con la rinuncia e le conseguenze che essa implica, come per altro ogni scelta. Ovvero, nel caso del celibe, quando l’attrazione dà la forza di rinunciare a qualcos’altro, che pure il soggetto sente desiderabile e cui gli costa dire no, ma non al punto di non poterne fare a meno. Di conseguenza quella rinuncia è possibile, è un “no” a qualcosa reso credibile da un “sì” a qualcos’altro, è rinuncia libera e piena di senso, non frustrazione che lascia l’amaro in bocca e il vuoto nel cuore, e che prima o poi rischia di scoppiare.
Non isolare la tendenza, ma leggerla nel quadro globale della personalità
Altro prezioso criterio, raccomandato dal testo, è quello di non isolare la tendenza in sé, sganciandola dall’insieme della personalità, né discernere l’autenticità vocazionale a partire unicamente dall’orientamento sessuale (come fosse l’elemento decisivo), ma – al contrario – “coglierne il significato nel quadro globale della personalità del giovane” (44). È la persona tutta intera al centro del discernimento, non una singola componente della sua personalità.
Perché, come sappiamo, più importante e decisivo dell’orientamento in sé, è il modo di viverlo, e dunque l’equilibrio e armonia generale della persona nel prenderne coscienza, nell’accettarlo come parte di sé, nel gestirlo con sufficiente libertà e serenità, con la rinuncia che comporta, e, in particolare, nell’integrarlo con la natura e gli obiettivi della vocazione presbiterale.
Ma, come si può ben vedere, tutti questi criteri vanno oltre la questione dell’orientamento sessuale in quanto tale, ma cercano di leggerlo in una prospettiva doppiamente integrale: alla luce della vocazione e della missione del chiamato, e nel quadro generale della sua personale maturità e consistenza.
E proprio per questo, credo, consentono alla fine di leggerlo correttamente in vista d’un discernimento.
[1] È singolare che, in un testo come questo sulla formazione in genere presbiterale, si citi per due volte il documento del Concilio Vaticano II Ad gentes (esattamente ai numeri 4 e 13)!
[2] Vedi i periodici rilevamenti del Centro Toniolo sull’atteggiamento dei giovani nei confronti della Chiesa, puntualmente registrati e analizzati da P. Bignardi.
[3] Ne parla in due punti, al n. 41 e al n. 81, nota 112, ma interpretandolo in modo ancora parziale e legato soprattutto alla direzione spirituale.
[4] Cf. Congregazione per il Clero, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, Roma 2016, n. 199.
[5] Cf. Congregazione per l’Educazione cattolica, Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri, Roma 2005, n. 2.
[6] Nei due numeri che stiamo analizzando il verbo “integrare” è usato due volte.
[7] È la logica evangelica del tesoro trovato nel campo, cf. Mt 13, 44-46.
Questo articolo ha suscitato ina valanga fi commenti e allora mi sento di mettere qualcosa anche io, solo mi sembra qui, e mi è sembrato sempre di più nel vivere delle situazioni varie all’interno della Chiesa, che molte delle interlocuzioni avvengano tra sordi se non forse quando avvengono in ristretti centri di provenienza culturale comune e di mentalità precedentemente condivisa, ovvero tendenzialmente anche compattamente schierati, settari si direbbe letterariamente. Quanto ha riscaldato i commenti qui sopra dipende dagli abusi sessuali denunciati, che risultano d’altra ripugnanti riguardo qls livello, firmati o anonimi che siano, ma la pretesa esplicita del controllo morale da parte della comunità religiosa sulle abitudini private dei singoli e delle famiglie, non certo limitato alla fobia nei confronti dei comportamenti omosex è tra i lasciti pedagogici ratificati da Trento altrettanto di quanto in particolare è della regolamentazione dei seminari. Ciò contribuisce a creare delle premesse irrespirabili piuttosto che conviviali, e sostanzialmente più favorevoli all’esclusione – inizio della segregazione, non dimentichiamolo – o, ancora asso, all’ipocrisia più che all’amicizia. Al di là delle fissazioni dirigiste, a qualsiasi livello, è l’ossequio permanente alla mentalità che “nidifica tra le vopere” (per restare a Bernanos) che lascia proliferare (incontrollata) la gramigna.
i seminari sono nati dopo Trento per permettere ai preti di avere un minimo di cultura, perché prima molti, soprattutto nelle campagne, erano letteralmente analfabeti e dicevano messa a memoria – in “latinorum”! con tutti gli inevitabili sfondoni annessi -, costringere i candidati a passare dai seminari (*) è stata una vera, positiva, rivoluzione, ma oggi sono ancora necessari? non sarebbe meglio abolirli e pensare un altro modo per la formazione dei candidati? candidati all’Ordine, non al presbiterato e trovati dalla e nella comunità …
(*) per altro si deve sapere che i seminari hanno svolto una notevole funzione sociale di diffusione della istruzione: ho ancora buona memoria e faccio parte di una generazione che ricorda bene i tempi antecedenti il Vaticano II – all’apertura del Concilio avevo 14 anni -, a quell’epoca molti, soprattutto dalle campagne, finivano in seminario soltanto per studiare: parroci intelligenti adocchiavano i ragazzi più vispi e convincevano le famiglie a farli proseguire negli studi, le rette dei seminari erano praticamente simboliche e in diversi casi se ne faceva carico il parroco stesso, e così molti, anche miei coetanei, hanno potuto fare le medie – erano quelle con il latino – in qualche caso anche il liceo – rigorosamente il “classico” -, qualcuno è diventato anche prete, anche un buon prete; ma oggi questo è necessario soltanto in Africa e posti simili, un’Africa dove non a caso si hanno i seminari pieni e conosco piccolissime diocesi che ogni anno hanno fino a 15 nuovi preti, a cui i vescovi non sanno cosa far fare e neppure sanno come mantenerli … ma, infine, è una Chiesa pretecentrica che si vuole?
I seminari come istituzione obbligatoria nascono anche in reazione e imitazione del protestantesimo, in quanto è lì che comincia diffondersi l’idea di un’Accademia volta a formare o valutare i futuri pastori che devono essere eruditi nelle materia bibliche e teologiche, ma non solo.
Sicuramente, come dice lei, è stata un’istituzione importante, che non solo ha migliorato il livello qualitativo del clero cattolico, ma ha anche permesso a molte persone di avere conoscenze teoriche pratiche che sono poi state utili in tanti altri campi (es. Gregor Mendel).
Però, a distanza di tanto tempo, secondo me vanno quantomeno ripensati. I problemi a mio avviso sono due:
– si è affidata la formazione e valutazione dell’idoneità dei futuri candidati ai ministeri a un ente terzo rispetto sia al vescovo che alla comunità ecclesiale, ente che spesse volte ha dei criteri di scelta discutibili (es. seminari progressisti che espellono candidati idonei ma conservatori) e forma in modalità che sono aliene al sentire delle persone delle comunità che andranno a servire (es. candidati formati in maniera ‘tridentina’ a gregoriano e ipersacerdotalismo a cui vengono affidate parrocchie in cui tale sensibilità non esiste). Per non parlare di quelli che giudicano adatto al ministero tutto quello che passa il convento;
– ha fatto emergere l’idea che il prete sia un qualcosa che viene fornito da un qualcosa esterno e di cui noi possediamo un diritto, dimenticando che tutta la comunità ha un DOVERE di cercare al suo interno le persone adatte ai ministeri ecclesiali, a coltivarne le qualità umane e spirituali; a stimolarli a formarsi e soprattutto a pregare per loro.
Il “coraggio di guardare” che manca alla Cei: il rapporto indipendente sugli abusi a Bolzano, v. https://www.adista.it/articolo/73221Ho
Diocesi di Bolzano-Bressanone – Newsletter del 24 gennaio 2025 – numero speciale – Perizia “Abusi sessuali nella diocesi di Bolzano-Bressanone 1964–2023” (lingua italiana): newsletter con i link dei documenti, comunicati, registrazioni video e audio, aggiornamenti, link zoom degli incontri online, etc.
v.
https://www.bz-bx.net/it/newsletter-del-24-gennaio-2025-numero-speciale.html
Registrazione audio della conferenza stampa della Diocesi di Bolzano-Bressanone che si è tenuta ieri venerdì 24 gennaio 2025 (lingua italiana):
https://www.bz-bx.net/fileadmin/Missbrauch-Ombudsstelle/250124_-_Dichiarazioni_diocesi_su_busi_sessuali_ITA.mp3
La castità può essere condizione del dono di sé, ma non è detto. Il celibato e la castità non garantiscono il servizio e la vita nell’amore. Sarebbe paradossale dire che padri e madri di famiglia non possono vivere l’amore verso tutti. L’ideale del maschio celibe, rappresentate di Cristo, non risponde più all’ideale cristiano. E’ necessario copolvegere la questione in maniera radicale. Gesù si identifica con l’affamato, l’assetato, il forestiero, il nudo, il malato, il carcerato. Gesù si identifica anche con il Buon Samaritano. La crisi del sacerdozio ministeriale segnato dagli abusi di coscienza, sessuali e finanziari deve portare ad un ripensamento radicale.
Il suo commento è tanto essenziale, quanto ineccepibile. Condivido totalmente: non può essere il celibato, al quale teoricamente dovrebbe conseguire la castità, uno dei pilastri portanti nell’emulazione di Cristo nella Chiesa. Questi paraventi vetusti, senza fondamento teologico e storico, insulsi ed incosistenti, non fanno altro che distogliere dai temi essenziali, che lei ben elenca. Tutti vorremmo che il sacerdote della propria parrocchia fosse più preoccupato di quei temi che non a rifuggire le pulsioni carnali, umane. Peraltro come Freud predica l’uomo civilizzato è obbligato a una continua lotta contro la sua natura, ma se il livello del contenimento sopprime le pulsioni naturali oltre un certo limite l’esplosione in aberrazioni è più probabile. Tanti come me, penso, vogliono vedere e sperimentare l’umanità del prete uomo, il suo equilibrio e la sua dedizione convinta. Non interessa la sua presunta capacità di trascendere e vedere oltre, o magari interpretare DIo, paradosso ridicolo; tutti fatti per i quali resteremmo per certo delusi ed i delusi se ne vanno altrove.
Condivido totalmente queste considerazioni e a questo proposito vi invito a leggere il dossier sugli abusi (600 pagine) disponibile sul sito della Diocesi di Bolzano-Bressanone, prima diocesi in Italia ad avere affrontato seriamente la problematica, e vi farete un’idea più completa della sessuofobia che ha pervaso e pervade la Chiesa. Un rapporto distorto con il sesso, questo è sempre stato inculcato nei seminari, dalla masturbazione ai rapporti con le altre persone … un rapporto con la sessualità questo sì veramente “contro natura” che in molti casi ha finito per creare problematiche di natura psicologica e comportamentale. Come si può pensare che un uomo giovane – costretto ad autocastrarsi sessualmente – possa essere in grado serenamente di fare il “pastore” con donne, uomini, ragazzi e bambini? E tutto ciò, inoltre, ha finito per identificare la morale della Chiesa, il Vangelo, solamente con la morale ed il comportamento sessuale, dimenticando il comandamento unico e fondamentale, quello dell’amore verso i fratelli. Una morale sessuale di stampo prettamente maschilista, che ha sempre identificato nella donna (e nell’omosessuale, nel “diverso”) il male ed il peccato. Questa è ancora oggi una delle fondamentali cause della disaffezione delle nuove generazioni verso la Chiesa.
Come bene indica la sessuofobia cammina usualmente di pari passo con l’attribuzione storica alla donna del ruolo di tentatrice e peccatrice (si parte da Adamo ed Eva, come sappiamo), così come avviene per coloro che vivono una sessualità ed una genitalità differente dal canone. Non è strano, poi, che le donne non abbiano ruoli nella Chiesa; è una conseguenza ovvia di questo punto di vista.
Tale focalizzazione sul sesso manifesta una distorsione del pensiero, mai superata, non esclusiva degli ambienti clericali, ma propria anche di un buon numero di frequentatori degli spazi conservatori cattolici.
La maniacalità sta proprio nel porre il tratto umano e naturale, che affonda in aspetti non squisitamente legati alla genitalità come ci vorrebbero far credere, continuamente al centro dell’attenzione.
La Chiesa di ieri, come quella di oggi, è monomaniacale in relazione al sesso; lo rinnega, lo reprime, lo connota come peccato, nella migliore delle ipotesi, con diffidenza, lo lega all’affettività procreativa, ma esclusivamente all’interno del matrimonio, addirittura entra talvolta in modo assai poco elegante in quali pratiche sessuali siano moralmente lecite od illecite, etc… ma questo “benedetto” sesso è sempre al centro del pensiero, tanto da avere una posizione ed una dimensione importante nel dibattito.
Dentro questo quadro di maniacalità, non si può definirlo altrimenti, per forza, come si diceva, prima o dopo emerge l’aberrazione come in ogni contesto dove in modo ricorsivo vi sia un pensiero fisso, che nel caso specifico della castità rappresenta una negazione innaturalmente non fisiologica. Quanto saremmo più sollevati se sapessimo che i nostri preti non sono pentole a pressione, ma pentole comunissime; ci avvicineremmo loro con meno perplessità, perché ci sentiremmo più simili, e meno cautele, perché davanti a noi non vedremmo un potenziale represso, ma una persona comune.
Segno dei tempi. Il testo sui seminari teologici italiani è illustrato con una foto del seminario teologico greco-cattolico in Ucraina (29.04.2021, Ivano-Frankovsk)
“Castità come garanzia del dono di sé” mi fa rabbrividire! La sessualità è dono di sè , solo nella mentalità perversa e sessuofobica della chiesa cattolica la sessualità è degradata a “possesso” . La sessualità ben vissuta è relazione e dono di sé . È semmai la castità ossessiva e compulsiva che porta ai ben noti abusi della gerarchia cattolica ..che nulla hanno a che fare col dono di sé e molto invece con la patologia
Nell’articolo trovo parti discutibili o almeno mal formulate, come “La castità diventa allora la cifra del modo d’amare e di vivere le relazioni tipiche del celibe e del prete celibe, chiamato a vivere molte relazioni ma senza possedere alcuno. La castità è il contrario del possesso in tutti gli ambiti della vita. Questo non significa solo controllare i propri impulsi sessuali, ma crescere nella qualità di relazioni evangeliche libere da ogni forma di potere sull’altro e d’autoreferenzialità, e capaci di custodire con rispetto i confini della propria e altrui intimità, ovvero il mistero dell’io e del tu”. A parte il fatto che il contrario, cioè l’essere sposati – andrebbe subito precisato per evitare equivoci -, non è una forma degradata di vivere le relazioni evangeliche né è forma autoreferenziale; e a parte il fatto che l’autore dell’articolo sembra confondere, per come si esprime, castità con celibato e viceversa. Ma soprattutto: mi chiedo allora come l’autore dell’articolo spieghi Genesi, dove il Creatore della vita raccomanda all’uomo e alla donna di essere fecondi e di dare la vita ad altre creature; mi chiedo allora cosa significa per Cencini il fatto che in ogni persona umana, nata dall’incontro normalmente d’amore tra uomo e donna, c’è l’immagine e somiglianza di Dio? Mi chiedo se si rifletta abbastanza sul miracolo di dare la vita agli altri; e se si rifletta sulla bellezza, voluta dal CREATORE, di due creature che si amano? Cencini ha mai letto cosa ha detto papa Francesco sull’amore, riconoscendo che la Chiesa deve fare autocritica per quello che ha detto nei secoli contro la bellezza della sessualità e della vita coniugale, come se fosse condizione secondaria di vita? Davvero alcuni pensano che i non sposati siano migliori degli sposati nel presbiterato? Sposarsi e dare la vita è il modo primario e ordinario di DARE E OFFRIRE LA VITA AGLI ALTRI. Prendersi cura di una moglie o di un marito e dei figli è il modo primario e ordinario di DARE E OFFRIRE LA VITA AGLI ALTRI. E il celibato non è in sé alcuna garanzia di dare amore agli altri. Sono le scelte concrete nella vita di ogni giorno a stabilirlo. L’amore coniugale non è la concessione umiliante a impulsi della terra. Per contrastare forme di imposizione celibataria ai presbiteri, sarà bene rileggere 1 Corinzi 9,5, dove si dice che Pietro e i fratelli del Signore vivevano la missione DA SPOSATI e persino Paolo rivendica in linea di principio questo diritto. Perché il passo non viene mai letto né messo al centro nelle liturgie? Si rifletta sul fatto che Gesù non ha messo questi tabù. Si rifletta sul fatto che Matteo 19,12 sembra già a un primo sguardo, tra l’altro, una chiosa, aggiunta da qualcuno che si è sentito disturbato dal discorso di Gesù sull’unione tra l’uomo e la donna secondo il piano di Dio Creatore. E se Pietro e gli altri vivevano la missione da sposati e se Gesù li ha scelti da sposati, è chiaro che proprio questi fatti ci danno la garanzia di come Gesù la pensasse. E potrei continuare a lungo. Speriamo che la chiesa sia liberata dall’imposizione del celibato. Speriamo che si dica e si spieghi a tutti come è avvenuta questa imposizione, che sta portando la Chiesa a fallire nella dimensione primaria di poter celebrare l’eucaristia. Leggasi la richiesta dei vescovi dell’Amazzonia, che non hanno nemmeno chi presieda all’eucaristia!
Mi permetto di osservare che nel documento ci sono troppi giudizi e troppe pretese. A mio avviso, difficilmente, in questo modo, aumenteranno le vocazioni sacerdotali.
Carissimo! Sono un padre e felice marito! Cattolico, apostolico di Santa Romana Chiesa in VETUS ORDO? Le grazie di Dio, ed i piani del Signore, chi li conosce? Ed allora il futuro San Padre di Pietrelcina come lo spiegate?
L’ articolo mi pone molte difficoltà. Come può un giovane a 25 anni farà una promessa di celibato, cioè di no accede al matrimonio. Ma chi conosce i giovani sa che a mala pena a 30 anni hanno la consapevolezza del senso della propria vita. La promessa di celibato non è il dono della verginità di cui San Paolo, che è un dono che solo Dio dà a chi vuole. Che senso ha che una comunità cristiana riceva un ragazzo che gli viene precitato come parroco? O un presbitero/anziano nella fede ed esperto della Croce scelto all’ interno del popolo santo? È ora di capovolgere la piramide
Grazie Andrea, indichi bene cosa può voler dire quanto afferma lo stesso Cencini “lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita”….normalmente non può avvenire in due o tre anni e mai oggi prima dei 30…ci aggiungerei che tale criterio dovrebbe pure tenersi in conto riguardo alle donne….non basta desiderare il sacerdozio….occorre avere un vissuto che forse non lo fa desiderare, ma viene donato dalla comunità! Ma oggi gli anziani capaci di render ragione della loro fede con profondità e non la sola devozione che posto hanno nelle chiese? Sono troppo scomodi per i trentenni che pensano di aver capito tutto e che loro potere….