Un Paese di poveri, evasori e tartassati

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I dati dell’Istat sulla povertà assoluta e relativa delle famiglie e le dichiarazioni fiscali degli italiani analizzate da Itinerari previdenziali nell’ultima relazione annuale non sono calcolati su basi omogenee.

Dal punto di vista strettamente tecnico, sarebbe improprio metterli a confronto. Ma dal punto di vista sociale e politico la differenza tra gli uni e gli altri è talmente eclatante da far emergere con chiarezza tre problemi che meritano di essere approfonditi.

Il primo: l’ampiezza vera del numero delle famiglie italiane che si trovano in difficoltà.

Il secondo problema: l’ampiezza vera dell’evasione fiscale, cioè la quantità davvero esorbitante di cittadini italiani che scaricano sulle spalle degli altri il proprio mantenimento (sanitario, previdenziale, assistenziale, scolastico), nascondendosi tra i poveri reali, che hanno davvero bisogno dell’aiuto della collettività.

Il terzo: la traballante sostenibilità, in queste condizioni, dello Stato sociale, cioè di quel complesso di servizi che vanno appunto dalla sanità alla previdenza, dalla scuola all’assistenza, e la conseguente necessità di politiche adeguate.

Senza contare la straordinaria povertà di discussione politica su questi temi così importanti per la vita di tutti noi.

Poveri ed evasori

Ma andiamo per ordine e vediamo i dati. L’ultima rilevazione della povertà in Italia pubblicata dall’Istat riguarda il 2023. Quell’anno sono risultati in povertà assoluta, cioè non in grado di provvedere tutti i giorni a mettere insieme il pranzo e la cena (a seconda della zona e del costo della vita nella zona in cui abitano), più di 2,2 milioni di famiglie (8,4 per cento di tutte le famiglie residenti).

In termini unitari, quasi 5,7 milioni di individui (il 9,7 per cento del totale degli individui residenti).

Sempre nel 2023, sono risultate in povertà relativa (due persone che vivono entrambe con non più di 1.210,89 euro al mese) oltre 2,8 milioni di famiglie, corrispondenti statisticamente a quasi 8,5 milioni di individui.

In tutto, tra poveri assoluti e poveri relativi, secondo l’Istat si arriva a 14,2 milioni di persone. Un dato di per sé già impressionante.

Dal punto di vista fiscale, sempre per il 2023, sono stati appena pubblicati i dati della ricerca che ogni anno svolge meritoriamente Itinerari previdenziali sulle dichiarazioni dei redditi degli italiani. Ecco i risultati.

Su 58,9 milioni di abitanti, solo 42,5 milioni di contribuenti hanno presentato una dichiarazione dei redditi. Tra questi ultimi, solo 33,5 milioni di contribuenti hanno versato almeno un euro di tasse.

Di fatto, oltre il 43 per cento degli italiani non versa nulla allo Stato (tra quelli che non dichiarano, per esempio i minori a carico, e quelli che non devono versare nulla perché hanno redditi zero o sono in perdita tra costi e incassi).

Più in particolare, per quanto riguarda l’Irpef, un milione 184mila 272 contribuenti, corrispondenti statisticamente a oltre un milione e 641 mila abitanti (58,9 milioni di residenti diviso 42,5 milioni di contribuenti fa 1,386 abitanti per dichiarante), hanno denunciato redditi nulli o perdite, versando zero euro allo Stato nel 2023.

Sette milioni 288 mila e 399 contribuenti, corrispondenti statisticamente a oltre 10 milioni e centomila abitanti, hanno dichiarato redditi da zero a un massimo di 7500 euro lordi l’anno.

Ma solo due milioni e 121.966, fatti i calcoli dell’Irpef, ha dovuto versare qualcosa allo Stato. In media, al netto del Trattamento integrativo del reddito introdotto nel 2022 e di altre detrazioni, ciascuno di costoro ha versato 26 euro di tasse per il 2023.

In tutto, queste due prime fasce di contribuenti che hanno presentato la dichiarazione rappresenterebbero oltre 11 milioni e 740 mila individui, quasi un quinto della popolazione italiana.

Ma poi ci sono altri sette milioni 696 mila 479 contribuenti, corrispondenti ad altri 10 milioni 666 mila residenti in Italia, che hanno dichiarato un reddito annuo da un minimo di 7.500 euro fino a un massimo di 15 mila euro lordi. Solo poco più di 5,6 milioni di costoro hanno dovuto versare qualcosa in base alla propria dichiarazione (al netto del trattamento integrativo del reddito, 296 euro in media ciascuno).

In sostanza, cioè, ci sono altri dieci milioni di persone, quasi un altro quinto della popolazione italiana, la cui collocazione sociale “balla”, dal punto di vista della dichiarazione dei redditi, intorno alla soglia di povertà, un po’ sotto, un poco appena sopra.

Anche costoro per il fisco sono “tecnicamente” poveri o quasi poveri, considerato l’aumento del costo della vita soprattutto se si pensa ai beni di prima necessità. Di conseguenza, già non ci siamo più con i numeri della povertà segnalati dall’Istat.

Altri cinque milioni e 72 mila 285 contribuenti, statisticamente corrispondenti ad oltre 7 milioni di residenti, hanno dichiarato all’erario redditi annuali lordi tra i 15 e i 20 mila euro.

Solo 4,6 milioni di questi contribuenti hanno dovuto versare qualcosa (una media al netto di detrazioni e Tir di 1.817 euro l’anno).

E qui va tirata una prima linea per cominciare a riflettere su questi dati. La ragione è semplice: fino a questo punto nessuno di costoro ha versato al fisco una somma almeno equivalente a quanto ciascun cittadino costa alla sanità pubblica (intorno ai 2.400 euro a testa).

In sostanza, quasi sedici milioni e mezzo di cittadini non hanno presentato la dichiarazione e non hanno versato un euro al fisco.

A questi vanno sommati più di 21,4 milioni di contribuenti che hanno fatto la dichiarazione e che statisticamente rappresentano altri 29,43 milioni di residenti, nessuno dei quali ha versato al fisco quanto sia costato per l’assistenza sanitaria di un anno.

In tutto fa quasi 46 milioni di residenti su 58,9 che risultano sostenuti da denaro altrui.

Di fatto, il 78 per cento della comunità o non versa nulla o comunque dipende dal contributo degli altri italiani per integrare il costo della sola sanità, senza contare pensioni assistite, assistenza vera e propria, formazione (dall’asilo nido all’Università).

Qual è il vero problema

Da qui una prima conclusione. O siamo in crisi nera e abbiamo una povertà di fatto molto, molto più estesa di quella pur drammatica che indicano sia i dati dell’Istat che quelli della Caritas, cioè siamo di fronte a un impoverimento storico degli italiani; e allora bisognerebbe prenderne atto con umiltà e intervenire con determinazione invece di magnificare ad ogni occasione le straordinarie performance del paese.

Oppure dobbiamo ammettere che c’è uno stuolo troppo grande di “ladri” che si nascondono tra i poveri veri, evadendo il fisco e quindi scaricando sugli altri italiani il peso dei propri consumi; e allora bisognerebbe finirla con il regalare soldi agli evasori con un condono dietro l’altro.

Oppure ci sono non solo più poveri di quanto si dice ma anche più evasori di quanto si ammetta.

Non basta. La relazione annuale di Itinerari previdenziali ci dice anche che oltre la linea dei 20 mila euro di reddito lordo l’anno e fino ai 100 mila euro, il peso delle tasse diventa esorbitante, per poi via via stabilizzarsi su quantità di reddito più importanti.

Poco meno del 30 per cento dell’Irpef arriva dai contribuenti con reddito da 20 a 35 mila euro di reddito annuo. Poco meno di un altro 40 per cento delle entrate Irpef arriva dai contribuenti con redditi dai 35 ai 100 mila euro di reddito lordi l’anno.

L’ipotesi del Governo

Da qui, una seconda considerazione. Fa bene il Governo a pensare a un abbassamento della percentuale di trattenuta fiscale (dall’attuale 35 al 33 per cento) sui redditi che vanno dai 28 ai 50 mila euro di reddito lordo l’anno?

Secondo molti esperti sarebbe meglio adottare una formula che adegui in modo graduale e ordinato il livello del prelievo, come in Germania. O almeno collegare all’inflazione le soglie di reddito sulle quali applicare le aliquote di prelievo, in modo da annullare la tassa “fantasma” del fiscal drag, fenomeno che a causa dell’inflazione fa aumentare le tasse di anno in anno.

Ma se si scegliesse di adottare il taglio dell’aliquota al 33 per cento, allora sarebbe meglio far valere questa percentuale di prelievo almeno fino a 60 mila euro di reddito l’anno, in modo da mitigare almeno per un po’ di tempo il fiscal drag per il ceto medio.

Il Governo farebbe insomma un danno se, invece di far valere il taglio dell’aliquota fino a 60 mila euro di reddito lordo l’anno, sprecasse gli stessi soldi per tenere buono Matteo Salvini e avviare una nuova “rottamazione”, eufemismo sempre verde per dire condono. Sarebbe un danno perché in questo modo il Governo premierebbe un’altra volta gli evasori e lascerebbe ancora una volta il peso del sostegno dei servizi pubblici al ceto medio.

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, certo ha già promesso che nel caso si procedesse alla rottamazione quinquies farà un provvedimento molto stringente, per evitare che vi siano spazi per i furbi e invece possibilità di redenzione fiscale per coloro che sono davvero in difficoltà.

Ma come l’esperienza insegna (e il Governo sa benissimo) sarà poi il dibattito parlamentare e gli emendamenti proposti da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia ad allargare tutte le maglie, favorendo per l’ennesima volta gli scrocconi dei servizi pubblici, nascondendoli dietro gli scudi umani dei poveri veri.

Chi paga il welfare

Infine, vale la pena di fare un’ulteriore considerazione sul tema della sostenibilità del welfare state in Italia. I dati mostrano che già così non è più possibile reggerlo.

Se non si interviene, la quantità di servizi andrà a restringersi ancora e ancora, perché la sanità costa sempre di più, perché la popolazione invecchia e sono sempre di meno i giovani che versano contributi, perché le fonti di finanziamento per pensioni, assistenza e formazione sono sempre più risicate, mentre nuove spese pubbliche, per nuove materie (basti pensare alla difesa), si annunciano all’orizzonte.

Forse sarebbe il caso che la politica, di qualsiasi colore, ma soprattutto se orientata in senso progressista, cominci ad affrontare di petto questo problema: si decidesse ufficialmente quale organizzazione sociale si vuol perseguire e, di conseguenza, quale fisco sia giusto per perseguire quell’obiettivo.

Senza questa connessione stretta tra il tipo di società che ci si propone di realizzare e di mantenere e il tipo di fisco che ne deriva per necessità, ogni proposta rischia di sembrare mero chiacchiericcio.

Certo ci vuole coraggio e fermezza. Ma i risultati elettorali non arrivano senza chiarezza e senza mantenimento della rotta.

Dal 1994, dall’avvento di Silvio Berlusconi, i partiti di destra non hanno mai cambiato opinione sul fisco e, ogni volta che hanno potuto, hanno messo in pratica le proprie idee. Pensano che lo Stato non debba mettere le mani nelle tasche dei cittadini per finanziare la sanità, la scuola e la previdenza per tutti. Lo pensano, lo dicono e lo fanno. Amano e perseguono l’espansione dei servizi gestiti da privati a pagamento.

Anche il centrosinistra ha le proprie idee sul welfare uguale per tutti e sull’evasione fiscale. Certamente lo pensa, ma un po’ lo ha fatto e un po’ no, un po’ se ne è vergognato, un po’ ci ha messo il silenziatore.

Tanto per dire, se negli ultimi anni c’è stato un recupero di evasione lo si è dovuto alla realizzazione della fatturazione elettronica e allo split payment (lo dicono la Banca d’Italia e lo stesso governo): li aveva suggeriti da anni Vincenzo Visco e lo hanno applicato, contro il parere dei parlamentari del centrodestra, gli ultimi esecutivi di centrosinistra.

Ecco: alzi la mano chi ha sentito la rivendicazione di questi successi da qualche rappresentante del centrosinistra.

Che società vogliamo

Le tasse non sono basse o alte in sé: lo sono in relazione al tipo di società che vogliamo. Se tutto diventa privato, è chiaro che bisogna lasciare ai cittadini più risorse per curarsi, formarsi, fare investimenti con i soldi che restano loro in tasca. Se poi i cittadini ce la fanno, bene. Se non ce la fanno, si arrangiano.

Se invece i cittadini pretendono un welfare di medio livello europeo per tutti, senza dover pagare salato di tasca propria, è altrettanto chiaro, e va detto con coraggio, che le tasse non possono essere abbassate oltre un certo limite.

Non solo: è indispensabile che tutti, soprattutto i più ricchi, debbano essere costretti a pagarle in base al proprio reddito vero e anche alla crescita del proprio patrimonio, perché altrimenti l’idea che il Welfare possa reggere è una chimera.

Naturalmente possono esserci modelli un po’ misti, spostati verso il Welfare pubblico ma con alcuni contributi lasciati al privato, o per la gran parte lasciati all’iniziativa privata, tranne che per qualche povero disperato. Ma bisogna essere chiari su un punto: l’una e l’altra cosa, zero tasse e welfare al massimo, non si possono avere insieme.

E va detto con chiarezza, altrimenti i cittadini si sentono presi in giro e senza la visione di un orizzonte chiaro, nel crescere della sfiducia, o non votano o premiano coloro che, intanto, nel breve periodo, gli consentono piccoli sotterfugi. Domani, come dice la canzone, è un altro giorno, si vedrà.

Naturalmente, nel caso che si scelga un sistema in cui sia centrale il welfare pubblico e una relativa tassazione, come in Italia, è meglio se lo Stato riesce a far pagare il giusto con la convinzione, in modo amichevole.

Ma va anche detto per concludere: non bisogna fare confusione, come fa spesso il Governo Meloni, tra modo amichevole e (uso un orrendo termine nuovo, me ne scuso) amikettismo elettorale con gli evasori.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 2 ottobre 2025

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3 Commenti

  1. Giuseppe 17 ottobre 2025
  2. Lucio Croce 7 ottobre 2025
  3. Pietro 5 ottobre 2025

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