
A quarant’anni dall’introduzione dell’attuale modello di Insegnamento della religione cattolica (IRC) nelle scuole italiane, appare evidente che l’obiettivo di offrire agli studenti una solida conoscenza della cultura religiosa e delle radici cristiano-cattoliche del nostro Paese non può dirsi raggiunto. Al contrario, si assiste da tempo a un crescente analfabetismo religioso e biblico.
Un dato particolarmente significativo è offerto dal Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, secondo il quale neppure un italiano su tre conosce il nome dei quattro evangelisti, né è in grado di collocare in ordine cronologico figure centrali come Noè, Abramo, Mosè e Gesù. Ancora più esiguo è il numero di coloro che, pur avendo frequentato l’ora di religione, possiedono una conoscenza minima dei testi evangelici o della storia del cristianesimo.
L’importanza dell’IRC
L’attuale configurazione dell’IRC è frutto della revisione del Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana del 1984, elaborata in un contesto storico e culturale profondamente diverso da quello odierno. All’epoca, il mondo era ancora diviso tra i due blocchi della Guerra Fredda, non esistevano smartphone o social network e in Italia la società era ancora ampiamente omogenea dal punto di vista religioso e culturale.
Oggi il contesto sociale è radicalmente mutato, e con esso sono cambiati anche i bisogni educativi ai quali la scuola è chiamata a rispondere.
L’insegnamento della religione conserva un’importanza significativa per la comprensione del patrimonio culturale del popolo italiano: la tradizione cristiana permea infatti letteratura, arte, filosofia e storia del nostro Paese. Tuttavia, negli ultimi decenni si sono imposte nuove e urgenti esigenze formative.
Anzitutto, la religione continua a essere un attore centrale nello scenario politico globale, come dimostrano i conflitti tra Russia e Ucraina o tra Israele e Hamas. Essa assume un ruolo sempre più visibile nelle politiche internazionali – dall’America di Trump all’India di Modi, dalla Turchia di Erdoğan all’Ungheria di Orbán – e diventa spesso uno strumento di legittimazione simbolica per politiche identitarie o nazionalismi di varia natura.
In questo contesto, acquisire una competenza religiosa di base rappresenta un requisito essenziale per comprendere le dinamiche del mondo contemporaneo e la complessità del nostro presente. Conoscere le religioni, in altri termini, significa possedere un “alfabeto” fondamentale per interpretare la realtà.
Un contesto mutato
In secondo luogo, nei quarant’anni che ci separano dalla revisione del Concordato, la società italiana si è fatta progressivamente più plurale sul piano religioso. Accanto alla maggioranza cattolica, sono cresciute in modo significativo le presenze di musulmani, cristiani ortodossi e evangelici, buddhisti, induisti e sikh. A queste si aggiungono fasce crescenti di persone che si dichiarano non credenti – soprattutto tra i più giovani – o che, pur nutrendo una qualche forma di spiritualità, non si riconoscono in alcuna religione istituzionalizzata.
Questo scenario impone alla scuola un ripensamento profondo: educare al pluralismo religioso non è più un’opzione, ma una necessità. La conoscenza delle religioni altrui – così come un approfondimento della propria – è essenziale per superare stereotipi e pregiudizi che ostacolano la coesione sociale e rallentano i processi di integrazione.
In altri termini, occorre formare cittadini capaci di riconoscere e valorizzare le differenze, all’interno di una cornice condivisa di convivenza laica e democratica. Per questa ragione, è oggi cruciale che l’insegnamento della religione si orienti verso una prospettiva interculturale e interreligiosa.
L’attuale assetto dell’IRC, tuttavia, non sembra in grado di rispondere in modo efficace a queste esigenze. Le criticità sono molteplici, ma convergono su un nodo centrale: la natura confessionale dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica (e laica).
La facoltatività
Un primo effetto problematico è rappresentato della facoltatività. Infatti, se, da un lato, essa garantisce il diritto di non avvalersi, dall’altro, rischia di svuotare l’insegnamento della religione della sua portata formativa, dal momento che consente di eludere la conoscenza di un patrimonio storico-culturale che dovrebbe appartenere a tutti.
Attualmente, circa l’84% degli studenti italiani sceglie di avvalersi dell’IRC. Ma, anche ammettendo che il restante 16% possa essere ignorato (il che, in sé, sarebbe già discutibile), questo dato richiede comunque alcune riflessioni più approfondite.
Anzitutto, la media nazionale nasconde profonde differenze tra i vari ordini di scuola e le diverse aree geografiche del Paese. Nella scuola primaria, per esempio, la percentuale di avvalentisi si avvicina, per ovvie ragioni, al 90%, mentre nella secondaria di secondo grado si attesta intorno al 78%.
Ancora più marcate sono le differenze territoriali: in Basilicata o in Calabria i non avvalentisi rappresentano circa il 3% degli studenti, mentre in regioni come la Valle d’Aosta superano il 30%; in Emilia-Romagna e Toscana la percentuale è superiore al 27%. In molte zone d’Italia, in altre parole, una parte significativa dei futuri cittadini non riceve alcuna educazione alla conoscenza del fatto religioso da parte della scuola.
Si rileva inoltre, all’interno degli istituti superiori, una marcata differenza tra licei e istituti professionali, dove l’IRC viene spesso evitata da un numero crescente di alunni. In questi casi, la facoltatività risponde sempre meno alla legittima tutela della libertà religiosa e sempre più alla logica opportunistica di “saltare” un’ora di lezione.
Un ulteriore effetto distorsivo della facoltatività è il progressivo abbassamento del livello dei contenuti proposti. Per trattenere in aula gli studenti, molti insegnanti di religione sono spinti ad alleggerire i programmi, a renderli “piacevoli”, rinunciando all’approfondimento delle competenze religiose fondamentali e trasformando la disciplina in uno spazio indefinito, spesso sospeso tra l’educazione civica, la psicologia e la spiritualità.
La confessionalità
Anche l’educazione alle differenze risulta compromessa dall’attuale assetto concordatario e confessionale. Se conoscere le religioni – che per milioni di persone costituiscono ancor oggi un elemento identitario decisivo – è condizione imprescindibile per abitare in un mondo plurale, la facoltatività rischia di escludere proprio quelle differenze che la scuola dovrebbe invece valorizzare.
Quando una classe viene divisa tra avvalentisi e non avvalentisi, si perde l’occasione di un confronto comune su credenze, simboli, feste e narrazioni religiose che attraversano la vita quotidiana di studentesse e studenti.
Inoltre, si normalizza una forma di separazione tra maggioranze e minoranze religiose: i cattolici “dentro”, gli altri “fuori”, privando così parte degli studenti di un contesto in cui poter essere riconosciuti interlocutori a pieno titolo.
In tal modo si rischia di creare uno spazio chiuso, autoreferenziale, dove prevale l’omogeneità anziché il confronto, che ostacola l’acquisizione di quelle competenze dialogiche trasversali ormai centrali nelle Indicazioni nazionali e nei profili di competenza europea.
La confessionalità dell’IRC ha anche prodotto una carenza strutturale sul piano della valutazione. L’Insegnamento della religione cattolica resta infatti disciplinato dalla legge n. 824 del 1930, che, all’articolo 4, stabilisce la sostituzione dei voti con una «speciale nota riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento», redatta dal docente e comunicata inserita nella pagella scolastica.
Ne consegue che l’IRC, nella scuola secondaria, a differenza delle altre materie scolastiche, non prevede una valutazione numerica, e che il giudizio espresso non incide sulla media finale degli alunni.
Lo stesso vale per l’esclusione dell’IRC dall’esame di Stato nelle scuole superiori, che, di fatto, sottrae l’insegnamento della religione a una verifica pubblica dell’apprendimento degli studenti e dell’operato degli insegnanti.
Il messaggio implicito che ne deriva è chiaro: la religione è una materia accessoria, marginale, e non un sapere culturalmente rilevante. Gli effetti di tale messaggio sugli studenti sono facilmente immaginabili.
Un insegnamento “plurale”
Oggi il tempo sembra ormai maturo per un nuovo statuto dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica italiana. Occorre pensare un insegnamento delle religioni – al plurale – che affronti il fenomeno religioso nella molteplicità di tutte le sue espressioni, offrendo a tutti gli studenti e le studentesse strumenti critici per interpretarne il ruolo nella storia e nell’attualità. Un insegnamento realmente rivolto a tutti, superando l’ambiguità della facoltatività e la dubbia commistione tra insegnamento e pastorale.
Un insegnamento gestito autonomamente dallo Stato, come già accade in molti Stati europei, anche con l’apporto alla riflessione e alla pratica educativa delle Facoltà di teologia e degli Istituti di Scienze religiose. Questo consentirebbe di valorizzare la grande ricchezza culturale e sociale costituita dalle religioni presenti oggi nel nostro Paese.
Solo così l’ora di religione potrà diventare uno strumento di educazione alla cittadinanza, al confronto alla convivenza e alla pace, rispondendo pienamente ai bisogni formativi della società contemporanea.
- Gruppo di ricerca per un nuovo insegnamento della religione a scuola, presso l’Istituto Studi ecumenici di Venezia: Filippo Binini, docente IRC; Giuseppe Bizzi, docente IRC; Marco Campedelli, docente IRC; Marco Dal Corso, docente di IRC e docente di dialogo interreligioso presso l’ISE di Venezia; Maria Chiara Giorda, docente di Storia delle religioni Università Roma Tre; Giovanni Lapis, Marie Skłodowska Curie Research Fellow Università Sapienza; Carlo Macale, docente di Pedagogia Generale e Sociale Università degli Studi “Niccolò Cusano”; Patrizia Menozzi, docente IRC; Alessandro Saggioro, docente di Storia delle religioni Università Sapienza; Brunetto Salvarani, docente di Missiologia e Teologia del dialogo Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna; Marco Zambon, docente di Storia del cristianesimo Università di Padova. Questo progetto di ricerca è finanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana.






Sono stato un insegnante di religione in un Istituto Tecnico Industriale per 35 anni ed ora sono da diversi anni in pensione. Ho vissuto intensamente tutta la storia di questo insegnamento dal 1985 in poi e tutte le problematiche connesse alla sua confessionalità, facoltatività, ingerenza concordataria della Chiesa Cattolica nella scuola statale, irrilevanza della valutazione, ecc. Personalmente ho sempre considerato il mio apporto educativo come indirizzato alla formazione globale dei cittadini italiani in quanto tali per quanto riguardasse non solo l’identità culturale e religiosa propria, ma anche la dimensione globale di questa dimensione antropologica e pertanto il mio insegnamento si è sempre qualificato come formazione alla comprensione della dimensione storico-religiosa dei vari popoli. Nei miei 35 anni di docenza di questa disciplina sono consapevole di non aver mai fatto una sola ora di catechismo. Nelle mie classi era sempre la quasi totalità che frequentava l’IRC e la maggior parte delle volte anche chi non si avvaleva, poteva e di fatto restava in classe e diventava partecipe della lezione. Quando potevo, cercavo anche di coinvolgere gli alunni di diversa religione ad esprimersi sulla propria esperienza religiosa per in confronto proficuo con la maggioranza ovviamente di estrazione cattolica. Ho però sempre avvertito come problematico il fatto che io, come docente di religione cattolica, fossi presente nella scuola pubblica anche grazie all’approvazione ecclesiastica e alla formazione culturale ricevuta in una università ecclesiastica (nello specifico la Pontificia Università Lateranense). Per il primo aspetto, quello legato all’approvazione ecclesiastica, mi sono sempre detto che non era un mio problema, ma una questione della legislazione italiana concordataria in proposito e quindi non potevo farci nulla. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, quello legato alla formazione culturale in una istituzione gestita dalla chiesa, mi son detto che potevo fare qualcosa, sottoponendomi alla fatica di conseguire una ulteriore laurea triennale e poi magistrale in Storia delle Religioni presso il famoso Dipartimento di Storia delle Religioni dell’Università La Sapienza di Roma, fondato da Raffaele Pettazzoni. In questo modo, anche dentro le problematicità dell’IRC, i personalmente mi sono sentito davvero inattaccabile e pienamente legittimato da ogni punto di vista nella docenza di una disciplina che ritengo essenziale per la formazione delle giovani generazioni. Questo mi ha permesso anche di essere non solo pienamente apprezzato da tutti i miei colleghi e colleghe di tutte le altre materie e di ogni tendenza ideologica, ma anche di poter promuovere anche in prima persona, iniziative culturali che andassero anche oltre gli interessi specifici della mia materia pur comprendendola. La mia personale opinione in merito a tutta la questione è che la Chiesa cattolica italiana dovrebbe avere il grande coraggio di fare un passo indietro, sganciandosi completamente dalla sua presenza nella scuola pubblica, per poter permettere alla scuola statale di fare un grande passo in avanti rendendo obbligatoria per tutti l’insegnamento della religione inteso come possibilità non solo di conoscere la propria tradizione religiosa, ma anche quelle degli altri e le loro interazioni al fine di un dialogo interreligoso ed antropologico assolutamente necessario soprattutto oggi con la società globale con cui ci ritroviamo. Ma questo dovrebbe andare di passo anche con una riforma di tipo universitario che possa reintrodurre, anche in Italia, nel sistema universitario anche le Facoltà di Scienze Religiose come esiste ad esempio in altre nazioni europee.
Due proposte complementari, rispetto al merito dei contenuti che stimo e condivido:
1) L’importante dibattito in corso, per cui ringraziare il Gruppo di Ricerca dell’ISE, scuote una tendenza generale (secondo alcuni saggia e giustificata, per altri poco coraggiosa e acquiescente, diplomatica, arroccata sullo status quo,…) all’assordante silenzio pubblico di questi anni. In ragione delle tante questioni e dubbi rilevanti, guardando oltre ogni legittima reattività e affrettate congetture ed ipotesi, sarebbe opportuno pensare di promuovere lo sforzo (impegnativo) di una fase “costituente”, con il lancio del Progetto in un Convegno nazionale di lungo respiro, di portata aggiornata e simile allo storico “Società civile, scuola laica e insegnamento della religione” di ReS del 1982? In analogia con il ricorso agli Stati Generali (cf. Stati Generali della scuola, dal1990) sperimentati alla base delle grandi stagioni di riforme scolastiche. Programmando una iniziativa a carattere culturale e scientifico per raccogliere idee e proposte, facendo interagire pubblicamente le varie voci e scuole di pensiero sulle ipotesi di cultura religiosa scolastica adeguata ai segni dei tempi nuovi. Con la previsione dell’intervento plurale quanto ad ispirazione, competenze, ruoli, interdisciplinarità di studiosi (giuristi, pedagogisti, delle religioni…); di istituzioni accademiche di Teologia e Scienze Religiose (ecclesiastiche e laiche); di rappresentanti di Chiese (CEI, Tavola Valdo Metodista,..)-Religioni e dell’ecumenismo-dialogo interreligioso; di esperti politici e sindacali (responsabili Scuola); del Ministero Istruzione. Senza velleità ed individuando poi chi dovrebbe programmarlo, come, quando, dove…
2) In parallelo, perché nell’immediato e nei tempi pur brevi concessi non intervenire pubblicamente in vista della emanazione del documento CEI sull’Insegnamento della Religione Cattolica, di cui il recente Consiglio Permanente ha condiviso l’indice tematico e che sarà sottoposto all’esame dell’Assemblea Generale del prossimo novembre? Ispirandosi al metodo sinodale, così rilevante nel cammino ecclesiale, si allargherebbe la consultazione e il processo di maturazione, dalle Gerarchie ecclesiastiche alle istituzioni accademiche delle Facoltà ecclesiastiche e degli ISSR (Indirizzo pedagogico-didattico e Ecumenici-Interculturali), alle organizzazioni rappresentative degli IdR, agli esperti cattolici, di altre confessioni e laici. Promuovendo, pur tardivamente, la maggiore trasparenza e collegialità possibile, quale occasione di dialogo e crescita di consapevolezza comune sulle ineludibili sfide culturali ed educative religiose.
Giorgio Bellieni (ISSR Reggio Calabria, redattore ERMES Educational)
Sono d’accordo con quanto detto nell’articolo.
La scuola dovrebbe impegnarsi nel rendere gli studenti cittatidini consapevoli, culturalmente capaci di far fronte alla disinformazione e al bigottismo. In quest’ottica trovo che, oltre lo studio delle religioni, esistano altre dimensioni come la politica, l’economica, l’ambiente o la psicologia che andrebbero affrontate, se non come vere e proprie discipline, perlomeno con più serietà (quindi non sto parlando di educazione civica) in momenti dedicati o quando entrano in contatto con altre materie.
Un altro elemento che va considerato, anche se forse giustamente viene lasciato da parte nell’articolo, è il fatto che le religioni portano insegnamenti morali di grande spessore. Entrarci in contatto potrebbe dare agli studenti spunti su cui lavorare la propria persona o portarli a scoprire una propria spiritualità.
Colpisce la superficialità e poca conoscenza del fenomeno di molti commentatori… si lamenta la conoscenza scarsa dei contenuti da parte degli alunni dimenticando o non sapendo che l’IRC da quarant’anni ha perso, o comunque diluito la sua metodologia catechistica. Il fatto di avercela un pochino o tanto contro la Chiesa Cattolica porta alcuni a scrivere cose tipo:” devono avere stessa opportunità la dottrina cattolica come quelle islamica, buddhista, induista”, ecc. non sapendo (?) o dimenticando (?) che l’Italia è stato un paese a stra -stra grande maggioranza Cattolica per molti secoli, e solo da pochi decenni ospita nuove comunità religiose, prima praticamente assenti come l’Islam, l’Induismo o il Buddhismo… quindi, non si tratta di mancanza di rispetto di altre realtà religiose, quanto piuttosto del fatto che, piaccia o meno ad adepti UAAR & affini, si tiene conto di ciò che è la storia d’Italia. Se poi domani ci saranno più taoisti che cattolici, se ne dovrà prendere atto.
Come già mi è successo altre volte, il commento che stavo spedendo è stato improvvisamente eraso. Sarò più sintetica, visto anche il molto spazio preso dalla discussione, ma mi sembra comunque importante aggiungere che, sulla base non solo delle mie convinzioni ed esperienze personali, ma anche del confronto consentito da apporti come quello dell’ articolo sopra e di numerosi altri forum e testimonianze a proposito dell’IRC, ritengo del tutto sorpassata la necessità di un Concordato ad hoc tra la Repubblica e la Chiesa cattolica. Non mi pare infatti che la scuola di alcun ordine e grado sia tenuta alla diffusione del CCC e da quello di altri perfezionamenti in merito; è d’altra parte assai vero che al momento c’è in Italia una compresenza di varie provenienze, soprattutto migranti, che portano in sincronia le loro culture e dimensioni spirituali e sono nondimeno in qualche modo veicolo delle radici da cui esse promanano. Soprattutto alle medie e negli Istituti superiori sarebbe piuttosto ora di aggiungere spazio per l’approfondimento della conoscenza delle storia dei vari ambiti mistico-religiosi con cui nelle classi si ha occasione di partecipazione umana in vivo (invece che diminuire altrove le ore da sempre dedicate allo studio di materie come la geografia, di cui si ha sempre più motivo di domandarsi perché mai sia stato soppresso).
Da vecchia diplomata all’ Istituto di Scienze Religiose di Urbino e catechista in parrocchia per quasi 10 anni sono assolutamente d’accordo con chi scrive. L’ insegnamento della religione deve assolutamente diventare insegnamento delle Religioni, togliendo quel “cattolica” che in una scuola laica non ha più alcun senso (diverso può essere il discorso per le scuole private cattoliche, e a quel punto avrebbe un significato la scelta delle famiglie di mandarci i figli in conformità alle loro credenze).
Ma io andrei ancora più avanti: innanzitutto col riservare l’ insegnamento a laici preparati da studi specifici di teologia; eliminare quindi l’approvazione del vescovo (se c’è ancora) e assumere gli insegnanti delle Religioni come quelli delle altre materie a pari grado e stipendio (lo stesso per il valore delle valutazioni); rendere l’insegnamento curricolare e obbligatorio come le altre materie; escludere dall’ insegnamento preti e religiosi/e che oggi hanno già abbastanza da fare nelle parrocchie.
Anche nelle parrocchie catechisti e catechiste dovrebbero essere assunti, naturalmente in modalità e ruoli diversi (qui l’ approvazione del vescovo ci sta), retribuiti secondo le possibilità delle parrocchie ma in modo uguale per tutti, e formati almeno con un corso di teologia pastorale diocesano. Così finirebbe anche il catechismo approssimativo insegnato da mamme e nonne di buona volontà (spesso formatesi prima del concilio Vaticano II!) senza alcuna preparazione pedagogica né teologica, se non nei casi migliori un mini corso tenuto dal parroco. Si eviterebbe anche l’ effetto “doppione” per cui i ragazzini a catechismo non fanno che ripetere “questo l’ abbiamo già fatto a scuola”! (lo dico per esperienza personale). E pure la discriminazione scolastica tra chi si avvale dell’ insegnamento della religione e chi no (mi hanno detto che alcune classi si dividono praticamente a metà, per non parlare del fatto che ogni scuola decide autonomamente che materie sostitutive proporre). A questo punto tutti e tutte studierebbero le religioni a scuola, con molte più possibilità di confronto e scambio reciproco. E solo chi vuole frequenterebbe il catechismo, rispettando la volontà di ragazzini e ragazzine in merito (un obbligo in materia di fede, che comunque arriverà più tardi, non ha alcun senso, si producono solo dei giovani che sono stati battezzati e hanno ricevuto tutti i sacramenti e dopo qualche anno si professano atei, come ormai avviene nella maggioranza dei casi, a giudicare dalla frequenza dei post -cresimati alla messa domenicale). Ma andando ancora più oltre, anche il battesimo dovrebbe essere una scelta individuale adulta o perlomeno in età da capire cosa significa, perché con il pedobattesimo mi sembra che abbiamo prodotto solo dei battezzati di nome che non hanno alcuna coscienza di esserlo e si comportano di conseguenza. Insomma è tutto il sistema che andrebbe rivisto, a partire dall’ abolizione del concordato, io avevo sperato nel sinodo ma come sempre tanti ber programmi si sono risolti in una bolla di sapone, mente il mondo va avanti e la chiesa, mi pare, sempre più indietro.
Concordo con gli autori.
Pienamente d’accordo con quanto riportato nell’articolo, il messaggio appare limpido e coerente con le effettive necessità che, a parer mio, non possono più essere ignorate, specialmente se si desidera un futuro in cui la multiculturalità viene vissuta non più faticosamente, ma anzi riconoscendone il valore.
Sono d’accordo su quanto proponete, soprattutto sul fatto che solo in questo modo l’ora di religione potrebbe diventare uno strumento di educazione alla cittadinanza e alla pace, oltre che contribuire alla definizione della laicità dello Stato, ancora molto labile in un Paese come il nostro.
Cito dal testo : “Un insegnamento gestito autonomamente dallo Stato, come già accade in molti Stati europei, anche con l’apporto alla riflessione e alla pratica educativa delle Facoltà di teologia e degli Istituti di Scienze religiose.” Tradotto in altre parole , ci mettiamo di mezzo lo stato affinchè finanzi la solita realtà cattolica !! Non scherziamo ! Se la chiesa cattolica vuole avere una chance in un mondo plurale deve mettersi in fila con altre realtà confessionali , considerare che facoltà di teologia protestante dovranno avere voce in capitolo , che nuove istituzioni musulmane / buddiste / sikh dovranno essere accettate .. Una rivoluzione copernicana per un paese come l’Italia dove la chiesa cattolica detiene il controllo assoluto del fenomeno religioso. Ci rendiamo conto solo ora delle crepe nel sistema di monopolio ?
Sono assolutamente d’accordo con quanto scritto dagli autori
Concordo pienamente con gli autori dell’articolo, e spero che sia l’inizio di un cambiamento! Buona fortuna!
Riflessioni utili. Visto che al momento non sembra essere previsto nessun processo di revisione degli accordi del 1984, l’unica soluzione è che gli insegnanti sfruttino la loro libertà di iniziativa per formare al meglio gli studenti che si avvalgono dell’IRC, cosa che sicuramente avviene già in molte scuole. La politica agirà solo quando sarà conveniente farlo, o impossibile non farlo.
Condivido tutte le proposte del gruppo di lavoro: insegnamento plurale e non confessionale, con una dignità pari a quella di ogni altra materia scolastica. Temo che occorrerà del tempo prima che le idee molto chiare e ben spiegate in questo documento possano trovare attenzione e applicazione da parte della Chiesa istituzionale, che fatica a rinnovarsi come dovrebbe.
Ottimo lavoro!
Condivido il vostro pensiero e spero diventi presto pratica attica!
Concordo con le vostre tesi, complimenti al gruppo di ricerca per il vostro lavoro!
La vostra analisi sulla natura minore dell’IRC in ambito scolastico è condivisibile. Si potrebbero aggiungere delle cose o modificarne altre ma sostanzialmente non cambierebbe nulla. È possibile una via d’uscita? L’unica possibile è lo stralcio dell’art. 9.2 del Concordato e la istituzione da parte dello Stato in maniera esclusiva di un nuovo insegnamento scolastico della religione. Perché questo sia possibile è necessario avere una classe politica capace di elaborare un progetto alternativo e perseguirlo portandolo a termine. Oggi una classe politica del genere non esiste, né a destra né a sinistra. E siamo lontanissimi da averne una. Non c’è un barlume di luce in fondo al tunnel.
L’unica alternativa possibile, ma non è una vera soluzione, è lavorare sulla maturazione di un’etica professionale degli insegnanti di religione. Un’etica professionale che li renda sempre più professionisti della scuola, soprattutto in ambito didattico. Abbandonare la pedagogia ermeneutico-esistenziale, che rende l’approccio didattico più vicino a quello pastorale che a quello scolastico, per abbracciare una pedagogia storico-critica. Un’etica professionale che si ponga come obiettivo non quello di trasformare teologi in psicologi fai da te o in animatori di gruppo ma che si ponga l’obiettivo di educare trasmettendo un sapere, un sapere rigoroso sulla letteratura biblica, sui fondamenti della teologia cristiana, sulla storia delle religioni, ecc. Non sarà la soluzione dei problemi di fondo (affrontabili solo in ambito politico-legislativo) ma un miglioramento della dignità della disciplina e del lavoro dell’IdR, in modo che chi sceglie di non avvalersi sappia che potrebbe perdersi una parte importante della storia e della cultura italiana ed occidentale.
Tutto molto bello e facile a scriversi.
Gli addetti ai lavori sanno tuttavia che, se così si attuasse – oltre a venire a meno a un asse disciplinare antropologico-esistenziale esplicitamente previsto dalle attuali Indicazioni nazionali sull’IRC emanate d’intesa da Ministero e CEI (e ciò sarebbe grave, dal momento che chi scrive scomoda addirittura considerazioni di “etica professionale”) – nel giro di pochi anni rileveremmo percentuali di avvalenti da prefisso telefonico.
Rammentiamo una volta di più, se ancora fosse necessario, che l’Italia è il solo paese europeo – inclusi quelli (come la Germania, l’Austria o la Spagna) nei quali l’insegnamento religioso scolastico mantiene un carattere parzialmente ‘confessionale’ attraverso l’istituto delle idoneità ecclesiali – in cui l’I.R. è TOTALMENTE IRRILEVANTE ai fini di: valutazione media, crediti scolastici, esito conclusivo studi scolastici superiori, eventuale (laddove esiste) “esame di Stato”.
Oggi, che ci piaccia o no e infinitamente più di quarant’anni fa, viviamo in una società che considera ‘utile’ solo ciò che – a fronte di un tempo-impegno impiegati e investiti – accredita un vantaggio misurabile. Prenderne atto è principio di realtà; ignorarlo è pensiero magico infantile.
Forse ha ragione lei, però io sono trent’anni che faccio l’insegnante di religione e ho sempre utilizzato un metodo storico-critico (che poi è quello che mi hanno insegnato nella facoltà di teologia dove mi sono formato) con verifiche periodoche che cercano di rendere il mio insegnamento il più vicino possibile a quello dei miei colleghi “normali” e raramente ho avuto defezioni di avvalentesi nel corso degli anni. Ho visto, invece, il contrario: alunni che non si avvalevano più perché tanto era inutile partecipare a delle lezioni semplicemente per farsi due chiacchiere. Credo che bisogna avere coraggio, provare a sperimentare, dare una dignità di fatto alla nostta disciplina in attesa che arrivi la dignità giuridica. Non so cosa intenda con precisione lei quando caratterizza come “confessionale” la nostra disciplina (perché è un termine molto più complesso di quanto si possa immaginare in superficie) ma certo non significa automaticamente esistenziale o semplicemente “pressappochista”.
Se tutte le scuole e le classi fossero come le sue (nei grandi centri metropolitani del Centro-Nord rappresentano l’eccezione, non certo la regola: inclusi i licei di élite, dove gli studenti fanno le ore piccole per prepararsi alle ordinarie verifiche delle altre discipline), saremmo in assoluto la categoria più invidiata.
Sarebbe sufficiente replicare meccanicamente in classe i contenuti dei nostri studi teologici, delle nostre tesi di laurea, licenza e dottorato… Nessuno sforzo di mediazione didattica, nessuna attenzione pedagogica, nessuna preoccupazione educativa.
Mi permetto tuttavia di rammentarle che l’asse antropologico-esistenziale è il primo indicato dalle Indicazioni nazionali sull’IRC, accanto a quello storico-fenomenologico (altra parola-chiave) e a quello biblico-teologico.
L’accurato equilibrio delle tre aree, mediate didatticamente a partire dal bisogno formativo degli studenti, non costituisce affatto indice di “pressappochismo” o di “scarsa etica professionale”, bensì fedele aderenza al mandato professionale ricevuto.
Accolgo con interesse la sollecitazione a ripensare l’Insegnamento della Religione Cattolica. Credo anch’io che, dopo decenni, sia maturo il tempo di un confronto vero e ampio: non solo tra specialisti o nelle stanze istituzionali, ma coinvolgendo le scuole, i docenti, le famiglie, gli studenti. Servono davvero degli “stati generali” dell’IRC, un movimento dal basso che raccolga voci e bisogni reali, e non soltanto modelli astratti.
Mi convince molto l’idea che oggi la scuola non possa più limitarsi a una prospettiva confessionale, chiusa o autoreferenziale. La società in cui viviamo è plurale sotto tutti i punti di vista: culturale, religioso, etnico, persino “decoloniale”. Abbiamo studenti che provengono da tradizioni diverse, famiglie che vivono la fede in modi molteplici, altri che non si riconoscono in alcun credo. Ignorare questa complessità significherebbe restare indietro rispetto alla realtà.
Detto questo, ho anche una perplessità: se l’IRC perde la sua identità di insegnamento della religione cattolica, che cosa resta del suo mandato originario? Non rischiamo di svuotarlo e di trasformarlo in una generica “ora di dialogo”? E gli insegnanti di religione, che oggi sono formati e mandati con una precisa identità, sarebbero pronti a diventare docenti di dialogo interreligioso? Non è una sfida banale: richiede nuove competenze, nuove formazioni, un cambiamento profondo di prospettiva.
Forse la strada sta nel trovare un equilibrio: custodire la radice cattolica dell’IRC, ma aprirla al dialogo e al confronto. Non un “o l’una o l’altra cosa”, ma un “insieme”: riconoscere che conoscere la propria tradizione è la base per incontrare e valorizzare quella degli altri. In questo senso, l’IRC potrebbe diventare un laboratorio di convivenza, dove si coltiva sia l’identità sia il dialogo, senza paura che l’una escluda l’altro.
Per questo dico: sì, servono stati generali, serve un processo partecipato, serve ascolto reciproco. Non per abolire o indebolire l’IRC, ma per rilanciarlo in una forma nuova, capace di rispondere alle sfide del presente.
Mi pare che uno degli assi portanti della proposta sia più o meno questa deduzione: l’IDR è attualmente gestito dalla Chiesa; quindi è confessionale; quindi dev’essere facoltativo; quindi non può comportare una vera valutazione; quindi non viene preso sul serio; quindi gli studenti non imparano niente. Applicando ripetutamente il *modus tollens*: vogliamo che gli studenti imparino qualcosa; quindi l’insegnamento dev’essere preso sul serio; quindi deve comportare una vera valutazione; quindi dev’essere obbligatorio; quindi non può essere confessionale; quindi dev’essere gestito dallo Stato. Riconosco che questo ragionamento ha una sua logica e conseguenze assai chiare. Vedo però altre questioni che rimangono aperte e che devono essere affrontate.
La prima: che cosa fare degli attuali 17mila (se non erro) insegnanti di religione e delle attuali strutture accademiche di formazione? Il problema è sia giuridico, sia culturale: gli attuali programmi degli Istituti Superiori di Scienze Religiose, benché rigorosi e seri, non sono minimamente tarati per la proposta che qui si avanza.
La seconda: in termini generali è facile concordare con l’ideale di una conoscenza ampia che combatta stereotipi e pregiudizi. Programmarla in concreto è invece assai più difficile. L’idea di tante religioni tutte affratellate nella pace e nell’amore è nel caso migliore un nobile ideale, che però non corrisponde per nulla ai dati storici di qualsiasi studio serio dei fenomeni religiosi. Si potrebbe addirittura dire che *questo* è uno degli stereotipi e dei pregiudizi da sconfiggere. Insomma, il problema della determinazione dei contenuti di uno studio «interculturale» e «interreligioso» è molto più difficile rispetto ad uno studio confessionale.
La terza, collaterale: quando si parla di analfabetismo religioso, nel conteggio vi sono non solo i moltissimi che si sono avvalsi dell’ora di religione cattolica, ma anche (se non erro) i moltissimi che hanno frequentato il catechismo parrocchiale. Sarebbe interessante capire se pure in questo caso c’è qualcosa che non funziona, oppure se è giusto che sia così (cioè che il catechismo non trasmetta *nessun* contenuto conoscitivo, neppure il nome dei quattro evangelisti). Certo mi parrebbe curioso che la Chiesa demandasse allo Stato italiano l’istruzione religiosa cattolica; ma se fosse così, come diceva Maurizio Ferrini, «non capisco ma mi adeguo».
Si tratta di una transizione già serenamente e proficuamente avvenuta in molti paesi UE (es. paesi scandinavi, Svizzera, etc.), e di prossima realizzazione in altri: anche in accordo alle linee guida del Consiglio d’Europa. Non comporta necessariamente il passaggio a un mero learning about religion, che trascuri o azzeri la dimensione teologica, la riflessione sulla dimensione spirituale dell’umano, la sua apertura alla trascendenza e il learning into religion. I docenti in servizio non sono stati buttati a mare: al più – laddove necessario – hanno integrato la propria formazione mediante un congruo numero di cfu. In Italia abbiamo facoltà teologiche e istituti superiori di scienze religiose ecclesiastici, con titoli riconosciuti quali lauree magistrali statali, che propongono una formazione seria e qualificata sulle religioni non cristiane (peraltro già comprese tra gli obiettivi di conoscenza delle Indicazioni nazionali sull’IRC): talora con insegnamenti offerti da docenti afferenti a tali religioni o diverse confessioni cristiane (es. Pontificia Università Gregoriana). Abbiamo facoltà teologiche riformate ed ebraiche che rilasciano a propria volta titoli riconosciuti quali lauree specialistiche statali. Abbiamo corsi di laurea di antropologia e religioni, scienze delle religioni, storia del cristianesimo, etc., offerti dalle facoltà di lettere e filosofia delle principali università e atenei italiani. Purtroppo mancano facoltà teologiche nelle università civili: quest’ultimo è un autentico limite, che sappiamo bene non dipendere dalla configurazione dell’insegnamento scolastico di cultura religiosa.
La sua elaborata risposta mi suscita qualche perplessità che ora espongo. Partendo dalla fine: la Chiesa GIÀ demanda l’ Istruzione Religiosa Cattolica allo Stato italiano in virtù del Concordato ormai decisamente datato (dall’ ultimo sono passati 40 anni!), visto che IRC significa appunto Insegnamento della Religione CATTOLICA effettuato nelle scuole pubbliche STATALI! È qui la radice della confusione con l’ insegnamento del catechismo percepita da molti ragazzini che vedono le due cose come praticamente uguali e si annoiano a sentirsi ripetere sempre le stesse cose.
Non è affatto difficile stabilire i contenuti di uno studio interreligioso, ci sono fior di pubblicazioni in merito e credo che parecchi insegnanti già lo mettano in pratica. E nessuno sostiene che si tratti di un generico “volemose bene”: se si tratta di approfondimenti storico teologici ovviamente devono essere fondati su testi seri e non su un generico sentito dire o peggio su pregiudizi personali!
A questo si lega la prima osservazione: non sono minimamente tarati sulla proposta forse gli Istituti Superiori di Scienze Religiose diocesani (e qui ricadiamo nel “confessionale”, o se preferiamo, “clericale”. Perché io che mi sono diplomata all’ Istituto di Scienze Religiose di Urbino (dipendente dall’ Università ma non ancora corso di laurea) nell’ ormai lontanissimo 1999, ho frequentato un corso di Islamismo, uno di Protestantesimo, uno su Induismo e Buddhismo che affrontava anche il fenomeno allora molto di moda della New Age, il professore di Antico Testamento ci ha parlato dell’ Ebraismo e ci ha portato a visitare la piccola sinagoga locale, e sicuramente ci sarà stato anche un insegnamento sulle Chiese ortodosse anche se non ricordo bene. Basterebbe passare quei programmi (e ovviamente anche reperire i professori) agli istituti diocesani! In fondo se io ho studiato quelle materie 30 anni fa e altri con me, qualcuno ne saprà ben qualcosa!
Comunque grazie per gli interessanti spunti di riflessione.
Non si fa nulla di concreto perchè la Chiesa non vuole cedere un pezzo di potere ormai anacronistico. Grazie a chi almeno prova ad alzare la voce. Possibile che in Italia sia ancora insegnata la Religione cattolica (che non è nemmeno una religione, ma una confessione cristiana) e non venga introdotto uno studio serio e non confessionale delle religioni? Possibile che nonostante la libertà religiosa sancita dalla costituzione esista ancora un rapporto così sbilanciato tra lo Stato e la Chiesa cattolica? Di fatto, oggi nella scuola italiana è garantito un diritto alla maggioranza (avere un’ora di insegnamento della propria religione) che invece non è garantito alle minoranze (che si devono accontentare di potersene non avvalere). Non siamo di fronte a un’evidente discriminazione?
Anche io concordo pienamente. Tre anni fa scrissi un contributo che andava nella medesima direzione: https://nipotidimaritain.blogspot.com/2022/07/educare-tutti-.html
Si, ma resta tutto scritto, ma di concreto non si fa nulla.
L’ Irc deve ritornare ad essere obbligatoria per tutti.
Da docente di religione sono pienamente d’accordo con l’ articolo
Concordo parola per parola con l’articolo del gruppo di ricerca, di cui peraltro anch’io ignoravo l’esistenza. Sostenevo pressoché alla lettera le stesse cose in un intervento alla Facoltà teologica di Firenze (raccolto poi nel volume Aa.Vv., Ripensare l’insegnamento religioso, Nerbini, Firenze 2025).
Insegno religione dal 1988 e ricordo che già allora a molti sembrò una mossa falsa puntare sulla confessionalità a scapito dell’obbligatorietà. Oggi che il mondo è così cambiato, è ancora più pressante l’esigenza di un’ora, comune a tutti gli studenti, in cui sia possibile studiare il fatto religioso allo stesso modo in cui si studiano gli altri che hanno plasmato le culture. E solo una disciplina scolastica obbligatoria, e perciò non confessionale, potrebbe garantire un approccio culturale serio, che contribuirebbe non poco, tra l’altro, a restituire alla religione la dignità culturale che merita restituendo anche quella professionale, diciamolo, a noi insegnanti di religione.
Dalla modestissima padronanza della lingua italiana evidenziata in uno dei commenti sopra – scritto da una persona che, con ogni probabilità, insegna religione -, sarebbe anche il caso di mettere sul tavolo la questione del livello culturale drammaticamente inadeguato di molti idr; il che significa interrogarci sulla qualità della formazione accademica offerta negli ISSR, dove troppo spesso (per non dire sempre) riescono a conseguire una laurea magistrale anche studenti che non solo non arrivano a sviluppare la minima competenza (e spesso nemmeno il benché minimo interesse) negli studi teologici, biblici, storico-religiosi e filosofici, ma talvolta non possiedono nemmeno le basi minime di cultura generale.
Concordo con quanto riferisce l’articolo. Sarebbe molto utile una presa di coscienza della CEI.
Chiederei a Giuseppe come mai, se l’ora di religione così com’è funziona (programmi ministeriali, collocazione identitaria, confessionalità ecc.), chi si avvale dell’ora di religione resta completamente ignorante a proposito del fatto religioso, come attestano tutte le ricerche sulla conoscenza religiosa in Italia…
Grazie agli autori, Costanza.
La risposta la danno i test dell’invalsi: le carenze riguardano tutte le materie, soprattutto quelle matematiche e scientifiche nelle quali non è possibile menar il can per l’aia, ma bisogna raggiungere con lo studio attento e meticoloso una preparazione profonda degli argomenti trattati. Il problema di fondo è culturale perché l’attuale impostazione della società riconosce valore alle chiacchiere e alla ricerca del proprio tornaconto in termini di apparenza, ricchezze materiali, visibilità degli individui. Ciò lo si nota dando importanza all’interdisciplinarieta’, guardandosi attorno e non con il restringere l’obiettivo solo alla propria materia d’insegnamento.
Mi sembra un modo per non rispondere. Se l’Irc, così com’è, funzionasse, gli studenti saprebbero ALMENO QUALCOSA della religione cattolica, mentre qualsiasi ricerca parla ormai di analfabetismo religioso. Non carenze o lacune, ma analfabetismo. La realtà è che l’ora di religione non funziona. Magari ci saranno anche problemi di sistema-scuola, ma sono evidenti anche quelli strutturali di questa materia. Che spesso la Chiesa finge di non vedere, sperando che almeno serva a fare un po’ di proselitismo (fallendo clamorosamente anche in quell’obiettivo)
Concordo con la necessità del cambiamento, di cui si parla da tempo. Condivido le difficoltà espresse dai colleghi. Ma il terzo interlocutore, la CEI, quando si accorgerà del nostro servizio? Quando avrà intenzione di avviare con lo Stato italiano nuovi patti? È anacronistico e ridicolo sulle valutazioni e altro essere fermi al TU del 38!! Ciascun docente nel suo piccolo è già portatore di innovazione e sperimentazione nei suoi programmi e metodologie per poter vendere bene un prodotto in cui si crede e che possa risultare accattivante per tutti e non perdere nessuno. Ma ahimè….la facoltatività è sempre dietro l’angolo!
Da docente di IRC da un ventennio, passato attraverso due ordini di scuola, concordo in toto con le considerazioni e le proposte del gruppo di lavoro e mi auguro che possano portare a una riforma concreta capeggiata dalla CEI, è quanto mai necessario!
Tante chiacchiere… l’IRC epistemologicamente parlando sta bene… ormai la caratterizzazione scolastica e l’allineamento alle finalità scolastiche è raggiunto da tempo…non lo è invece il suo pieno inserimento nel curricolo scolastico dove nelle secondarie di 2 o grado vi è una conflittualità non ben distinguibile che lo porta ad essere la cenerentola…abbiamo una serie di criticità che lo indeboliscono tra cui : valutazione; ora alternativa e materia alternativa; collocamento in orario scolastico;uscita dalla scuola per la 4a scelta di non avvalenza; rapporto con educazione civica ; modalità di scelta che vengono sovrapposte alle iscrizioni agli anni successivi portando di fatto l’Irc in situazione di referendum permanente;la necessità di un ruolo normale degli IRC e non incaricati annuali “a vita”… Prima della non avvalenza ,art.9.2 di revisione concordato si riferisce alla AVVALENZA e alle ragioni di presenza di questo insegnamento…ed è su questo che bisogna pensare. Disinnescare tutte le ragioni di mortificazione ed emarginazione riportando la valutazione all’interno del sistema presente nel grado di scuola… IRC quindi… opzionale ,in obbligo per chi lo sceglie, con un percorso disciplinare parallelo equivalente per chi sceglie altro… pienamente allineati alla scuola… con valutazione numerica nelle secondarie 2 * … senza discriminazione ,parte del curricolo con possibilità di essere anche materia da esame di stato e di debito negli anni intermedi… etc…
Grazie a tutte e tutti i componenti del gruppo di ricerca, che ha lavorato in stretta sinergia con l’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana.
Sulla necessità di una “riforma” in prospettiva ecumenica e interreligiosa, scrivevo qui https://www.vinonuovo.it/cultura/officina-del-pensiero/ecumenismo-e-dialogo-con-lebraismo-a-scuola/
Fondamentale anche ai fini dell’adeguata formazione di cultura religiosa in chiave interculturale dei sempre più numerosi alunni e studenti provenienti da contesti familiari musulmani, specie nei grandi centri metropolitani del Centro-Nord: si tratta di nostri futuri concittadini italiani, che in larghissima maggioranza praticano un pregiudiziale opting out dall’insegnamento scolastico di cultura religiosa (esposti alla formazione di “banlieue culturali” ad alto rischio di integrazione incompiuta e/o di radicalizzazione: vedasi il caso francese).
Sottolineavo nel mio contributo che non solo lo Stato, ma anzitutto la Chiesa è chiamata in fedeltà al proprio cammino magisteriale conciliare e postconciliare (Nostra Aetate, Unitatis Redintegratio, Ut unum sint, Documento 2015 “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili”, Fratres Omnes, “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” di Abu Dhabi 2019, i documenti del cammino sinodale che ne indicano convintamente il carattere ecumenico) a vivere anche questo servizio di carità educativa e culturale alla società in comunione con tutti i discepoli del Signore Gesù, con il popolo dell’alleanza con il quale condivide un dialogo “sui generis intra-religioso e intra-familiare” (Documento 2015, cit.), con tutti i credenti in Dio (Documento 2019, cit.) e gli esseri umani in ricerca di significato davanti al “caso serio” dell’esistenza.
Come discepoli di Gesù e come cattolici siamo interpellati da questa chiamata di fedeltà al cammino e al magistero ecclesiale, nel secolo che abitiamo. Come “buoni cristiani e onesti cittadini” non possiamo chiuderci nella risposta «i non avvalentesi sono semplicemente “un fatto oggettivo”, hanno scelto di non fare religione, restano dove sono» (https://www.youtube.com/watch?v=EpPUH25NMgU&t=2870s min. 1:35:20 – 1:35:34)
Personalmente, da molto tempo, ritengo che l’istituto dell’IRC vada profondamente riformato; è quantomeno anacronistico. Non mi limiterei ad analizzare i modi od i termini con cui viene condotto, ovvero i programmi, lo stile didattico, la sussidiazione, ma più profondamente la sua effettiva aderenza alla società contemporanea. I giovani hanno dannatamente bisogno di veder dischiusa la porta della trascendenza, della spiritualità, della ricerca interiore, ma farlo includendo il momento in oggetto nel novero di un’attività legata in qualche modo alla religione cristiana cattolica è di fatto respingente, c’è poco da fare. Personalmente toglierei la possibilità di svolgere l’ora alternativa, cosa che di per sé svilisce il momento formativo alla radice, ma poi riformerei l’IRC facendola divenire qualcosa di più simile ad un momento di approfondimento dell’ultraterreno cercando di rimuovere qualsiasi approccio dottrinale anche velato, facendo emergere le specificità e le unicità delle fedi e l’indiscussa profondità e ricerca della pace interiore ed esteriore che sostanzialmente tutte teorizzano ed esprimono, se analizzate in profondità. Credo sia ora di cambiare.
Tutto giusto. In particolare però credo che davvero il problema risieda nella facoltatività. Sappiamo benissimo che quando i ragazzi hanno la possibilità di aggirare un dovere non se la fanno scappare! È un serpente che si morde la coda perché di contro sappiamo che non può essere diversamente perché la facoltatività è la condizione sine quanorum per essere presente nella scuola!
Non si capisce perché se c’è ignoranza religiosa, il 99% degli studenti insulti e bestemmi quel Dio che non conosce.
Non concordo con l’ articolo sul fatto che debba cambiare l’ ora di religione per un pluralismo che già si offre.(Forse dovrebbe girare un po’ più le scuole) Ciò che DEVE CAMBIARE È COME È CONSIDERATA L’ IRC E I DOCENTI.DEVE CAMBIARE L’ ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA che deve dare più spazio a chi ci offre il lavoro.Deve cambiare la considerazione della disciplina e non pensare (che tanto è religione) quindi non si studia,guai a dare compiti!Deve avere la stessa valutazione delle altre discipline,non deve essere discriminata perfino nell’ uso della mensa scolastica,sempre a tappare i buchi amministrativi della scuola..qui deve cambiare nella possibilità di uscire o entrare dopo,la materia alternativa,gli esoneri a piacimento… vogliamo andare avanti?
Da docente di religione mi trovo molto d’accordo con quanto espresso. Non sapevo dell’esistenza di questo gruppo di ricerca che spero venga ascoltato. Tuttavia c’è un problema di fondo ed è questo: molto colleghi misconoscono la valenza culturale della materia e la trasformano in catechesi. Questo è uno dei motivi per cui molti non si avvalgono dell’IRC.
Molto interessante.
Io insegno religione cattolica da 30 anni.
La scuola è cambiata tantissimo.
Io mi impegno tantissimo per dare delle conoscenze ai miei bambini.
Purtroppo c’è una sottile competizione con l’attività alternativa.
Se i bambini di A.A. vanno in giardino, giocano ….
Cosa deve fare l’idr?
Marzia
L’articolo incorre in errori di fondo e di prospettiva che confliggono con la realtà delle cose e coi diritti di libertà della persona e delle comunità religiose. Prima di tutto si deve però evidenziare che il contesto culturale mutato non giustifica un cambio dei programmi ministeriali dell’ora di insegnamento della religione cattolica perché questi guardano al fatto culturale attestatosi in Italia in quasi duemila anni di storia e che la contemporaneità deve saper leggere.
Un altro errore sta nel fatto che comunque una persona è inserita in una particolare prospettiva religiosa e da lì scruta e interpreta il passato e il presente, mentre nel contempo pensa il futuro. Non si dà infatti altra possibilità di riconoscimento identitario se non si è ben radicati in una tradizione di significato: da qui si dialoga e si mantengono relazioni col resto del mondo.
Altro errore sta nella supponenza che si possa dare identità senza scelta chiara di un punto di osservazione: ecco invece l’importanza della disciplina confessionale (cattolica) perché la storia d’Italia è stata scritta da una maggioranza cattolica.
Altro errore è valutare la partecipazione all’IRC non tenendo conto che in alcune regioni d’Italia insieme alla scelta religiosa cristiana cattolica c’è una lunga tradizione anticlericale, ancor presente, che indubbiamente opta per ostacolare la presenza istituzionale della Chiesa e della cultura che questa ha veicolato nei secoli.
Inoltre attualmente la realtà culturale italiana appare mutata non tanto però per l’apporto di culture differenti da quella cattolica o ideologie di destra e di sinistra, ma per una non-cultura effimera e vana, dovuta al benessere economico, che priva le nuove generazioni di possibilità di riflessione e, conseguentemente, di speranza nel futuro.
Pensare che eleminando la confessionalita’ in favore di un’astratta pluralità possa risolvere la situazione è invece il solo modo per privare gli studenti di una base di partenza solida e inconfutabile. Il ritenere che l’abolizione della facoltatività risolva il resto dei problemi è pensare di educare senza riconoscere agli studenti il diritto fondamentale alla libertà di pensiero e di coscienza, oltre naturalmente alla libertà religiosa. Sarebbe infatti un discorso che tenderebbe ad imporre con la forza una visione della società toccando la materia un ambito particolarmente delicato del farsi della coscienza petsonale. Ecco invece che dietro la possibilità di avvalersi o di non avvalersi dell’ora di religione si nasconde il rispetto di libertà fondamentali della persona umana, che la scelta di ciascun studente non diminuisce, ma anzi valorizza.
Non mi dilungo oltre, perché già si è certamente compreso che ritengo grandemente deleteria per la scuola italiana la proposta avvanzata in questo articolo.