
Discernimento è uno dei termini che maggiormente hanno caratterizzato il pontificato di Francesco.
Il papa gesuita, anche grazie al suo carisma ignaziano, ha posto l’attenzione sulle dinamiche che si muovono nella coscienza di ogni persona umana. Non è mancato chi ha visto nel “discernimento” una certa vaghezza dagli esiti relativistici, quasi un escamotage per aggirare la morale cattolica. Eppure, una disamina più avveduta mostra piuttosto che tale processualità – se bene intesa – è al cuore della bimillenaria tradizione cristiana, anche per quanto riguarda la teologia morale. A maggior ragione se accanto al discernere si associa una visione sinodale di Chiesa, come quella incoraggiata da papa Francesco.
Questo camminare per discernere insieme può essere parimenti un valido antidoto alle derive individualistiche: mantenere un atteggiamento autocritico non può essere una trovata pubblicitaria, bensì è la necessaria precondizione per proseguire con più determinazione il nostro pellegrinaggio terreno.
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In tale rinnovata consapevolezza sorge l’ultimo libro di Giorgio Nacci, Uomini di discernimento. Formare presbiteri accompagnatori nel discernimento morale (Edizioni Messaggero Padova 2025). L’autore, presbitero dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni – nonché docente incaricato di Teologia morale presso la Facoltà Teologica Pugliese e membro della Presidenza del Comitato nazionale per il Cammino sinodale delle Chiese in Italia – ha offerto una sintesi della sua recente ricerca dottorale all’Accademia Alfonsiana, Formare presbiteri accompagnatori nel discernimento morale. Criteri per un progetto pedagogico, già pubblicata nel 2023 dalla Lup-Edacalf.
Il teologo pugliese restringe la sua proposta al discernimento specificamente morale e specificamente dei presbiteri, già abitualmente associati, perlomeno nell’immaginario comune, a quello della guida spirituale, talvolta con una sovrapposizione di piani non troppo definita con la dimensione del ministero della penitenza/riconciliazione.
Non è da trascurare come papa Francesco abbia più volte ribadito che l’accompagnamento spirituale, invece, è un ministero connesso non tanto con il sacramento dell’ordine – pur essendo, come afferma l’autore, «un munus non opzionale dell’identità presbiterale» (p. 43) – quanto piuttosto con quello del battesimo. Una maggiore sottolineatura in tal senso non sarebbe stata inopportuna in questa pubblicazione, che comunque precisa che «il discernimento è innanzitutto lo stile di vita del cristiano» (p. 63).
Spesso sono i preti i soggetti ecclesiali meno formati al discernimento. Lo si potrebbe dire riguardo ai processi decisionali, come il recente Sinodo sulla sinodalità ha rimarcato, ma possiamo qui semplicemente limitarci, come fa l’autore in questo volumetto, alla sfera dell’accompagnamento personale nella formazione della coscienza, in ascolto dello Spirito che la abita. L’orizzonte entro cui si muove è quello di «un discernimento maturo, libero dallo spettro del soggettivismo o dalla gabbia del legalismo» (p. 67).
Chi ha seguito corsi di formazione per accompagnatori spirituali, come quello annualmente proposto dalla Gregoriana, ha riscontrato che spesso le persone con maggiori competenze nel discernimento sono laiche. Generalmente sono i presbiteri a lamentare come nella loro formazione siano mancati – e continuino a mancare – strumenti formativi in tal senso. C’è chi afferma di aver imparato più nelle tre settimane di corso che non in tutta la propria esperienza in seminario; questo dovrebbe far riflettere.
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Per sopperire a queste carenze formative, Nacci propone di offrire tali competenze in modo permanente al presbitero e a chi è candidato a diventarlo. Proprio per la sua complessità crescente, in un contesto pluralistico, «il nostro tempo» – spiega – «ci chiede di osare strade nuove nella formazione» al fine di «contribuire a un paradigma che rinnovi la formazione della coscienza» (p. 166). La prospettiva è quella di una formazione personale, integrale e liberante, in cui vita morale e vita spirituale si incontrino, incarnate nella concretezza dell’esperienza umana storicamente situata.
Attenzione notevole è data alla relazione, che «diviene in sé un apprendimento» (p. 94). Al fine di scongiurare abusi di potere – e quindi di coscienza – nel processo di accompagnamento, va promosso uno stile «diaconico e non dirigista» (p. 37). Qui si impara la tutela dei confini, senza mai sostituirsi alle coscienze con i propri criteri valutativi; «anche il semplice modo di proporre l’adesione ai valori morali evangelici può favorire indebitamente una relazione o un sistema abusante» (p. 91). Parlare di accompagnamento e non più di direzione spirituale è pertanto molto più che una scelta lessicale, ma indica una precisa postura relazionale rispettosa del discernimento della persona accompagnata, che può aiutare a prevenire dinamiche di dipendenza (p. 92).
Nacci suggerisce un esercizio situato di «apprendimento attivo-induttivo» (p. 148), a partire dall’analisi di un caso di studio: un’esperienza scritta, personale, da accogliere, con attenzione al contesto e all’aspetto sul quale la persona è chiamata a discernere, il tutto supervisionato da un formatore e da un gruppo di confronto. L’autore lo chiama “metodo dei vissuti morali personali” e lo articola in tre tappe orientative (ascolto, interpretazione, discernimento), restando consapevole dei limiti della sua schematicità. Può così dare un nuovo benvenuto al “metodo casistico” in teologia morale, inteso come “laboratorio” per una “comunità di pratica”, pur «nell’ottica di una morale personalista» consapevole che il vissuto delle persone non possa essere ridotto a un caso astratto e generalizzabile (p. 148).
Esercizi analoghi, che favoriscono uno stile di accompagnamento non direttivo e sempre supervisionato, sono quelli proposti nei corsi di formazione sopra menzionati. Da essi, anzi, si potrebbero mutuare anche altre proposte, tra le quali drammatizzazioni, per esempio di vicende bibliche in cui è in gioco la coscienza, e colloqui simulati su casi verosimili o reali. Ho trovato proprio questi ultimi – forse ancor più rispetto al lavoro su una traccia scritta – occasioni preziosissime che permettono di imparare facendo.
Chi veste i panni dell’accompagnatore, grazie alla cooperazione degli altri che supervisionano la scena, può rendersi conto dei propri limiti, negligenze, errori, così come pure del controtransfert dell’accompagnatore; si impara innanzitutto, come dice questo saggio, «la consapevolezza della propria inadeguatezza ad accompagnare» (p. 134). Chi interpreta l’accompagnato, dal canto suo, apprende una certa essenzialità e chiarezza utile nei futuri colloqui che, terminata la simulazione, si troverà ad affrontare nella realtà, vuoi come accompagnatore, vuoi come accompagnato nella coscienza, che è il soggetto del discernimento. Tra l’altro «non possiamo accompagnare gli altri se non ci lasciamo accompagnare per primi noi» (p. 94).
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Nel corso del libro Nacci spiega che approcci basati sulla narrazione sono una «risorsa pedagogica fondamentale nella formazione etica» (p. 82), arricchendo il discernimento «della sua tonalità personale» (p. 83), considerando seriamente «l’esperienza e la storia» quali «luoghi rivelativi della persona e dello Spirito» (p. 84) e favorendo «la riflessività necessaria per apprendere dall’esperienza», con l’attivazione di «una funzione critica sullo stesso processo di discernimento» (p. 85). L’indispensabile supervisione esterna incoraggia «una vera e propria ascesi messa a servizio non solo della maturazione di coscienza di chi si vuole aiutare, ma anche della propria» (p. 113). Si tratta, insomma, di rendere (anche) i preti «uomini di discernimento» (p. 17), invertendo il rapporto tra formazione iniziale e quella permanente: la seconda non quale appendice, bensì come modello, della prima (p. 96).
È rilevante come Nacci attinga dalle scienze sociali – in particolar modo psicopedagogiche – concetti e metodologie quali base sicura (John Bowlby), modeling (Albert Bandura), apprendimento riflessivo nella/sull’azione (Donald Schön), apprendimento trasformativo (Jack Mezirow), apprendimento significativo (David Ausubel), narrazione di sé, case method e problem solving, per viverli – cosa purtroppo non scontata – nell’ambito specifico della formazione del presbitero. All’autore non manca il coraggio di far notare come purtroppo una certa ingessatura istituzionale della struttura seminario – da cinque secoli ancora riproposta con minimi ritocchi dalle ratio formationis – rischi di tradire i propositi di una formazione integrale, pur caldeggiata dalle carte stesse. «L’insistenza con la quale se ne parla non corrisponde a un rinnovamento della prassi formativa» (p. 98), ammette il teologo morale.
È sotto gli occhi di tutti che permane una certa frammentazione tra lo studio teologico e la formazione della coscienza dei (futuri) presbiteri, che spesso si limitano a un’adesione superficiale e compiacente, favorita da «una sorta di modello formativo “comportamentista”» che premia chi si conforma esternamente – senza mettere in gioco la propria coscienza – alle richieste del formatore (p. 115).
Quella che definisce «conversione sinodale della formazione» (p. 138) passa anche da un coinvolgimento di una pluralità di competenze e di sensibilità, anche femminili, nelle équipe educative; al tempo stesso, in questo testo permane una certa tensione verso una delicata integrazione in un «unico formatore-accompagnatore che riunisca in sé gli ambiti di foro esterno e di foro interno non sacramentale» (p. 132), al fine di evitare deleghe esterne o un’astratta separazione degli ambiti formativi. L’autore dichiara che tutto ciò non è esente da rischi.
A livello prudenziale, ritengo che sia invece preferibile il consiglio offerto nei corsi di formazione: l’accompagnatore spirituale personale del seminarista dovrebbe essere esterno alla struttura del seminario, e neppure si dovrebbe chiederne il nome, proprio a salvaguardia della libertà di coscienza del candidato, per evitare indebite pressioni in un senso o nell’altro, consce o inconsce. I casi di abuso sono infatti ancora troppo frequenti, purtroppo. Gravare una sola figura di tale enorme responsabilità – pur con una supervisione personale esterna sull’esercizio della propria autorità – è pericoloso. Ciò non impedisce che uno o più formatori – muovendosi nel delicatissimo spazio tra foro interno e foro esterno – possano lodevolmente coordinare attività formative come quella suggerita.
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La proposta integrale di Nacci – teologica, pastorale, spirituale ed esistenziale al tempo stesso – intende «aprire strade per consentire a chi si occupa di questi temi a provare a riflettere insieme, a sperimentare e a verificare i processi» (p. 170), spianando la strada per una riscrittura della ratio formationis, come richiesto dal processo sinodale, e una riforma dei seminari, da intendersi come comunità all’insegna dell’«autoformazione», in grado di «suscitare un’autonomia responsabile» (p. 114); non come strutture di pietra che non favoriscono il discernimento, «luoghi-non luoghi» avulsi dalla concreta realtà dei presbiteri di oggi, né mero apprendistato per il ministero, ma piuttosto tempo autoriflessivo sul proprio stare nel mondo.
Formare è un «processo dinamico, integrale e riflessivo che, a partire dal vissuto personale, dalle relazioni in cui è implicato e dallo Spirito che in esso agisce, stimola la partecipazione e il pieno coinvolgimento del soggetto, determina un apprendimento trasformativo nell’esperienza pratica, incidendo sulla propria identità e sull’apprendimento delle competenze necessarie» (pp. 104-105).
Emerge allora che è l’esperienza personale vissuta – la vita – il primo luogo di formazione, e di tras-formazione: «il processo di maturazione […] si realizza nell’ascoltare la vita per riconoscere, nell’incontrare Cristo per interpretare e nell’esercizio della propria libertà responsabile per scegliere quanto lo Spirito chiede» (p. 109).






Poveri preti! Non sono buoni a nulla, non sono preparati in alcun campo, vengono buttati nella mischia senza gli strumenti utili al loro ministero,… Logico che poi si sentano inadeguati, lascino la tonaca o si tolgano la vita. Non è che chiediamo loro troppo?
Siano benedetti i sacerdoti nel nome di Cristo Gesù.. sono amati.. tanto amati.. il Signore non stacca lo sguardo da loro neanche per un attimo.. sono come agnelli tra i lupi.. il Maestro lo sa e lo sanno anche i discepoli.. è venuto il tempo di benedire anche i lupi.. il Signore Gesù condanna l’azione non il peccatore.. e li benedice..
Non sono un esperto di teologia morale (il mio campo di specializzazione è un altro), ma mi verrebbe da dire con una battuta: quale morale dopo “Amoris laetitia”?? Perché questa esortazione post-sinodale ha aperto un cantiere che forse ad alcuni sembra sfuggito. Della serie: “teologia morale … work in progress”.