L’Europa, i cristiani, il riscatto del Levante

di:
medio oriente

Civili in fuga da Basra, Iraq, marzo 2003 (Paolo Pellegrin/Magnum Photos)

Sabato 8 novembre, nella sessione conclusiva del Convegno «La solitudine dell’Europa: le Chiese e l’Unione» (cf. qui su SettimanaNews) dedicata ad alcuni sguardi sull’Europa e dall’Europa, Riccardo Cristiano ha offerto un contributo focalizzato sul Medio Oriente.

Come sarà il Medio Oriente nel 2026 non lo sappiamo. Per saperne di più molti ritengono di dover aspettare metà novembre quando il principe saudita bin Salman andrà a Washington da Donald Trump. Di lì a breve papa Leone XIV sarà a Beirut, prima metropoli che ha scelto di visitare dall’inizio del suo pontificato. Una scelta che parla al piccolo Libano, il solo dove i cattolici sono ancora decisivi e tanti, ma anche a tutta la regione, visto che da qui potrebbe partire la stabilizzazione, negoziando con Israele, o la destabilizzazione.

La scelta di Leone è importante e sembra mirare a contribuire all’idea di stabilizzare il Medio Oriente ripartendo da quanto disse Giovanni Paolo II andando a Beirut nel 1997; «il Libano è un messaggio». Quale? Nel mediterraneo orientale la complessità è diventata una debolezza, ma la storia del primo Libano, indipendente dal 1943, dimostra che le diversità possono essere una forza: le banche del Libano erano le più ricche del Medio Oriente, la compagnia di bandiera la quarta al mondo.

Questo è il messaggio nato da un patto neanche scritto tra le diverse comunità libanesi che rifiutarono il colonialismo francese scegliendo la coesistenza islamo-cristiana con la divisione delle supreme magistrature nazionali: Presidenza della Repubblica ai maroniti, Primo Ministro ai sunniti, Presidente del Parlamento agli sciiti. Questo patto ha retto per un secolo, oggi va ripensato, reinterpretato. Ma il messaggio è sempre valido e dice che la tentazione dello Stato etnico-confessionale va presa come una pericolosa scorciatoia perché tutto il mediterraneo orientale non ha avuto il tempo di metabolizzare l’idea di nazione, confusa con quella di comunità religiosa. Il Libano può tornare ad essere un avamposto di statualità orientale, cioè di superamento del tribalismo; questo a mio avviso è il messaggio.

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Leone certamente manderà un messaggio di «pace», o per meglio dire auspicherà «pace a tutti voi», calzante per Stati plurali. Ma questo comporta molte scelte difficili, non solo per il Libano, anche per il vicino Iraq, che vota in questi prossimi giorni e per la confinante Siria, che sta trasformando un ex seguace di al-Qaida nel perno della coalizione contro il terrorismo: come accadrà questo? Dando all’asse islamista tra il turco Erdogan e il nuovo leader siriano al-Sharaa tutto il potere o riuscendo a costruire un partenariato con chi ha combattuto l’ISIS sin qui, cioè i curdi? Nella seconda ipotesi potremmo cominciare a pensare a questa enorme landa di distruzione e miseria, quella che va da Beirut a Baghdad, come a uno spazio, un enorme spazio da ricostruire. L’epoca dello scontro potrebbe essere archiviata. Questo mi sembra l’orizzonte da considerare, come prospettiva.

Se vogliamo sperare dobbiamo guardare alla trasformazione possibile; il presidente siriano, al-Sharaa, a differenza di molti suoi alleati o sottoposti che non vogliono trasformarsi, lo sta facendo perché ammette la sconfitta del terrorismo da cui viene, quello che rifiutano di fare i libanesi di Hezbollah. Mentre al-Sharaa ammette la sconfitta del terrorismo sunnita da cui viene, quello prima di bin Laden e poi dell’ISIS e cerca una trasformazione di certo integralista ma compatibile col mondo, i miliziani sciiti e khomeinisti di Hezbollah rifiutano il principio di realtà, agiscono come se avessero vinto la guerra. Invece hanno perso e non solo loro, con loro ha perso il Libano, il Paese che Hezbollah aveva inglobato nel suo Stato informale anche per colpa di chi, soprattutto tra i cristiani, ne è stato alleato fedele per anni.

Dunque per parlare del viaggio di Leone (cf. qui su SettimanaNews) dobbiamo presentare questi due progetti che hanno sconvolto questo spazio che va da Baghdad a Beirut: quello da cui è uscito al Sharaa, restando però un integralista, e quello da cui non esce Hezbollah.

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Dagli anni Ottanta Hezbollah è l’avamposto militare sul Mediterraneo dei khomeinisti che volevano rifare l’impero persiano, la vendetta epocale dei persiani contro gli arabi, e conquistare l’islam tornando fino al Mediterraneo, lo sbocco più agognato, quello dove hanno posto il loro avamposto in armi. Il successo di Hezbollah è stato il successo di una forza militare khomeinista, cioè votata all’esportazione della rivoluzione iraniana, che ha dominato tutto il mondo arabo presentandosi come il solo prodotto capace di rivaleggiare con Israele mentre i leader arabo-sunniti, ricchi e corrotti, ne erano incapaci. Così Hezbollah si è impossessato dei cuori di popoli umiliati e malgovernati, da leader incapaci e corrotti, sostituendosi allo Stato libanese con il suo esercito, il suo sistema bancario, il suo sistema assistenziale. Poi però per via di un’operazione di intelligence, Israele si è infiltrata nei sistemi di comunicazione di Hezbollah nel 2024 e ha vinto, contro Hezbollah, contro i suoi padroni iraniani e il loro strumento di comunicazione siriano, Bashar al Assad. Cosí è andata in crisi l’idea di rifare l’impero persiano.

Ciò non toglie però che il sistema politico libanese sia ancora costruito come Hezbollah. Ogni partito confessionale, musulmano o cristiano, tenta di impossessarsi con una leadership forte della sua comunità di fede come ha fatto Hezbollah, di costruirsi un referente esterno, come ha fatto Hezbollah, di avere una banca, una rete assistenziale, una televisione, come Hezbollah.

Allora la pace di cui parlerà Leone XIV non è solo la pace del realismo politico, cioè del disarmo di Hezbollah, che questo partito si attarda a rifiutare. Oltre alle mani vanno disarmate le menti e i partiti devono tornare a servire il bene comune, il bene dello Stato di tutti, non della comunità chiusa, arroccata, indifferente a tutti gli altri. Solo così il Libano tornerà il messaggio che è Stato: questa società, che è sia araba sia occidentalizzata, proprio per questa ambivalenza può riprodurre uno Stato plurale, affluente, che serve il bene comune. Questo potrebbe diventare un modello per la Siria di al-Sharaa e per l’Iraq?

Al-Sharaa, dopo aver abbandonato l’opzione di terrorismo globale, prima quello di al Qaida e poi quello delll’ISIS, ha scelto l’opzione del terrorismo islamista, arabo e sunnita, opposto quindi a Hezbollah: lui mirava a un’islamizzazione araba della Siria cacciando il filo iraniano Assad. Ora che guida la Siria capisce che deve allearsi con i poteri globali, non combatterli. Oggi può far tornare a mangiare i siriani se tiene con sé turchi, americani, sauditi e russi. Trump gli ha dato tutto ciò che poteva, via le sanzioni e via l’accusa di terrorismo. Lui in cambio entrerà nella coalizione che combatte l’ISIS, ma accetterà di farlo con i curdi siriani che non ama essendo un assolutista? I curdi, vero avamposto nella lotta all’ISIS da anni, sanno che lui ha dietro di sé terroristi che non vogliono cedere nulla.

Questo accordo, difficilissimo, obbligherebbe anche la Siria a qualche forma di pluralismo, come il Libano se superasse l’epoca dell’egemonia di Hezbollah. Al-Sharaa viene ricevuto alla Casa Bianca, un onore mai riconosciuto ai curdi per anni di lotta all’ISIS; se Trump non cederà troppo e al-Sharaa sarà sospinto a trovare un accordo con i curdi, a chi potrebbe avvicinarsi il nuovo al-Sharaa per trovare una prospettiva commerciale per la Siria se non al Libano, se questo rinascesse con una proiezione mediterranea?

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Il Libano è un piccolissimo Paese oggi in macerie, proprio come la Siria e l’Iraq, ma prima della guerra civile era una potenza economica, costruita su un’economia opaca. Oggi l’opacità è rimasta, ma non c’è il potere economico, per colpa di tutti, non solo di Hezbollah. Il saccheggio tribale dei forzieri dello Stato andrebbe raccontato. Da diversi giorni Israele sta intensificando le sue operazioni militari e si dice che un attacco sia imminente. Il viaggio del papa forse lo sposterà, lo farà slittare, ma per evitarlo occorre altro.

La pace di cui parlerà Leone indicherà la necessità di negoziati con il nemico partendo dalla presa d’atto della sconfitta. Questo è indispensabile; guardare in faccia la realtà. Riconoscere la verità fattuale può far cominciare un’altra epoca, una sfida culturale e non militare. Le difficoltà di Israele ci sono, evidenti e sono trattate da molti. Ma per l’area del nord arabo si tratta di rinascere, con la presa d’atto che la questione c’è, ma è culturale non militare. La sconfitta va ammessa, se non lo si fa non si cambia strada.,

Seguendo il piccolo Libano e la sua dimensione araba ma anche occidentalizzata gli arabi della costa, quello che chiamo Grande Levante, potrebbero raggiungere un efficace Stato multiculturale se a Beirut si avvierà l’aggiornamento del proprio patto nazionale in modo da poter offrire un modello plausibile. Come è stato andava benissimo un secolo fa. Oggi serve un patto che dando garanzie a tutte le comunità dia anche diritti agli individui. La comunità non può essere una galera e solo il Libano ha ancora le carte per creare un modello democratico che unisca le due sfere, comunità e individuo.

Questo Libano non consente più partiti interconfessionali perché il voto è solo confessionale. Creare un sistema bicamerale con una Camera eletta con il sistema confessionale e l’altra con un sistema di partiti politici comuni a tutti i libanesi è un rimedio possibile subito, visto che è praticamente previsto dalla Costituzione. Questo modello offrirebbe una prospettiva, un esempio vitale per chi in Siria e in Iraq non accetta una deriva confessionale. Ma se al-Sharaa dovesse rompere con il mondo jihadista che lo segue e trovare un accordo con i curdi quale altra prospettiva avrebbe per restare a galla se non considerare questo modello? Riuscire a riconciliare comunità e individuo è una cura di cui quel mondo ha bisogno per ripartire.

Ma senza un impegno cristiano a rinunciare alla visione identitaria, chiusa, non sarà possibile elaborare la sconfitta che quei popoli hanno patito per colpa della visione militarista del conflitto in atto. Un efficiente modello di Stato multiconfessionale, plurale, sarebbe la migliore risposta per ripartire, e tornare interlocutori del mondo, del futuro, della pace. I paesi di cui parlo, oggi non contano nulla, il potere è in mano alle monarchie del Golfo, il mondo arabo affluente e che ormai teme l’islamismo come la peste perché per crescere ha scelto la via tecnocratica. Allearsi con queste monarchie affluenti è indispensabile, ma da portatori di una prospettiva diversa, quella della democrazia comunitario-individuale. Una prospettiva del genere era impossibile con Assad, ora è soltanto molto difficile. Al-Sharaa da quando è stato eletto si è dimostrato centralista e verticista, ma anche «pragmatico». Se invertisse il corso della storia recente e si avvicinasse all’idea di amicizia con il Libano, il loro potrebbe diventare un polo attraente per l’Iraq.

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Il riscatto del Levante andrebbe coadiuvato dall’Europa, il Vaticano potrebbe essere il facilitatore.

Queste due tracce di indirizzo possibile per la visita libanese di papa Leone per essere spiegate appieno nel loro sviluppo regionale richiedono un focus storico, breve ma indispensabile. Il mondo arabo contemporaneo si è diviso in due blocchi: le Repubbliche panarabe ben presto diventate golpiste, Egitto, Siria, Iraq, Libia, Algeria, tutte più o meno filo sovietiche, contro le monarchie tradizionaliste, islamiche, petrolifere, filo-americane.

Da una parte, si parlava di panarabismo come lotta armata anticoloniale; dall’altra, di panislamismo come resistenza al colonialismo culturale che passava dallo Stato laico, a cui si opponeva l’imposizione della legge islamica in quanto religione degli arabi. I contendenti hanno presto dato il peggio di sé: le Repubbliche cadute in mano a giunte golpiste, le corone asserragliate dietro l’islamismo che le legittimava. Il panislamismo ha allarmato le petromonarchie dopo l’11 settembre. La primavera araba ha indicato dieci anni dopo il fallimento delle Repubbliche golpiste. Dunque solo le prime hanno saputo autoriformarsi imboccando la via tecnocratica.

Le Repubbliche sono fallite nell’eterno golpismo come dimostra il 2011: ha interessato Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Yemen, in parte l’Iraq, tutte repubbliche dittatoriali. La cosa sorprendente del 2011 è il suo eroe, il suo promotore. Non si tratta di un grande nome, di un leader, un Fidel Castro: siamo davanti a un povero venditore ambulante, Mohammad Bouazizi, che si è dato fuoco davanti alla sua sconosciuta cittadina tunisina, Sidi Bouzid, perché stufo delle angherie della polizia locale che gli confiscava le sue misere mercanzie. Un Jan Palach tunisino ha messo a soqquadro il mondo. Questo Jan Palach tunisino ha innescato un moto rivoluzionario che partito dalla Tunisia è arrivato fino in Iraq.

Non c’erano islamisti in piazza, il 2011 li escludeva ovunque. Era nato un movimento disorganizzato, fluido, ma dall’agenda chiara: «Il vecchio ordine totalitario e tribale va sostituito con uno rispettoso dei nostri diritti». Questa spinta aveva due motori: la miseria delle campagne e degli emarginati urbani e quella studentesca, o dei neo laureati e da ciò scaturiva un movimento fatto di contadini alla fame e di studenti o professionisti determinati. Le monarchie del Golfo temettero il contagio democratico e scelsero di sequestrare la rivoluzione in atto in quei Paesi facendo intervenire gruppi jihadisti che hanno combattuto e ucciso i leader della rivoluzione proclamando ben altri obiettivi. Una partita si gioca tra due squadre, non tre. Eliminati i giovani rivoluzionari con una tacita intesa tra i duellanti si sono poi regolati i conti tra di loro.

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La storia non è stata ovunque uguale, ma semplifico per spiegare perché a mio avviso aveva ragione padre Paolo Dall’Oglio quando diceva che la Primavera Araba era un’occasione senza ritorno. Non inserendosi nel movimento popolare per paura dei jihadisti, le Chiese cristiane hanno facilitato il lavoro dei regimi, che dall’inizio della cura totalitaria hanno sempre usato i cristiani come strumento da far attaccare da bande armate, da aiutare in segreto per poi annunciarne la protezione e ottenere compiacenze europee o occidentali. In questo modo la rappresentazione dei cristiani come quinte colonne dell’imperialismo o del neo colonialismo europeo è uscita rafforzata. I cristiani d’Oriente invece sono in Paesi anche loro, non sono quinte colonne né ospiti.

Ora il dopo guerra può essere l’occasione per ricostruire dalle fondamenta soprattutto un’area, quella cui qui si è fatto riferimento. Ma si può ripartire se si ammette che i totalitarismi hanno perso, come chi li ha fiancheggiati per sete di potere personale.

Il Libano come messaggio potrebbe tornare a pesare nel mondo arabo e trovare il sostegno europeo; il progetto di avvicinare Stati che si sono combattuti nel segno del quasi sconosciuto pluralismo interno può sembrare velleitario ma c’è un qualcosa che li avvicina nella diversità dai tempi antichi: Basileia Romàion vuol dire regno dei Romani, non romano-bizantino, come diciamo noi. Una consapevolezza plurale c’è da allora.

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