Sudan: la tregua che non c’è

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I Ribelli delle Forze di Supporto Rapido (RSF) hanno annunciato di aver accettato i termini di un cessate il fuoco proposto da Stati Uniti, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Dall’esercito sudanese, per ora, nessuna risposta. Le due formazioni, protagoniste di un conflitto che si trascina da due anni e mezzo sono accusate di aver ucciso migliaia di civili disarmati.

Poche ore prima che emergesse la notizia del cessate il fuoco, alcune immagini satellitari mostravano uomini delle RSF nascondere corpi in quelle che sembrano essere fosse comuni. Per questo, come sottolinea il quotidiano The Guardian «la svolta potrebbe essere un tentativo da parte dei ribelli di distogliere l’attenzione dalle accuse nei loro confronti» e nei confronti degli Emirati Arabi, ritenuti da vari osservatori principale sponsor dei paramilitari guidati da Mohamed Hamdan Degalo «Hemedti», nonostante Abu Dhabi neghi da sempre ogni addebito.

In particolare, la caduta di El-Fasher lo scorso 26 ottobre, dopo un assedio durato quasi un anno e mezzo da parte delle RSF, avrebbe dato il via a uccisioni sistematiche e massacri a sfondo etnico: attivisti per i diritti umani ritengono credibile che migliaia di civili siano stati massacrati. Con la conquista della città, le RSF hanno ripreso il controllo dell’intera regione occidentale del Darfur; le RSF tengono anche ampie zone del sud del paese, mentre l’esercito controlla le regioni settentrionali, orientali e centrali lungo il Nilo e il Mar Rosso.

Tregua, a parole o nei fatti?

Non è chiaro quali saranno le ricadute dell’annuncio delle RSF sul terreno. L’esercito sudanese, infatti, non ha ancora confermato la propria adesione al cessate il fuoco e, al contrario, un funzionario militare ha dichiarato all’agenzia di stampa Associated Press che Abdel Fattah al Burhan – che guida i militari – acconsentirà ad una tregua soltanto «in cambio del ritiro dei ribelli» dalle zone e dalle città occupate.

Una prospettiva irrealistica, considerato che grazie alla capitolazione di El-Fasher ora i paramilitari rivendicano il controllo di un territorio vasto quanto la Francia, al confine con Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan. Non sarebbe la prima volta d’altronde: negli anni entrambe le parti hanno accettato varie proposte per il cessate il fuoco che però non sono mai state rispettate.

La roadmap, proposta il 12 settembre, sulla quale il Dipartimento di stato americano stava lavorando da settimane con trattative separate con delegazioni delle due parti, prevede una tregua umanitaria di tre mesi, seguita da un cessate il fuoco e dall’avvio di un processo politico per una transizione, i cui contorni tuttavia paiono ancora tutti da delineare.

Civili in trappola?

Di certo, l’urgenza primaria è quella di far cessare i combattimenti per permettere l’ingresso di aiuti umanitari alla popolazione stremata da quasi 31 mesi di guerra. Lunedì scorso, i procuratori della Corte penale internazionale hanno dichiarato di aver raccolto prove di presunte uccisioni di massa, stupri e altri crimini a El-Fasher.

Testimoni hanno riferito che i combattenti di RSF sono andati casa per casa, uccidendo civili e commettendo violenze sessuali. Secondo le Nazioni Unite, più di 70 mila persone sono fuggite dalla città e dalle zone circostanti da quando i ribelli hanno preso il potere; testimoni e gruppi per i diritti umani hanno segnalato casi di esecuzioni sommarie e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato la «tragica uccisione di oltre 460 pazienti e personale medico» in un ex ospedale pediatrico.

Se il Darfur è l’occhio del ciclone, nel complesso, l’intero Sudan è teatro della crisi umanitaria e di sfollamento più grave al mondo. Circa 30 milioni di persone – oltre metà della popolazione – necessitano di assistenza umanitaria. Oltre 20 milioni soffrono di insicurezza alimentare, e almeno 12 milioni sono stati sfollati, di cui 4 milioni nei Paesi limitrofi. Le capacità di accoglienza di Paesi vicini, messe a dura prova e ulteriormente indebolite dalla sospensione degli aiuti statunitensi, faticano a soddisfare i crescenti bisogni di civili abbandonati a sé stessi in campi profughi sorti spesso spontaneamente a ridosso delle frontiere.

Chi decide il destino del Sudan?

Da tempo, ormai, quella che si combatte in Sudan è diventata una guerra per procura, con attori regionali in competizione per le risorse di un Paese ricco d’oro. Per questo l’ingresso di Abu Dhabi nel meccanismo Quad – mentre Egitto e Arabia Saudita appoggiano le SAF – ha alimentato le speranze che si possa giungere presto a una svolta nelle trattative.

Negli ultimi 15 anni, fa notare Alain Boswell su Foreign Affairs «l’influenza degli USA nel Corno d’Africa è diminuita. Allo stesso tempo, le potenze regionali emergenti hanno individuato opportunità commerciali e diplomatiche e procurato alla regione gli investimenti necessari e alcune di queste potenze si sono dimostrate agili mediatori. Tuttavia, il sostegno alle parti in guerra da parte dei Paesi del Golfo, ciascuno con i propri interessi inconciliabili, ha reso i conflitti molto più difficili da risolvere. Questo intreccio di influenze esterne fa sì che nessuna potenza, da sola, abbia oggi la forza di costringere i belligeranti a negoziare. E che gli accordi di pace – osserva Boswell – anche quando si raggiungono, raramente ottengono di più che congelare uno status quo frammentato».

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