Adattare l’IRC alle esigenze di oggi

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Marco Ronconi, teologo e insegnante di religione (IDR), riprende e approfondisce gli spunti offerti dal Gruppo di Ricerca per un nuovo insegnamento della religione a scuola (IRC).

Ho letto con interesse l’intervento a firma del Gruppo di Ricerca pubblicato lo scorso 17 settembre su SettimanaNews, dal titolo: «IRC, è necessario cambiare». L’articolo ha suscitato una vivace discussione già nei commenti della pagina stessa con vari interventi degni di nota, di cui consiglio la lettura.

Tornando all’articolo, l’ho apprezzato per tre motivi che vorrei qui sottolineare, aggiungendo un personale supplemento di riflessione, sperando possa contribuire a un dibattito che definire urgente è un eufemismo.

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Il primo motivo di apprezzamento è il fatto che il Gruppo di Ricerca inquadra l’IRC come un servizio della Chiesa alla società italiana. Potrebbe sembrare scontato, ma non lo è: nella sua storia, infatti, l’IRC è stato in certi momenti percepito e vissuto in modi molto differenti, ad esempio come un servizio che lo Stato ha reso alla Chiesa, o quanto meno un do ut des. Chiarire la postura per evitare confusioni mi sembra indispensabile.

Nell’ottica di un servizio alla società (al mondo, direbbe Gaudium et spes), il testo muove dall’osservazione dell’esistente, individuando due «emergenze educative»: una «competenza religiosa di base» come «requisito essenziale per comprendere le dinamiche del mondo contemporaneo e la complessità del nostro presente»; la «necessità» (non una semplice scelta e per di più non differibile ulteriormente) di «educare al pluralismo religioso». A partire da queste due emergenze il Gruppo di Ricerca si chiede se la forma attuale dell’IRC sia adeguata a farvi fronte.

Non sembri una postura scontata: ho sentito solo pochi giorni fa un vescovo chiedersi pubblicamente come era possibile che molti ragazzi e ragazze che si avvalgono dell’IRC non frequentino le parrocchie, attribuendo agli insegnanti di religione una specie di tradimento o di sottovalutazione del primo loro compito di «missionari». È evidente che, in questo diverso modo di ragionare, l’IRC esiste non per rendere un servizio alla società, ma alle parrocchie.

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Il secondo motivo per cui ho apprezzato l’intervento è il suo forte senso della realtà, soprattutto a fronte di molti ragionamenti sulla scuola (non solo sull’IRC) che sembrano provenire direttamente dall’iperuranio. Trovo infatti molto realistico che si individui nella facoltatività dell’IRC, e ancor più nella «ora senza lezione» come alternativa, un elemento di debolezza strutturale che paralizza oltre modo il resto, impedendo di fatto la presa in carico dell’emergenza di cui sopra.

Ovviamente mettere mano alla facoltatività dell’IRC significa la necessità di ridiscutere l’Intesa: complicato e rischioso, per usare due eufemismi. Mi si passi però la seguente metafora. Se il nostro corpo ha un’urgenza vitale, ma si decide di considerare facoltativa la cura, i casi sono due: o l’emergenza non è davvero tale o la cura deve essere obbligatoria.

Se c’è un’emergenza educativa sulla questione religiosa, si possono decidere soluzioni differenti, anche plurali o sperimentali, ma non si può continuare a fare esattamente come prima, decidendo di non fare nulla. Se, invece, non è un’emergenza, si può soprassedere, ma va chiamata in modo differente spiegando perché si ritenga esagerata la diagnosi.

Se – come anche chi scrive pensa – siamo invece davvero di fronte a un’emergenza e si decide di continuare per una strada di impotenza, l’esito più probabile è lo sfacelo, da affrontare scuotendo la testa in una tristezza sempre più diffusa e contagiosa, o trovando singolari soddisfazioni biografiche come cure palliative.

Nessun insegnante di nessuna disciplina potrebbe reggere una situazione in cui studenti e studentesse possono scegliere come alternativa un’ora di riposo. Gli IDR lo fanno da decenni e in molti casi sono riusciti comunque a favorire la crescita culturale delle persone che sono state loro affidate, ma i prezzi pagati in termini di risposte inadeguate alle emergenze educative di cui sopra sono evidenti.

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Il terzo motivo per cui ho apprezzato il testo è il coraggio, individuando nella confessionalità l’altro elemento strutturale che ostacola un insegnamento che possa realmente rispondere alle emergenze attuali. L’affermazione è molto audace perché nel concreto, significa, come Chiesa italiana, rinunciare a una posizione di potere prevalente per condividerlo con altri soggetti, da discernere con rispetto e retta coscienza, non per una rinuncia al proprio compito, ma proprio per meglio servire il mondo e offrire una testimonianza più credibile. Semplicemente, non da soli e non senza gli altri. Il Concilio, del resto, nel 1965 insegnava che

«le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Essa, tuttavia, non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi, essa rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et spes 76).

In un’epoca fortemente individualista e spaventosamente identitaria, quanto sarebbe profetica una Chiesa che dicesse: «fino ad ora, sono stata la principale delegata alla formazione di cittadini e cittadine che abbiano competenze adeguate a leggere criticamente la dimensione religiosa del mondo attraverso lo strumento del dialogo e del confronto. Ora i tempi sono cambiati, necessito di aiuto e di collaborazione: metto a disposizione non solo il mio sapere e la mia esperienza, ma anche il mio diritto acquisito per legge. Costruiamo un nuovo percorso insieme».

In realtà, anche in questo caso come in molti altri, il sensus fidei è in anticipo: moltissimi insegnanti di religione cattolica, di ogni livello, comprendono già nelle loro lezioni ampie sezioni dedicate al dialogo ecumenico o interreligioso, o approfondimenti specifici a partire dalla situazione concreta dei ragazzi e delle ragazze della singola classe. Non è raro che l’ora di religione cattolica ospiti voci o collaborazioni, come scrivono anche molti di coloro che sono intervenuti nella pagina di commento al testo del gruppo di ricerca. Molti insegnanti di religione, cioè, da decenni, si rivolgono a esperti «altri» per offrire elementi qualificati alla loro azione. Tra i libri di testo in commercio – con nulla osta episcopale – ce ne sono sempre più alcuni che, in appendice, presentano le schede di presentazione delle «altre religioni» a firma di un rabbino, un imam, una teologa riformata… i tempi sono quindi maturi.

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I tre motivi per cui ho molto apprezzato il testo del Gruppo di Ricerca sono quindi un’idea precisa di IRC all’interno di un modo particolare di intendere il servizio della Chiesa al mondo che, per amor di sintesi, mi limito qui a dire: nello stile e nella logica di Gaudium et spes; un forte senso della realtà come antidoto a idee angeliche ma irrilevanti, o impiastricciate di paternalismo moralista; il coraggio di proporre una linea di cambiamento molto forte, ma probabilmente necessaria, se davvero si condivide la percezione della gravità delle questioni.

Aggiungo una postilla personale a partire dalla convinzione che le scuole non sono (solo) luoghi in cui singoli professionisti si recano a svolgere il loro lavoro, ma sono «comunità educanti». In queste comunità, facoltatività e confessionalità dell’IRC sono stati negli ultimi 40 anni due macigni enormi nel riconoscimento da parte di ogni collegio docenti del fatto che «quello/a di religione» è prima di tutto (o almeno anche) «insegnante», quindi parte della comunità a pieno titolo. Per noi – anche chi scrive è un IDR da circa 25 anni – la specifica viene sempre prima del sostantivo. Essere riconosciuti come «insegnanti», partendo da «di religione» non è facile.

Chi ci è riuscito – tra quelli cui è stato consentito o è stato semplicemente possibile – ci è riuscito non solo per la passione educativa o la preparazione professionale che qui do per scontati (non in modo ingenuo, ma per non confondere i piani e le questioni). Chi è stato riconosciuto in questi anni parte della comunità educante, è anche perché ha praticato ogni forma di meticciato disciplinare prima di (e anche dopo) ogni teorizzazione di inter e multidisciplinarietà; perché si è speso/a per la scuola imparando i suoi meccanismi di funzionamento spesso sotterranei e onerosi, accettando incarichi di coordinamento, di vicepresidenza, di funzioni strumentali (e chi più ne ha, più ne metta); perché ha manifestato, rinunciando se necessario a porzioni di stipendio, per i diritti di tutti e non solo per i propri. Ecco, quasi tutto questo, oggi, è più difficile.

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Non ne faccio una questione etica, ma strutturale. Dopo la Legge 107 del 2015 e i seguenti Decreti Attuativi, il fatto che gli IDR non abbiano una classe di concorso «come gli altri» ci ha tagliati fuori da tutto, o quasi. Nella comunità che è la scuola siamo strutturalmente ospiti, non soggetti a pieno titolo. Certo, possiamo ancora servire come coordinatori di classe (soprattutto in quelle situazioni di emergenza – ancora questa parola – tali da forzare le interpretazioni giuridiche), ma siamo chiamati fuori da ogni organico di potenziamento, quindi da quasi tutti i gangli vitali della macchina-scuola, per come è fatta oggi.

Sull’interdisciplinarietà, basti solo l’esempio di non poter essere inclusi come disciplina nei percorsi di fine ciclo. Da tutto questo non siamo stati esclusi per una questione ideologica che deriva dalla secolarizzazione, ma per il particolare stato giuridico che ci vincola al controllo episcopale e ci priva di una classe di concorso.

Su questo aspetto occorrerebbe una spiegazione più dettagliata che qui non ho il tempo di sviluppare. Forse è più efficace dirlo in modo figurato: quando confessionalità e facoltatività sembravano essere le prime note del De Profundis dell’insegnamento religioso a scuola, gli IDR hanno resistito imparando ad essere insegnanti come gli altri sul campo, accettando di occupare spesso ruoli e compiti di servizio reale e oneroso. Oggi, la confessionalità e la facoltatività continuano a ingombrare con il loro peso il nostro zaino, ma – in più – non siamo insegnanti «come gli altri» non solo perché non diamo voti e non siamo obbligatori, ma perché non possiamo nemmeno contribuire a far funzionare la struttura.

Sono sicuro che nei prossimi decenni gli e le insegnanti, come avvenuto in passato, si inventeranno qualcosa per continuare a tramandare una testimonianza credibile, ma non li invidio. Forse, chi di dovere potrebbe provare a mettere in atto qualcosa che non sia solo una difesa dell’esistente in nome di un’idea di scuola e di Chiesa che non esistono più. Sapere che esiste un Gruppo di ricerca finanziato dalla CEI che è giunto a queste conclusioni e che le ha messe in circolo è, almeno in questo, motivo di speranza.

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14 Commenti

  1. Annibale Marini 6 ottobre 2025
  2. Mauro Mazzoldi 4 ottobre 2025
  3. Giovanni Salmeri 30 settembre 2025
    • Massimo Pieggi 30 settembre 2025
      • Michele Di Tolve 30 settembre 2025
        • Massimo Pieggi 1 ottobre 2025
    • Federico Castaldi 1 ottobre 2025
    • Massimo Pieggi 1 ottobre 2025
  4. Alessandro 30 settembre 2025
  5. Massimo Pieggi 29 settembre 2025
  6. Federica Spinozzi 29 settembre 2025
    • Chiara 30 settembre 2025

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