Elisa: il crimine e l’anima

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Un’esperienza scolastica di alcuni anni fa con alunni liceali e l’interesse coltivato mi spingono alla visione del film Elisa (2025) di Leonardo Di Costanzo, liberamente ispirato al saggio dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Io volevo ucciderla, Raffaello Cortina editore, Milano 2022).

Ci preme riflettere sui molteplici temi che ruotano intorno al (vero) fatto di cronaca e soprattutto alle cause e conseguenze. Quelle interiori della protagonista in primo piano (che cosa ha mosso la mano omicida di Elisa nei confronti della sorella?) e quelle che coinvolgono società civile, sistemi legislativi e carcerari.

Inoltre, il film sollecita la domanda che si ponevano i miei giovani studenti, forse contagiati da curiosità un po’ morbose e da influenze mediatiche: chi è il criminologo?  Una figura che nella visione cinematografica campeggia insieme a quella della protagonista.

I due volti sono meticolosamente seguiti dalla macchina da presa e osservati con angolature diverse. L’insistenza con cui vengono riposizionate le due persone ci prepara al loro faticoso incontro. Incontro per nulla facile né scontato. Sono numerosi e irti i tornanti sulla montagna che il criminologo percorre per raggiungere l’istituto penitenziario dove la giovane donna è reclusa. Inoltre, un coro di voci diffidenti giudica tale contatto inopportuno e persino pericoloso.

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Eppure, proprio dalla loro relazione può nascere una verità che non si limita a ricostruire e definire fatti accaduti. E neppure a ribadire la liceità di un verdetto giuridico che ha già sentenziato condanna e pena. Si insinua un altro piano narrativo, imprevedibile, in cui può nascere qualcosa di nuovo. Il focus è l’evento delittuoso nella sua ripetuta narrazione che scorre tra il prima il poi.

La donna omicida lo racconta da prospettive diverse, lasciandosi coinvolgere dall’interlocutore che con discrezione e professionalità non evade mai il punto centrale. Egli sa formulare precise domande, probabilmente le stesse che già circolavano della mente di Elisa ma che ella lasciava nel vago, come i suoi passi inquieti sui sentieri del parco recintato.

Un pezzo di Svizzera tra Italia e Francia, la sede della detenzione ove ella sconta la pena. Un luogo di frontiera poiché la domanda sul bene e sul male lambisce inevitabilmente linguaggi e costumi diversi. Non basta la più imparziale e corretta decisione di un giudice per configurare con nettezza il discrimine tra il lecito e l’illecito.

Lo spazio tortuoso e a tratti algido (il paesaggio è per lo più innevato) tra i sentieri della coscienza si può percorre solo se un’altra coscienza vigila al nostro fianco con speranza e intelligenza. Ci si può disporre liberamente ad una reciproca accoglienza. Non ci sono tempi certi per questa avventura che prevede pause, intermittenze e si dilata tra passato e presente. Il passato non passa ed entra prepotentemente nel tessuto quotidiano di vita.

Il numero degli anni di pena assegnati al colpevole incide solo in parte sulla temporalità interiore dove può accadere che un evento salvifico muti il paesaggio interiore. Conta la disposizione personale a ricercare moventi e responsabilità di quel che si è compiuto. Conta il profondo e personalissimo esame di scavo, l’ascolto guidato di voci interiori. Liquidare il gesto violento come un “raptus” significa svilire il soggetto che lo ha compiuto e relegarlo in una sfera di anonimato, privarlo di dignità.

Una dignità umana che va comunque difesa indipendentemente dalla gravità del reato. Altrettanto fuorviante sarebbe addebitare colpe e responsabilità a sfumati gruppi familiari o a un’indistinta “società” violenta. Ѐ invece d’obbligo riconoscere e rispettare il dolore di chi ha subito offese gravissime e di chi piange perdite irreversibili. Tuttavia, solo chi cerca con fatica il senso di atti criminosi e apparentemente ingiustificati può innescare un punto di non ritorno.

Il volto di Elisa diventa una maschera di dolore nel momento in cui ella si coglie come unica autrice del crimine e proprio in quello spazio temporale viene a galla una verità che finalmente lei stessa riconosce. Lì può rinascere la sua autentica libertà pur nei vincoli dell’istituzione carceraria. Le montagne possono essere viste dall’alto e non più solo da una posizione inferiore. Appare un cosmo nuovo in cui è persino possibile ricordare nel modo migliore il volto della sorella perduta.

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Visitando quest’estate il Museo valtellinese di storia e arte di Sondrio (di cui ringraziamo la direzione per le immagini fornite) sosto su due cicli di affreschi strappati e risalenti rispettivamente al ‘300 e del ‘400 e di cui è nota la sola committenza (la famiglia dei da Pendolasco, oggi comune di Poggiridenti, nel cuore della Valtellina).

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Raffigurano entrambi le Sette opere di misericordia corporale dal brano evangelico Mt,25,31-46. Sono brani pittorici rari poiché collocati in una casa civile. Cicli analoghi, infatti, si trovano in chiese ed oratori spesso con la funzione di “biblia pauperum” al fine di illustrare con immagini ammaestramenti morali e temi teologici.

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Affresco XIV secolo. In alto la scritta: In carcerem eram et venistis ad me: Ero in carcere e siete venuti da me.

Tra le scene vi è l’illustrazione “visitare i carcerati” con esplicito riferimento a Mt,25,36 “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Icone molto semplificate mettono in scena la vicinanza e il possibile dialogo tra le due figure: una rinchiusa in una turrita prigione e l’altra lì accanto a lei, con una mano che si accosta alla grata della finestra. I due volti sono affiancati e si scambiano lo sguardo. Un’incisiva atmosfera di cura permea la relazione.

Nell’affresco più antico – con le citazioni evangeliche in latino sulla sommità di ogni scena – una figura aureolata in abito chiaro apre la lettura (da destra a sinistra) dell’elenco settenario. “È la possibile personificazione della Carità. Mostra offerente un cestino di fiori, dai delicati petali bianchi e rosa carminio con tenui foglioline verdi; così come sul petto una residuale macchia porpora poteva forse definire un cuore ardente da cui scaturisce un ramoscello che parrebbe d’ulivo”. (Angela Dell’Oca, 2012)

Non credo che i miei studenti conoscessero l’elenco delle opere di misericordia corporale, un tempo studiato a memoria al catechismo e forse fruito un po’ nozionisticamente. Eppure, dopo aver ascoltato parecchie testimonianze nel seminario di studio sulla giustizia riparativa che avevo organizzato con alcuni colleghi, hanno dimostrato particolare sensibilità a queste tematiche sono venuta a sapere di una scelta di volontariato nella casa circondariale prossima alla città del liceo.

A volte accadono eventi importanti che cambiano in bene percorsi di vita (persino quelli imperdonabili). Non bisogna scordarlo.

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