
Si può pensare alla pace come a una situazione valoriale autoreferenziale. Il termine contiene, ed è capace di esprimerla, una ricchezza enorme di significati. Pace è relazione, intreccio di persone, colloquio, convergenza di interessi, creazione continua di nuovi equilibri nel cedimento del forte al più debole, gioia del vedersi, è allegria del parlarsi, conforto e medicina per la sofferenza, è spazio per Dio, segno del suo regno, adorazione dell’Altissimo.
Chi ha vissuto la guerra gridi: pace!
Pace è una parola che è già di suo, in sé stessa, pienezza di senso. Se ne potranno tessere all’infinito gli elogi, senza doverla mettere a confronto con le tenebre della guerra per farne brillare l’ammirabile luce.
L’esperienza traumatica della guerra, poi, ne rende il perseguimento un drammatico imperativo che pesa su ogni coscienza. Il cristiano dovrà specchiarsi nel Discorso della montagna e avere il coraggio di prendere posizione nella conversazione pubblica, andando molto spesso controcorrente.
Il magistero della Chiesa, del resto, è pervenuto ormai da tempo alla categorica condanna della guerra, attestandosi su non pochi «se» e «ma» anche a riguardo della guerra di difesa.
Conosciamo la guerra dalla storia. Ne seguiamo le vicende dalla cronaca nelle diverse parti del mondo: c’è chi, in questi nostri anni, ne ha elencate una sessantina.
Ormai bisogna aver già superato gli 85 anni di vita, per poter raccontare esperienze di guerra vissute in prima persona. Parlare di pace non è la stessa cosa per chi ha provato la guerra o per chi ne ha sentito solo raccontare le sciagure. Papa Giovanni Paolo II a Hiroshima nel 1989 aveva detto con forza: «Coloro che hanno vissuto la guerra hanno il dovere sacro di gridare: mai più la guerra!».
Cosa sia la guerra, quale cumulo di nefandezze, scatenamento degli istinti più schifosi dell’uomo, quale obnubilamento dell’intelligenza costretta nel vicolo cieco dell’escogitare le forme più efficaci della violenza, ritorno alla fionda di David e retrocessione alle rabbie dei bambini che si picchiano, tutti più o meno lo sappiamo.
Perché le guerre
Dovendo, però, propagandare la pace, quella che evita o pone fine alla guerra, sarebbe anche utile andare a imparare, da coloro che se ne intendono, cosa sia davvero la guerra e perché scoppino le guerre.
Fabio Mini, l’autore presso Einaudi di un agile libro, La guerra spiegata a… è un generale di corpo d’armata ed è stato Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa. Egli vede la guerra come un fermento che agita costantemente le relazioni umane, al livello di «bande di potere» in perenne lotta fra di loro «per l’acquisizione del potere (legale o illegale) che consente di partecipare alla grande abbuffata della gestione del mondo».
Le guerre guerreggiate, con le bombe che piovono dal cielo e «le bande» dei soldati che avanzano e prendono possesso di un territorio sono le emergenze più truci di uno dei fenomeni più continui nel tempo e più esteso sulle plaghe del pianeta. Fa parte abituale dei programmi di sviluppo dei potentati economici ed è costantemente supportato dai media che, inconsciamente o intenzionalmente, inculcano nel cittadino la sensazione di avere sempre un nemico in agguato.
Le grandi serie televisive americane che vengono diffuse in tutto il mondo sono esplicitamente destinate a creare e a conservare un clima in cui l’eventualità di una guerra non sia pensata come una minaccia lontana, bensì capace di scoppiare da un momento all’altro. Secondo Fabio Mini, ci sono serie televisive promosse direttamente dal Pentagono per mantenere in fibrillazione le popolazioni e favorire tutto il complesso processo e l’immenso business della produzione e del commercio delle armi. La guerra economica dichiarata al mondo dagli Stati Uniti con la ripresa della vecchia politica economica dei dazi ne è la più recente clamorosa manifestazione.
Fare opposizione alla cultura della guerra è, quindi, un compito che non si esaurisce in interventi occasionali, per quanto efficaci e sempre doverosi. È facile lasciarsi prendere da un certo senso di frustrazione nel considerare quanto tutti i papi, da Benedetto XV in poi, hanno condannato la guerra e predicato la pace e quale sia stato il loro insuccesso.
Ma, quanto è costante e onnipresente la cultura della guerra, tanto deve esserlo la predicazione della pace. A suo tempo, molti giudicarono insensato quel discorso di papa Francesco su «l’abbaiare della NATO alla porta della Russia». Oggi possiamo leggere in libreria la denuncia della «frenesia bellica» dell’Alleanza Atlantica, impressa sulla copertina a titolo del libro del già citato generale di corpo d’armata, Fabio Mini (La NATO in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia bellica, Dedalo 2025).
Dovremmo anche chiederci come mai e da chi sia stata scartata la proposta avanzata più volte e da più parti di rendere l’Ucraina neutrale.
Non tocca solo al papa
Papa Leone bolla, senza mezzi termini, come «falsa propaganda» la pubblicistica diffusa sulla necessità del riarmo: «Come si può continuare a tradire i desideri di pace dei popoli con le false propagande del riarmo, nella vana illusione che la supremazia risolva i problemi anziché alimentare odio e vendetta?».
Sembra sia giunto il momento, ai livelli più alti delle responsabilità pubbliche, di dover smascherare l’asservimento ai «signori della guerra» dei nostri Governi.
Per la Chiesa questo non è un compito che gli episcopati possono permettersi di demandare al papa. Ogni episcopato, avendo come suo interlocutore il Governo del proprio Paese, non può esonerarsi dal dire il suo giudizio sulla politica della guerra e della pace di coloro che governano il suo popolo.
Non deve essere il Vaticano, ma gli uffici competenti della CEI a raccogliere la documentazione sul riarmo in atto nel nostro Paese, sull’aumento significativo che si sta verificando delle autorizzazioni all’export militare italiano, anche verso paesi in guerra, e anche in favore di governi che non rispettano la Carta dei diritti dell’uomo, nonché sull’invio di armi a Israele perdurante, secondo attendibili inchieste giornalistiche e nonostante le contrastanti dichiarazioni ufficiali, anche dopo l’escalation della guerra a Gaza.
Non dovrà essere, quindi, il papa ma l’episcopato italiano a protestare a nome dei cattolici italiani contro una simile politica.






Proporrei in chiave costruttiva – dal mio punto di vista che vorrebbe essere cristiano-cattolico ed ecclesiale – due aggiunte (ispiratemi dallo studio di Aldo Capitini) alla proposta-appello opportunamente formulata da Severino Dianich nell’articolo:
Aggiunta n. 1: Va benissimo che la denuncia della “frenesia bellica” prenda spunto dal libro (che confesso di non aver letto) di un generale di corpo d’armata, per il motivo che è uno che certamente di guerra se ne intende, per lo meno sul piano tecnico-professionale di chi la agisce, pronto – per il suo ruolo – a usare le armi che ha a disposizione anche per uccidere i nemici. Ma, pur astenendomi evangelicamente dall’esprimere ogni giudizio etico sulla singola persona, dubito che, salvo conversioni sempre possibili e spesso auspicabili, il generale autore del libro sia diventato: 1. un attivista nonviolento 2. contrario in linea di principio all’utilizzo delle armi per uccidere essere umani 3. obiettore di coscienza al servizio (dell’uccisione) militare 4. sostenitore della sostituzione degli eserciti armati con corpi di pace disarmati che utilizzino pratiche nonviolente per prevenire e gestire conflitti 5. propugnatore di una educazione civile generalizzata e rivolta a tutta la popolazione, per metterla in condizione di reagire adeguatamente, in caso di necessità e aggressioni di vario tipo, attraverso pratiche concrete di resistenza attiva e nonviolenta 6. promotore di processi di conversione dell’industria bellica e militare e del suo indotto a scopi non militari e nonviolenti, avendo come obiettivo in questo processo non la salvaguardi del capitale e dei suoi profitti, ma quello della tutela dei lavoratori attualmente impiegati in essa e bisognosi di trovare lavori diversi da questi.
Faccio notare tutto ciò che perché – subito dopo la sacrosanta e condivisibile denuncia della “frenesia bellica” – precisamente di tutto ciò avremmo bisogno, tutto ciò dovrebbe costituire l’orizzonte profetico delle nostre pratiche radicalmente evangeliche, tutto ciò dovrebbe essere l’oggetto delle nostre (come singoli e come Chiesa) proteste e richieste nei confronti delle tante politiche che ad ogni livello, vanno in tutt’altra direzione.
Aggiunta n. 2: Gli stessi cattolici italiani, come singoli e come associazioni, nella conversione sinodale e partecipativa che ci è stata richiesta (già da Papa Francesco quando ha parlato di una “piramide rovesciata”) dovrebbero sentirsi autorizzati e legittimati a direttamente protestare, senza dover aspettare che debbano essere i vescovi a farlo a nome loro. I vescovi possono ovviamente e molto opportunamente (vedi la lettera pastorale di Erio Castellucci presentata anche su settimananews) anticipare, seguire, ascoltare, promuovere e sostenere ciò che i cattolici italiani fanno di buono, tanto in autonomia quanto insieme ai propri vescovi.
Il y a des choses que voient seuls yeux qui ont déjà pleuré. Travailler pour la paix, c’est un impératif, en effet.
Il teologo fa bene a proporre il suo punto di vista, anche l’episcopato italiano deve dar man forte al papa: obiettivamente però dal Vaticano II vige l’autonomia delle scelte politiche e in questo momento non si può far altro che correggere il ritardo riguardo alle indicazioni che già A. De Gasperi dava all’Europa di costituire un esercito unito. Nessun riarmo quindi, ma realizzare quello che non è mai stato fatto.
D’altronde difronte alle minacce del governo dittatoriale russo è necessario difendere il diritto internazionale e soprattutto la libertà dei popoli e delle nazioni.
Concordo. Finché esisteranno logiche come quelle di Putin come si può non pensare a potersi difendere?
Sono d’accordo con don Severino. Lo ripeto da tempo, nei limiti delle cose che scrivo qua e là. La proposta è la seguente – e don Severino la conosce. Nei tempi in cui viviamo, la teologia e i teologi devono farsi sentire, alzare la voce, dire parole ispirate dal Vangelo. Di più: la teologia morale deve diventare il punto di aggregazione delle altre discipline teologiche, pena l’insignificanza. Che senso ha parlare di Incarnazione, se non la si inquadra nelle drammatiche vicende del nostro tempo (e anche del tempo della Palestina di Gesù, e dunque in ogni tempo)? La teologia morale e la visione etica devono diventare la carta fondante di ogni altro approccio alla Storia e alla Vita. Gli strumenti ci sono: il libro “Etica Teologica della Vita” (LEV, 2022) e ancora di più l’Enciclica “Fratelli Tutti” che va presa sul serio di teologi, dai vescovi, dai sacerdoti, dai fedeli. E persino ai politici che accorrono a parlare con i papi, ne andrebbe regalata una copia, magari insieme alla “Gaudium et Spes” e alla “Populorum Progressio”. Spero che don Severino voglia intervenire ancora!!!!
A parte che già lo fanno da tempo, mi sfugge il motivo per cui su questo argomento dovrebbero essere ascoltati più che su altre cose. Condanne a geometrie variabili..
“geometrie variabili” Perché non tutti gli argomenti hanno la stessa valenza; la pace, forse, merita il primo posto