
Dagli inizi di agosto l’area vesuviana è stata teatro di tre significativi incendi: il primo, tra Pompei e Castellammare di Stabia, ha riguardato un deposito giudiziario in cui erano stipate molte vecchie auto. Il secondo incendio si è verificato sempre nei pressi di Pompei. Questa volta ad andare in fiamme sono stati una grande quantità di vestiti usati che erano depositati in un capannone. Il terzo e grande incendio, quello che ha fatto il giro di tutti i telegiornali nazionali, è divampato nel Parco del Vesuvio, tra i comuni di Boscoreale e Terzigno.
Nel primo e secondo caso, le motivazioni dell’incendio sono presto ascrivibili a mano criminali (potremmo definirla una «prenditoria», anziché imprenditoria, criminale). Stando alle notizie, infatti, i vestiti andati in fumo nel capannone erano stati posto sotto sequestro. Le cause e i retroscena del terzo incendio le dovranno invece stabilire le procure di Nola e Torre Annunziata, le quali hanno aperto un’inchiesta.
Nel frattempo i cittadini dell’area vesuviana interessata al disastro ambientale (l’ultimo grande incendio sul Vesuvio risale a soli otto anni fa) si sono costituiti in comitato. I cittadini denunciano «un modello di sviluppo economico che non ha come priorità la salute, il benessere e le vite della popolazione, ma che mette al primo posto l’interesse dei potenti, anche a costo di una devastazione senza precedenti». Pesanti inoltre le accuse rivolte contro istituzioni politiche e civili. I cittadini chiedono infine un tavolo permanente, al fine di monitorare la manutenzione, il controllo e la prevenzione del territorio.
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C’è un’economia sommersa che smaltisce illegalmente rifiuti o scarti di lavorazione sversandoli in strade periferiche, appiccando incendi, inquinando canali e fiumi. Mostrare tutta la pervasività di questa rete economico-criminale, contrastarla tempestivamente ed efficacemente, è l’unica strada per uscire da un’emergenza ambientale che mette a repentaglio la salute dei cittadini e non consente di immaginare un futuro per le prossime generazioni.
A fronte di tutto questo, si registra un silenzio del mondo credente. Durante queste settimane estive, mi chiedo, in quante assemblee liturgiche è risuonato il grido, l’indignazione e la denuncia? Quante comunità parrocchiali pongono tra le loro attività sociali (Caritas, doposcuola, aiuti ai senza tetto, etc.) anche delle iniziative a tutela dell’ambiente? A che cosa è dovuta la poca sensibilità e lo scarso interesse per la natura e, di conseguenza, la pressoché totale assenza di iniziative, ad eccezioni naturalmente di alcuni gruppi? Perché è più facile vedere associazioni laiche impegnate a ripristinare il decoro urbano (vedi la raccolta di rifiuti abbandonati in boschi, spiagge, giardini) piuttosto che gruppi di credenti? Chi insiste sull’importanza di attuare la raccolta differenziata? Tutto ciò è oggetto di predicazione e di catechesi?
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La pastorale ordinaria non si cura dell’ambiente e credo per diverse cause. Per prima cosa, a causa di una concezione della fede cristiana – per usare una battuta – legata unicamente alla salvezza delle anime (intimismo, devozionalismo) o, nel migliore dei casi, dei soli corpi (attività sociali). Il creato è un tema «romantico-retorico»: Francesco d’Assisi che parla agli uccellini; monotone celebrazioni della giornata del creato; incontri interdiocesani dove risuonano citazioni ad effetto della Laudato si’; etc.
È questa la pastorale dei piani alti, quella che riempie le pagine di qualche quotidiano cattolico, che smuove al massimo associazioni e credenti più sensibili, ma che non scende affatto nella vita ordinaria delle comunità cristiane. Che la salvezza riguardi tutto il cosmo: piante, acqua, animali, aria e non solo l’uomo, significa abbandonare una visione smodatamente «antropocentrica» (ma sarebbe meglio dire egocentrica e incurante delle generazioni future).
In secondo luogo, a causa di una certa concezione autocentrata della parrocchia, abituata ad ascoltare e ad intervenire unicamente nei confronti di coloro che vengono a chiedere aiuto. Ma il problema è proprio questo: la natura non viene a bussare alla porta di una parrocchia come invece fanno i poveri e i bisognosi … Se pertanto non si coltiva una sensibilità a uscire (prima di tutto mentalmente) dal proprio ambiente, diventa difficile ascoltare il grido della terra.
C’è poi un altro punto, ahimè, da non ignorare. Spesso nella pastorale sociale ordinaria (dispersione scolastica, mense per i poveri, aiuto alle famiglie, etc.) le parrocchie possono ottenere sostegni economici, partecipando a progetti comunali, regionali, etc. Ma dato che non ci sono molti progetti per attività legate all’ambiente e alla promozione di una cultura del rispetto e del senso civico, parroci e operatori pastorali sono, per così dire, «meno sensibili». È triste, ma anche questo dato non va trascurato!






L’articolo cita solo di sfuggita la Laudato sì: il fatto che un papa potesse dedicare addirittura un’enciclica al tema dell’ambiente era una cosa inaudita solo pochi anni fa. Eppure il documento parla chiaro, non si limita ad un semplice richiamo ai temi dell’ecologia ma mette in luce come il rispetto dell’ambiente sia intimamente legato al tema della giustizia sociale. Il papa ha fatto la sua parte, ora sta ai vescovi e ai parroci sensibilizzare le associazioni parrochiali e i singoli laici.
Pienamente d’accordo con Don Giuseppe. Molte volte ho rivolto la domanda: “Ma dove sono i Cristiani sui temi ambientali?” ad un mio amico cristiano fortemente impegnato nelle attivita’ ecclesiastiche senza ottenere una valida risposta. Forse perche’ il Vangelo non affronta in nessun passo questo tema?